LUCERA
(gr. Λουϰεϱία, Λουϰαϱία, Νουϰεϱία ᾽Απουλῶν; lat. Luceria Apula; Luceria Sarracenorum nei docc. medievali)
Cittadina della Puglia settentrionale (prov. Foggia), capoluogo storico della Capitanata.L. è ubicata su un'altura della zona occidentale della piana del Tavoliere. Centro di fondazione dauna e colonia romana dalla fine del 314 a.C., L. dopo la guerra sociale (90-89 a.C.) appartenne alla tribù Claudia; in seguito Augusto vi dedusse una nuova colonia. Della città romana sopravvivono, oltre all'impianto a scacchiera della zona orientale dell'abitato, i resti di una porta urbica in corrispondenza dell'od. porta di Troia (Lippolis, Mazzei, 1984), l'anfiteatro dedicato da Manlio Cecilio Campo ad Augusto e alcuni mosaici pavimentali provenienti da un edificio termale; con molte probabilità il foro doveva essere ubicato ove è ora piazza del Duomo. Nella Tarda Antichità, come attesta la tavola Peutingeriana (Vienna, Öst. Nat. Bibl., 324), L. era attraversata dall'arteria stradale che univa Aecae con Sipontum ed era inoltre collegata da una serie di vie minori, già esistenti ma risistemate in epoca romana, sia con gli abitati circostanti sia con la strada litoranea verso N (Alvisi, 1970, pp. 61-64, 84-90).L. fu sede vescovile dalla fine del sec. 5°; risalgono infatti al 493 e al 494 due lettere di papa Gelasio I con cui il pontefice censura l'operato di un non meglio specificato lucerinus episcopus (Otranto, 1977); ancora nel 559 si ha notizia del vescovo Anastasio, consacrato da papa Pelagio I (Otranto, 1977). Dei vescovi Basso, Pardo, Giovanni e Marco, noti alla tradizione locale, non si hanno informazioni attendibili (Lanzoni, 1927, pp. 275-277). Della città di età paleocristiana si hanno notizie tramite la Vita sancti Pardi, redatta dal diacono Radoyno tra il sec. 10° e l'11°, dalla quale si apprende l'esistenza di una chiesa episcopale e di un battistero ubicati presso le mura, che dovevano quindi essere quelli visibili al tempo di Radoyno e che seguivano, verso S, il percorso della cinta romana. Frammenti di pavimenti musivi con iscrizioni dedicatorie, nelle quali si fa riferimento alla chiesa lucerina e a tre offerenti (Bictorius, Iusta, Maxima), datati tra i secc. 5° e 6°, rinvenuti nei pressi della porta di Troia (Lucera, Mus. Archeologico Giuseppe Fiorelli), confermano l'ipotesi che la città in tali secoli gravitasse in questa area (D'Angela, 1979; 1982a; 1982b); probabilmente, secondo un'ipotesi formulata dalla critica (D'Angela, 1982a), il complesso episcopale dovette essere definitivamente abbandonato per la distruzione di L. nel 663 a opera dell'imperatore bizantino Costante II (Paolo Diacono, Hist. Lang., V, 7).Al periodo precedente la distruzione della città, già longobarda e sede di gastaldato dal tardo sec. 6°, vanno ricondotte tre iscrizioni lapidarie riutilizzate nell'area della domus federiciana, in cui ricorrono nomi di tradizione germanica: Arechi, Winnelaupo e Lupo (Lucera, Mus. Archeologico Giuseppe Fiorelli), e una quarta, ora scomparsa, in cui si ricordava una certa Timotea, figlia di Sigfrido. Le iscrizioni funerarie vanno datate tra l'inizio e la metà del sec. 7° (Carletti, 1983).Poche notizie circa lo sviluppo di L. in età altomedievale sono reperibili sia nelle fonti storiche sia dalle testimonianze archeologiche; alla distruzione del 663 si fa risalire anche il trasferimento del vescovo nella vicina Lesina; nel 743 però a L., nuovamente longobarda, è attestata la presenza del vescovo Marco