LUCERA
È del cronista Riccardo di San Germano la preziosa notizia che, tra fine maggio e inizio giugno del 1223, Federico II riuscì a ottenere una prima, consistente vittoria sui saraceni ribelli di Sicilia che, guidati dall'emiro Ibn-῾Abbād ("Myrabettum Sarracenorum ducem"; v. Mirabetto), da anni razziavano e rendevano insicuri i territori della parte occidentale dell'isola, i monti di Gibellina, l'altopiano di Racalmuto e le colline che sovrastano la Conca d'Oro. Alla vittoria seguì una dura repressione, che intendeva risolvere il problema una volta per tutte e servire come monito per il futuro. Una parte cospicua di rivoltosi, non solo i combattenti superstiti ma anche le loro famiglie, fu sradicata dai propri villaggi e deportata in Puglia: a Lucera, aggiunge Riccardo nella seconda edizione della sua Chronica. Il conflitto, tuttavia, non terminò con la vittoria del 1223, e furono necessari altri due anni di impegno militare perché l'imperatore riuscisse a domare le rivolte saracene, che nell'isola conobbero tra l'altro una ripresa negli anni Quaranta, con una nuova deportazione a Lucera di ribelli dal territorio di Jato (v. Saraceni di Sicilia).
Sulle reali motivazioni dell'atteggiamento conflittuale dei musulmani, che in certi momenti sembrava aver assunto caratteri di scontro religioso ‒ ad esempio con l'attacco all'ospedale dei lebbrosi presso Palermo e con l'occupazione della cattedrale di Agrigento e la presa in ostaggio del suo vescovo ‒ non sappiamo molto: ma è facile ipotizzarne un rapporto diretto con la crisi economica che stava investendo l'isola, con il lungo vuoto di potere che aveva caratterizzato il Regno e con gli stessi indirizzi di politica economica e sociale dello Svevo. Ancor meno conosciamo delle fasi e delle vicende delle campagne militari che contro di loro occuparono il sovrano, anche in prima persona, negli anni tra 1222 e 1225. Ci sfuggono soprattutto gli effettivi motivi che lo indussero a scegliere Lucera come sede dei deportati. In realtà, il trasferimento forzoso riguardò anche altri casali della Capitanata, da Stornara a Castelluccio, ma è indubbio che fu Lucera a ricevere il maggior numero di saraceni e, quel che più conta, fu Lucera a identificarsi rapidamente e sino al 1300 con i nuovi abitanti.
Deve aver indubbiamente pesato, nella scelta dello Svevo, in primo luogo il ruolo di 'laboratorio politico e territoriale' assegnato alla Capitanata: è appunto la Capitanata, lo si vedrà con maggior chiarezza nei decenni successivi, la circoscrizione che Federico II dota del maggior numero di castra e di domus, in cui impianta il maggior numero di aziende produttive (le massarie regie), in cui stabilisce gerarchie urbane nuove (Foggia preferita alla vicina e filopapale Troia), in cui risiede più che altrove. Ed è la Capitanata il banco di prova anche di 'esperimenti' di convivenza sociale e religiosa. In questo quadro si inserisce e si giustifica la decisione di 'puntare' su Lucera, città di antica storia, con radici che affondavano sin nell'età preromana, ma ormai da tempo decaduta e in fase di spopolamento. Una città, sembrerebbe, anche in crisi di identità, se è vero che negli Annales Siculi, nel passo in cui si dà notizia della deportazione, la si può confondere con un'altra località, Nocera ("ejecit omnes Saracenos de Sicilia et misit eos apud Noceriam in Apulia"). E se può ben dirsi che era la presenza del vescovo ad attribuire a un insediamento la qualifica di città, a ragione Lucera era stata pienamente città verso la fine del sec. V, come ci informano due lettere di papa Gelasio I, poi al tempo del vescovo Anastasio, nel sec. VI, e del vescovo Marco, verso la metà dell'VIII. La serie dei vescovi successivi ci è nota; va segnalato almeno il nome di Landenolfo, tra fine del sec. X e inizi dell'XI, all'epoca delle vertenze sui beni del monastero di Montecassino in Lesina, pertinenza della sede lucerina (i cui vescovi vi risiedevano ancora nella prima metà del sec. XI), che i bizantini vollero innalzare al rango di arcivescovado, quasi premiandone il carattere di unica diocesi estranea alla giurisdizione dell'arcivescovo di Benevento, in un territorio perennemente conteso ai longobardi. Di un gastaldo longobardo vi è notizia già nella Lucera della fine del sec. VIII, e nel 998 la città, vescovo Landenolfo, è retta da quattro gastaldi che amministrano secondo il diritto longobardo; saranno di lì a poco sostituiti da un turmarca, dignità bizantina. Effimero e transitorio, il titolo arcivescovile non valse a impedire che dopo il 1019, anno della rifondazione di Troia a opera del catepano Basilio Boioannes, alla nuova diocesi venisse assegnata una parte del territorio lucerino.
