lucere
Il verbo, che è di largo uso soprattutto nella Commedia, ricorre con particolare frequenza nella forma del participio presente, con valore sia attributivo che predicativo, e una volta di sostantivo. La consueta accezione di " mandar luce ", " risplendere ", è comune in pratica a tutte le occorrenze, acquistando però connotazioni particolari non soltanto nell'uso figurato, ma anche nell'ambito stesso di quello proprio, a seconda dei contesti.
Si allude a un autentico ‛ splendore ' quando si tratta di corpi celesti, per es. del sole, che luce ne la parte ove dimora / la donna (Cv III Amor che ne la mente 21), o il cui raggio non par che luca attraverso il corpo di D. vivo (" el sole non lo penetrava chome l'anime incorporee, ma rimaneva ropto ", Landino), suscitando la meraviglia dei penitenti (Pg V 4); è ancora del sole il raggio lucente che... 'nforca la stella d'amor (Rime C 5; cfr. anche Pg XV 141). Nell'apostrofe che Virgilio pronuncia con gli occhi fisamente ‛ porti ' al sole - O dolce lume... / Tu scaldi il mondo, tu sovr'esso luci, Pg XIII 19 - la chiara allusione a Dio, di cui il poeta " invoca l'aiutorio " (Ottimo), nulla toglie al valore proprio dell'espressione; per contro, l'assenza di luce è l'elemento che caratterizza tutto l'Inferno (con l'unica eccezione di quella zona del Limbo in cui sorge il nobile castello: cfr. If IV 116 loco aperto, luminoso e alto): E vegno in parte ove non è che luca (v. 151), non essendoci nemmeno il foco di cui ha parlato prima (v. 68).
Chiara e lucente è anche la stella, che tuttavia talvolta può non apparire tale: per esempio, quando a la presenza del sole... lo mezzo [l'atmosfera], che è diafano, è tanto pieno di lume che è vincente de la stella, la quale dunque [non] pare più lucente (Cv III IX 11 [due volte] e 12); così in Vn III 11 6 [il] tempo che onne stella n'è lucente, " riluce " (si veda per il costrutto Guinizzelli Al cor gentil 5-6 " ch'adesso con ' [" non appena ", Contini] fu 'l sole, / sì tosto lo splendore fu lucente "). Alle stelle si allude inoltre, pur se indirettamente, nella complessa metafora dell'Aurora, la cui fronte era di gemme... lucente, / poste in figura del freddo animale / che con la coda percuote la gente (la costellazione dello Scorpione o, secondo altri, dei Pesci: Pg IX 4); lucente, sia pure di luce riflessa (e pertanto qui l'aggettivo vale " illuminata ", oltre che " splendente "), è la luna, che Aristotele vide entrare sotto a Marte da la parte non lucente, e Marte stare celato tanto che rapparve da l'altra parte lucente de la luna (Cv II III 6; altrove soggetto del verbo è la luminositade della luna: cfr. XIII 9, due volte). Analogamente, con gli stessi due aggettivi usati per la stella: 'l ciel sempr'è lucente e chiaro, " luminoso " di una luce diffusa, piuttosto che " splendente " (Cv III Amor che ne la mente 77; e cfr. anche Brunetto Latini Tesoro volgarizzato da Bono Giamboni, II 38 [ediz. Gaiter, Bologna 1878, 332]: " sopra il firmamento è un cielo molto bello e chiaro e lucente ").
Due volte l'aggettivo è riferito a oggetti concreti, " rilucenti " perché di metallo, come l'aureo dardo di Amore (Rime CIV 72; cfr. anche Fiore CCXXIII 10, ma in un contesto metaforico), o " risplendenti " di una ben più intensa e abbagliante luminosità per il contatto con il fuoco: già mai non si videro in fornace / vetri o metalli sì lucenti e rossi, / com'io vidi un... (Pg XXIV 138). Questo un è l'angelo guardiano del girone dei golosi, che con il suo fulgore toglie la vista a D. (v. 142); altrettanto aveva fatto l'angelo nocchiero, apparso al poeta come un lume anch'esso dalla luce rossastra (qual... / per li grossi vapor Marte rosseggia..., II 14), dapprima di modeste dimensioni, poi più lucente e maggior fatto (v. 21); e infine visto come uccel divino, tanto chiaro che l'occhio da presso nol sostenne (vv. 38-39).