II, firmatario nel concilio romano di papa Zaccaria I (Mansi, XII, coll. 382-384). In età altomedievale, molto probabilmente, il nuovo complesso episcopale, la cui chiesa era dedicata alla Vergine (Chronicon Beneventani monasterii Sanctae Sophiae), era ubicato nella platea, cioè nell'area già occupata dal foro romano (D'Angela, 1989). È noto però che tale edificio ecclesiastico nel 1238 era in rovina (Huillard-Bréholles, 1854-1857, V, p. 254) e che il vescovo con il clero era stato costretto a trasferire la sede fuori l'abitato a causa della presenza dei saraceni, deportati dalla Sicilia per volontà di Federico II (Huillard-Bréholles, 1854-1857, IV, pp. 457-458). Al periodo altomedievale andava riferita pure una lastra, oggi perduta, decorata con motivi nastriformi a intrecci, tipici della produzione scultorea occidentale (Bertelli, 1989, p. 44).Nel 982 L. ritornò in mano bizantina e dagli inizi del sec. 11° con il catapano Basilio Boioannes la città, assieme ad Ascoli Satriano, Bovino, Troia, Fiorentino, Dragonara e Civitate (prov. Foggia), e a Melfi (prov. Potenza), fece parte della linea di fortificazione voluta dai Bizantini contro il pericolo derivante dalla presenza longobarda nella vicina Campania. Nel 1060 la città fu presa dai Normanni; di questa dominazione, purtroppo, non è pervenuta alcuna testimonianza documentaria e archeologica.È solamente con Federico II che L. acquistò nuovamente una certa importanza politica ed economica; l'imperatore vi trasferì a più riprese, tra il 1233 e il 1246, colonie saracene dalla Sicilia e dalla Tunisia. Per sua volontà, nella zona occidentale della città, cioè sull'acropoli dell'insediamento preromano, fu costruito prima del 1240 un palacium, di cui rimangono resti di strutture parzialmente visibili all'interno della cinta eretta in età angioina. La costruzione, isolata dal contesto urbano, si ergeva su un basamento di m. 50 ca. per lato, forse privo di sotterranei, e si sviluppava su diversi piani (Willemsen, 1968; Calò Mariani, 1992). Nel 1240 i lavori di costruzione dovevano essere in fase avanzata, poiché Federico II fece trasportare statue da Napoli e, nel 1242, dall'abbazia di Grottaferrata. Poco indagata archeologicamente, l'area, che presenta resti di età romana e altomedievale, ha restituito anche numerosi reperti ceramici e in vetro riferibili alla fase sveva, oggi al Mus. Archeologico Giuseppe Fiorelli, sia di produzione locale e musulmana, come le brocche per l'acqua con filtro (Derosa, 1995, p. 516), sia di importazione orientale (Whitehouse, 1966a; 1966b); inoltre sono emersi frammenti di scultura architettonica relativi a chiavi di volta e due teste scolpite di giovinetto e di moro di grande efficacia naturalistica, anche queste ascrivibili al momento federiciano dell'edificio (Calò Mariani, 1992; Derosa, 1995) e conservate anch'esse al Mus. Archeologico Giuseppe Fiorelli.In età angioina il palacium di Federico fu interessato da grandiosi lavori di ristrutturazione e ampliamento, a iniziare dal 1271 sotto la guida di Pierre d'Angicourt, Jean de Toul e Riccardo da Foggia. Di questi imponenti lavori è oggi visibile la cinta muraria provvista di quindici torri quadrangolari e pentagonali e di due circolari; all'interno del recinto sono ancora leggibili le fondazioni di numerosi edifici paralleli fra loro, dotati di tubature con cisterne intermedie, da identificare con i quartieri della guarnigione, i resti del nuovo palazzo angioino, riconoscibile nell'edificio a