Integrata nel sistema di borghi fortificati realizzato da Basilio in difesa della parte settentrionale e occidentale della Capitanata (ne facevano parte tra l'altro, con Troia, anche le "città nuove" di Civitate, Dragonara, Tertiveri, Montecorvino, Castelfiorentino, Biccari), Lucera conobbe di lì a poco la presenza dei nuovi conquistatori, i normanni: il primo signore normanno di cui si abbia notizia per Lucera è Tristano, nel 1063, seguito dal conte Enrico di Monte Santangelo, marito di una figlia del gran conte Ruggero I, il conquistatore della Sicilia. Passata nel 1107 nelle mani del duca Ruggero Borsa, la città rimase a lungo sotto il dominio del figlio Guglielmo e di sua moglie Alberada, figlia del conte di Lecce, per poi diventare quasi certamente città demaniale nella seconda metà del sec. XII. Ai normanni è solitamente attribuita la costruzione, o il rafforzamento, di un edificio castellare in posizione semiperiferica rispetto al nucleo urbano, con funzioni di controllo politico e militare, più che di difesa della città. Dell'esistenza di questo castello non ci è giunta traccia, se si esclude, come vedremo, un labile riferimento in un documento di età federiciana.
Demaniale era la Lucera visitata per la prima volta da Federico II nel 1221: una città dalla lunga storia, ma dal presente incerto. Il suo distretto rurale si era da tempo ridotto a favore di Troia, e una nuova località, Foggia, si rivelava temibile concorrente sul piano demografico, oltre che economico. E c'è da aggiungere che nelle campagne lucerine, a sud della città, in corrispondenza dell'attuale località di Monte Castellaccio, era andata rapidamente crescendo, almeno dalla fine del sec. X, una località, oggi scomparsa, che ben presto si era guadagnata il titolo di civitas, per quanto priva di un suo vescovo e dipendente dalla diocesi lucerina: Vaccarizza, oggi all'attenzione degli archeologi ‒ al pari di S. Giusto, nell'omonima contrada presso il torrente Celone, "villa" romana ampliata in età altomedievale, una tappa della via sacra Langobardorum citata ancora nel sec. XII come casale ‒, è uno dei centri rurali cui si deve la ripresa demografica ed economica della Capitanata dopo il Mille (sarà poi disabitato e abbandonato nel Duecento). Lucera non poteva non risentirne in qualche modo. Le sue campagne, tra le più fertili del territorio, erano scarsamente coltivate e popolate: una vistosa contraddizione, che si comprende ricordando che proprio le caratteristiche topografiche e insediative della città ne rappresentavano un punto di forza e, nel contempo, un elemento di debolezza. Sorta su tre colli a circa 240 m sul livello del mare, in una posizione centrale tra Gargano, Tavoliere e subappennino dauno, la città poteva svolgere al meglio funzioni strategico-militari, di controllo territoriale, di 'posto di vedetta': un dato valorizzato specialmente in tempi di insicurezza. Quando però, a partire dai secc. X-XI, e soprattutto nel sec. XII, si sviluppa in tutta la Capitanata un processo di riconquista della pianura, di passaggio dagli insediamenti collinari a quelli del piano, di nuova colonizzazione agraria, Lucera ne è interessata in misura assai limitata, sia per la forte capacità attrattiva esercitata dalle vicine Vaccarizza e Foggia, sia per gli oggettivi limiti imposti dalla sua posizione arroccata sulle colline, priva di possibilità di crescita di sobborghi, sia ancora per lo scarso numero di casali e loci agricoli su cui far leva per favorire la messa a coltura di nuove terre.