quattro ali con cortile quadrangolare dal pavimento provvisto di canali per addurre l'acqua alla fontana posta nel centro, e, infine, il tracciato murario della chiesa francescana, a navata unica absidata, fatta erigere da Carlo II (Calò Mariani, 1992). L'aspetto che aveva assunto il palazzo federiciano dopo questi interventi è ancora in parte osservabile in una incisione a stampa eseguita su disegni del francese Jean Louis Despréz nella seconda metà del Settecento (Richard de Saint-Non, 1781-1786, III, tav. 5) e nella Tavola degli archi, della metà dell'Ottocento (D'Amelj, 1861, tav. 9). Degli inizi del sec. 18° è invece l'interessante veduta di L. lasciata da Giovanni Battista Pacichelli (1703), in cui compaiono ancora in piedi sia la chiesa minorita, compresa nel recinto della fortezza, sia gli edifici residenziali, come pure le altre fabbriche religiose realizzate al principio del sec. 14°, come la cattedrale e S. Francesco.All'operato di Giovanni Pipino da Barletta, luogotenente di Carlo II, si fa risalire lo sterminio della comunità saracena nel 1300; per volontà regia la città, dopo tale evento, venne ribattezzata Santa Maria della Vittoria. Contemporaneamente ebbero inizio i lavori di costruzione della cattedrale, consacrata nel 1302, e quelli relativi alla chiesa di S. Francesco, sorte entrambe nell'antico centro urbano, circondato di mura solo nel 1341 per volontà di re Roberto II d'Angiò. La chiesa di S. Francesco, a una sola navata con coro poligonale, realizzata in laterizi con spigoli rinforzati da conci lapidei, mostra per la zona absidale soluzioni molto vicine a quelle leggibili nel coro della chiesa di S. Maria Donnaregina a Napoli. Anche nell'affresco con l'Annunciazione, tra i pochi superstiti all'interno dell'edificio insieme a una Crocifissione e a una Vergine in trono con il Bambino tra due santi, si colgono riflessi della pittura napoletana del sec. 14° (Tocci, 1982).La cattedrale di S. Maria dovette essere costruita sul sito della moschea (muscheta), ove i saraceni si erano riuniti "sub cultu et nomine Machometti" (Codice diplomatico dei Saraceni di Lucera, 1917, nr. 665, p. 332). L'edificio, con semplice facciata definita lateralmente da una piccola torre poligonale e da un possente campanile, presenta tre portali archiacuti con colonnette laterali; al di sopra del portale centrale, entro un'edicoletta, una Madonna stante con il Bambino in braccio ricorda esemplari tardoduecenteschi dell'Italia settentrionale. La zona absidale risulta esternamente arricchita da potenti contrafforti e slanciate monofore. L'interno si articola in tre navate con transetto sporgente e coro poligonale, riprendendo così in parte lo schema di S. Francesco; a divisione delle navate con il transetto sono state utilizzate colonne e semicolonne in verde antico, provenienti da edifici romani. L'altare principale è costituito da una lastra di pietra che si vuole sia stata la mensa di Federico II nella domus di Fiorentino. All'interno sono conservati un crocifisso ligneo di scuola renana, databile tra il 1335 e il 1345 (de Francovich, 1938; D'Elia, 1964), e, nella cappella Gallucci, la statua funeraria di un guerriero giacente ai cui piedi sono due cagnolini, forse da identificare con il sepolcro di Giovanni Pipino da Barletta, opera di uno scultore napoletano della fine del sec. 14° (D'Elia, 1964) e facente parte di un monumento funebre più articolato (Gerola, 1933). Nel tesoro della cattedrale è custodita una pisside in