È merito di Federico II aver colto le possibilità di uno sviluppo nuovo e complessivo dell'antico centro, riportando a sintesi unitaria il dato strategico della sicurezza militare del luogo e la presenza di un territorio in potenza altamente produttivo. Perché il meccanismo potesse avviarsi e funzionare al meglio, occorreva però innanzitutto uno 'choc demografico', un innesto rapido e consistente di nuovi abitanti: la deportazione dei saraceni rappresentava, in questa logica, la soluzione ideale, sia sul piano della quantità (si è calcolato un numero compreso tra i trentamila e i sessantamila nuovi abitanti, cifre senz'altro da ridimensionare), sia su quello della 'qualità sociale'. I saraceni erano esperti coltivatori e allevatori, abili artigiani, validi combattenti (come fanteria di arcieri rappresentarono poi la punta di diamante dell'esercito di Federico, che se ne servì anche come guardia del corpo): qualità dimostrate pure a Lucera, anche se non potevano mancare ‒ infatti non mancarono ‒ i tentativi di sottrarsi con la fuga alla nuova condizione.
Si trattava per altro, superato il trauma della feroce deportazione, di una condizione relativamente accettabile. Giuridicamente considerati servi della Curia regia, i saraceni lucerini godevano di importanti garanzie collettive: la libertà di culto, la possibilità di conservare usanze, tradizioni e articolazioni sociali, un certo grado di controllata autogestione amministrativa, rappresentata dalla figura degli "alchadi" o qād.ī, quasi certamente con funzioni giudiziarie. Al fisco dovevano una duplice imposta, "canonem et gesiam", ovvero un canone annuo, parte in natura, parte in danaro, per l'utilizzo delle terre demaniali, e la ǧizya, imposta personale in quanto musulmani. Avevano diritto di semina anche su campi non demaniali, ed erano esentati dal pagamento dei diritti "pascendi et sumendi aquam", in realtà compresi nel canone, e in certi periodi anche di quelli legati alle attività mercantili, il piazzatico, il pedaggio, l'imposta doganale, la quale ultima gravava invece solitamente per il 10 per cento sui musulmani, e solo per il 3 per cento sui mercanti cristiani extraregnicoli. Notevole impulso al commercio fu dato dall'istituzione a Lucera di una delle grandi fiere del Regno (v. Fiere e mercati), che si svolgeva dal 24 giugno al 1o luglio, a ridosso delle attività di mietitura e trebbiatura. Erano affidate ai saraceni anche la gestione e la cura delle greggi ovine della corte, dietro la consegna, ogni anno, di un certo numero di capi, che andavano spesso a rimpinguare la non sempre elevata quantità di ovini presenti nelle massarie regie. Coloni e allevatori, i saraceni esercitavano con pari perizia l'artigianato: carpentieri, sellai, vasai, tappezzieri, dicono le fonti sveve, e orefici, tessitori, sarti, scudai, intarsiatori, ciabattini e via dicendo, aggiungono quelle della successiva età angioina. Ed è noto l'ordine federiciano, datato 21 febbraio 1240, per il pagamento agli apprezzati specialisti della fabbricazione delle armi, "magistris sarracenis, tarisiatoribus, carpentariis, magistris facientibus arma [...] et ceteris magistris qui tam de ferro quam de arcubus et aliis operibus laborant ad opus nostrum" (Historia diplomatica, V, 2, p. 764) nelle officine regie di Lucera, Melfi, Canosa. Le stesse donne musulmane, a meno che non ci si voglia accontentare della tradizionale interpretazione che le vuole a disposizione del sovrano in un apposito harem, furono impiegate in lavori tessili nel laboratorio artigianale collegato alla camera regia.
L'innesto dei nuovi abitanti comportò necessariamente due conseguenze 'forti': un'incisiva ristrutturazione urbanistica di Lucera, che ne venne trasformata di fatto in città saracena (è un errore ormai consolidato parlare di una "Lucera araba": i musulmani deportati dalla Sicilia erano saraceni, non arabi; non a caso l'espressione dei documenti coevi è "Luceria Sarracenorum"), e una contrastata convivenza con la locale comunità cristiana. Sul piano urbanistico sappiamo poco: si può ipotizzare che l'addensarsi di nuove abitazioni abbia in qualche modo alterato il precedente impianto geometrico romano e altomedievale. È certo che venne costruita una grande moschea, nel sito dell'attuale cattedrale, poi edificata ex novo appunto sulle rovine della moschea dopo la distruzione della città e l'espianto dei saraceni a opera del barlettano Giovanni Pipino, su ordine di Carlo II d'Angiò, nell'agosto del 1300. Sulla realizzazione di un nuovo circuito murario dotato di porte la discussione è ancora aperta: la fortificazione del nucleo urbano ebbe invece nel palatium federiciano il suo punto di forza. Ordinato nel 1233, esso si aggiunse quasi certamente alla struttura castellare di età normanna: per Lucera, il cosiddetto Statutum de reparatione castrorum (v.), una sorta di censimento, realizzato nel periodo 1241-1246, delle strutture fortificate di cui la corte aveva la disponibilità nell'intero Regno, riporta infatti la notizia dell'esistenza di due castra, l'uno che doveva essere riparato dai saraceni (ed è il palatium federiciano), l'altro che invece spettava riparare ai cristiani.
A un tempo confortevole residenza ed edificio fortificato, la struttura voluta da Federico nel sito dell'acropoli, sul Monte Albano, si presentava come robusto ma elegante edificio a pianta quadrata impostato su una base piramidale tronca e, quasi un torrione, si innalzava per tre piani e comprendeva un totale di trentadue vani; il cortile quadrato all'altezza del secondo piano acquisiva una forma ottagonale, quasi un anticipo della figura geometrica su cui sarà successivamente impostato Castel del Monte. Alcune torri laterali completavano l'edificio, che non presentava ingressi al piano terra, sostituiti probabilmente da un sistema di scale mobili esterne. Arricchito da opere artistiche, da statue in pietra e in bronzo importate anche dall'Oriente, il 'castello' ospitò il sovrano con il seguito di funzionari nelle sue non numerose visite alla città, ma anche i soldati della guarnigione, la camera regia, i laboratori artigianali; nei pressi (o al suo interno) erano dislocati la zecca e quel singolare istituto scientifico, la Dar al-'ilm, una sorta di fondazione culturale aperta ai dotti dell'epoca, che una fonte araba cita nell'età di re Manfredi, il "sultano di Lucera", come anche fu chiamato. Un appartamento pare fosse riservato anche a un notabile saraceno locale, quel Giovanni Moro (v.), musulmano convertito già fedele dell'imperatore e governatore in suo nome, che secondo il cosiddetto Jamsilla tentò invece di opporsi a Manfredi, finendo giustiziato nel 1254.
Rovinato dal tempo e dall'incuria, saccheggiato nei secoli per farne a sua volta materiale da costruzione (singolare contrappasso, dal momento che per la sua costruzione erano stati riutilizzati in misura massiccia materiali di edifici preesistenti), dell'edificio federiciano non ci rimangono oggi che lo zoccolo perimetrale, parte delle pareti a scarpa, e il basamento centrale, il tutto inserito all'interno (sul lato nord-est) del circuito turrito del nuovo castello voluto da Carlo I d'Angiò, una piazzaforte militare progettata da architetti militari francesi e locali, Pierre d'Angicourt, Jean de Toul e Riccardo da Foggia tra gli altri, ai quali ‒ pare ormai accertato ‒ il sovrano ordinò anche di ristrutturare il palatium federiciano, esaltandone il carattere di castrum. Ed è quindi la sintesi tra l'edificio originario e la ristrutturazione angioina l'immagine del castello svevo che ci è stata tramandata nei disegni del pittore francese Jean-Louis Desprez (1778, dodici anni prima del definitivo smantellamento del palazzo) e nella tavola pubblicata nella seconda metà dell'Ottocento da Giambattista D'Amelj.