bronzo, guarnita di pietra venturina, coralli e perle, riferibile a una bottega araba del sec. 13° (Di Sciascio, 1995); appartenevano al tesoro ancora altri oggetti suntuari scomparsi nel corso dei secoli (Calò Mariani, 1992, p. LXVI). Nel palazzo del Seminario è conservato un camice ricamato, proveniente dalla chiesa di S. Domenico, appartenuto al beato Agostino Kazotic, vescovo di L. dal 1322 al 1323, con la Vergine in trono con il Bambino, apostoli e santi eseguiti in oro a broccatello e in seta a punto raso su porpora, probabilmente di fattura romana, da ascrivere ai primi anni del Trecento (D'Elia, 1964; Federico II, 1995, pp. 546-547); della metà del sec. 13° è invece un manipolo in sciamito operato a due trame, i cui ricami rappresentano un castello con torri, motivi gigliati e una croce. Ancora nel palazzo del Seminario è un dittico d'argento dorato del sec. 14° di oreficeria sulmonese, come conferma il marchio, con la Crocifissione e Cristo in trono tra i simboli degli evangelisti (D'Elia, 1964; Fucinese, 1968).Nel Mus. Archeologico Giuseppe Fiorelli sono conservati, come si è detto, numerosi reperti in ceramica e in vetro provenienti dagli scavi condotti all'interno di alcuni pozzi ubicati entro il recinto del castello; ritenuti di età federiciana (Whitehouse, 1966a; 1966b; 1982), i frammenti ceramici, in acroma, decorati a bande rosse o in invetriata, protomaiolica e smaltata, sono testimonianza di una produzione sia locale sia di importazione. I vetri, realizzati con colori brillanti, relativi a oggetti da mensa (bicchieri decorati con bugne) e a lastre di chiusura di finestre, mostrano una fattura accurata, dovuta soprattutto a una committenza imperiale, che sembrerebbe legata alla figura di Carlo I (Bertelli, 1990). Ancora al Mus. Archeologico Giuseppe Fiorelli si conservano elementi architettonici di età altomedievale (Bertelli, 1989) e medievale, una Madonna lignea duecentesca opera di un intagliatore pugliese, già nella cattedrale (D'Elia, 1964, p. 25), e una raccolta di monete medievali. Tra i frammenti di sculture ivi conservati vanno ricordati due semicapitelli a foglie lobate, un leone stiloforo e infine le due citate teste, l'una di giovinetto, di intonazione classica, in cui è evidente l'intenzione ritrattistica, l'altra raffigurante il viso di un moro, probabilmente mensole del palacium federiciano (Derosa, 1995).
Bibl.:
Fonti. - F. Lanzoni, Le diocesi d'Italia dalle origini al principio del secolo VII, 2 voll., Faenza 1927; Paolo Diacono, Historia Langobardorum, a cura di L. Bethmann, G. Waitz, in MGH. SS rer. Lang., 1878, pp. 7-187: 144, 147; Kehr, Italia pontificia, IX, 1962, pp. 154-160; Chronicon Beneventani monasterii Sanctae Sophiae, in F. Ughelli, Italia Sacra, X, Venezia 1722, coll. 415-560: 468; Vita s. Pardi, in AASS. Maii, VI, Paris-Roma 1866, pp. 367-370; J.L.A. Huillard-Bréholles, Historia diplomatica Friderici secundi, IV-V, Paris 1854-1857; Codice diplomatico dei Saraceni di Lucera, a cura di P. Egidi, Napoli 1917, pp. 311-312, 331-334; J.C. Richard de Saint-Non, Voyages pittoresque ou description des royaumes de Naples et de Sicile, 4 voll., Paris 1781-1786; G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva diviso in dodici provincie, II, Napoli 1703 (rist. anast. Bologna 1975).
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Derosa, ivi, pp. 470 nr. 3.1, 474 nr. 5.6, 475-476 nr. 5.10, 515-516 nrr. 13.2.1, 13.2.2; S. Di Sciascio, ivi, pp. 537-538 nr. 16.7.G. Bertelli Buquicchio