Rispetto alla locale comunità cristiana non mancarono tensioni e contrasti, pur nel quadro di una sostanziale convivenza. Se ne lamentò più volte papa Gregorio IX, osservando a fine 1232 che i saraceni, per procurarsi mattoni e legno per i loro edifici, stavano praticamente distruggendo la chiesa di S. Pietro in Bagno (proprietà del monastero di S. Lorenzo di Aversa), e chiedendo l'anno seguente che nella città venisse autorizzata la presenza dei Domenicani, con l'obiettivo di una conversione in massa. Conversione sostanzialmente fallita: i cristiani rimasero minoritari, al punto che lo stesso vescovo, per comunicare, dovette imparare a esprimersi in arabo. Più che all'interno della città, contrasti armati si verificarono nel territorio rurale e nei confronti delle località vicine, dei loro contadini e dei loro allevatori, che si videro spesso sottrarre fertili campi e razziare raccolti e animali. Ed è certo in questa contraddizione mai risolta, aggravata dalle differenze di fede, una delle cause di fondo della decisione dell'angioino Carlo II di chiudere definitivamente, con la distruzione totale della città saracena, l''esperimento' federiciano.
Fonti e Bibl.: Niccolò Jamsilla, Historia de rebus gestis Friderici II imperatoris ejusque filiorum Conradi et Manfredi Apuliae et Siciliae regum, in G. Del Re, Cronisti e scrittori sincroni napoletani, II, Napoli 1868, pp. 105-200; E. Sthamer, Die Verwaltung der Kastelle im Königreich Sizilien unter Kaiser Friedrich II. und Karl I. von Anjou, Leipzig 1914 (trad. it. L'amministrazione dei castelli nel regno di Sicilia sotto Federico II e Carlo I d'Angiò, a cura di H. Houben, Bari 1995); P. Egidi, Codice diplomatico dei Saraceni di Lucera, Napoli 1917; Annales Siculi, in R.I.S.2, V, 1, a cura di E. Pontieri, 1927-1928; Riccardo di San Germano, Chronica, ibid., VII, 2, a cura di C.A. Garufi, 1936-1938. A. Haseloff, Die Bauten der Hohenstaufen in Unteritalien, I-II, Leipzig 1920 (trad. it. Architettura sveva nell'Italia meridionale, a cura di M.S. Calò Mariani, presentazione di C.A. Willemsen, I-II, Bari 1992); P. Pieri, I Saraceni di Lucera nella storia militare medievale, "Archivio Storico Pugliese", 6, 1953; J.-M. Martin, La colonie sarrasine de Lucera et son environnement. Quelques réflexions, in Mediterraneo medievale. Scritti in onore di Francesco Giunta, II, Soveria Mannelli 1989, pp. 797-811; Miscellanea di Storia Lucerina. Atti del III Convegno di studi storici (Lucera, 1989) II, Foggia 1989 (in partic.: P. Corsi, Aspetti di vita quotidiana nelle carte di Lucera del secolo XIII, pp. 35-75; J.-M. Martin, I saraceni di Lucera, pp. 9-34); N. Tomaiuoli, La fortezza di Lucera, ivi 1990; J.-M. Martin, Foggia, Lucera, in Itinerari e centri urbani nel Mezzogiorno normanno-svevo. Atti delle decime giornate normanno-sveve (Bari, 21-24 ottobre 1991), Bari 1993, pp. 333-363; R. Licinio, Castelli medievali. Dai Normanni a Federico II e Carlo I d'Angiò, presentazione di G. Musca, ivi 1994; C.T. Maier, Crusade and Rhetoric against the Muslim Colony of Lucera: Eudes of Châteauroux's Sermones de Rebellione Sarracenorum Lucherie in Apulia, "Journal of Medieval History", 21, 1995, pp. 343-385; J. Taylor, Lucera Sarracenorum: una colonia musulmana nell'Europa medievale, "Archivio Storico Pugliese", 52, 1999, pp. 227-242.