Naturalmente i riferimenti di questo tipo, cioè a esseri incorporei, sono più numerosi e rilevanti nel Paradiso, il regno della luce per eccellenza, dove la presenza del verbo, sovente in relazione a sostantivi della stessa radice, dà proprio l'idea di un continuo e intenso balenare (v. LUCE). E tanto più appropriato è il verbo, in quanto gli spiriti si presentano a D. sotto forma di lumi; sicché ben può dire Giustiniano - la lumera che alla domanda di D. si fa lucente più assai di quel ch'ell'era, " volens narrare inclita gesta sua " (Benvenuto; cfr. Pd V 132) - che dentro a la presente margarita / luce la luce di Romeo (VI 128; cfr. Matt. 5, 16 " luceat lux vestra "). Analogamente, quasi in segno di plauso alle parole dell'aquila, tutte quelle vive luci, gli spiriti che ne avevano formato l'immagine (altrove definiti lucenti incendi / de lo Spirito Santo, XIX 100), vie più lucendo, cominciaron canti (XX 11), richiamando l'immagine del cielo che si rifà parvente / per molte luci, le stelle (vv. 5-6); cfr. ancora il v. 37, e XII 139, dove al verbo è unito, in forma enclitica, un pronome: lucemi dallato / il calavrese abate Giovacchino. Lo splendore del cielo del Sole suggerisce a D. una supposizione - Quant'esser convenia da sé lucente / quel ch'era dentro al sol dov'io entra'mi, / non per color, ma per lume parvente!, X 40 - che troverà presto conferma: Io vidi più folgór... / più dolci in voce che in vista lucenti (v. 66; alcuni commentatori, specie antichi, riferiscono a Beatrice l'espressione quel ch'era dentro al sol, con la quale i moderni intendono invece designate le anime dei sapienti: infatti Casini-Barbi rimandano a Dan. 12, 3 " Qui... docti fuerint fulgebunt quasi splendor firmamenti ". Cfr. anche V 96). E ancora, in un vero e proprio tripudio di luce, vid'i' sopra migliaia di lucerne / un sol che tutte quante l'accendea / ... e per la viva luce trasparea / la lucente sustanza, " cioè l'umanità di Cristo " (Buti: Pd XXIII 32). Infine, il lucente (XIII 56), senz'altro, è il Padre da cui promana la viva luce del Figlio, " lumen ex lumine " (cfr. il Simbolo niceno; alcuni commentatori rimandano inoltre al fontale principio di Cv III XIV 5).
L'uso figurato impegna per lo più soggetti astratti: così, accanto al metaforico sole nuovo (il volgare usato nel commento alle canzoni del Convivio), che darà lume a coloro che sono in tenebre e in oscuritade per lo usato sole [il latino] che a loro non luce, non " risplende ", in quanto non sono in grado d'intenderlo (Cv I XIII 12; la metafora si completa con le immagini delle tenebre e dell'oscuritade), abbiamo la Gramatica che, come la luna, luce or di qua or di là per l'avvicendarsi, nell'uso, di certi vocabuli, certe declinazioni, certe construzioni (II XIII 10); abbiamo la nobilitade che luce e risplende per tutta la vita del nobile (IV XXIII 2: si noti la dittologia sinonimica); e ancora, il ‛ risplendere ' della virtù angelica mista per lo corpo [" compenetrata e unita col corpo celeste ", Scartazzini-Vandelli]... / come letizia per pupilla viva (Pd II 143), accanto a quello della grazia divina che consente il viaggio ultraterreno di D. vivo (Pg XX 42) e a quello della gloria dei due principi da Dio ‛ ordinati ' per la salvezza della Chiesa (Pd XII 36). Analogamente: se la fama tua dopo te luca... (If XVI 66), affine per il concetto a Pd XII 135 Pietro Spano, / lo qual giù luce in dodici libelli (" qui luce, variante di facile formazione, è erronea o almeno triviale; significa ‛ luce qui in cielo ', mentre la fama affidata ai dodici libri delle Summulae non può esser vista da San Bonaventura che esclusivamente quale gloria terrena ", Petrocchi, ad l.); " risplende " infine nel Paradiso (in quanto la luce divina ne potenzia le facoltà intellettive) la mente che in terra fumma (XXI 100; e cfr. il v. 83).
Se metaforica è la donna - la Sapienza - di Cv III Amor che ne la mente 34 (li occhi di color dov'ella luce / ne mandan messi al cor pien di desiri, ripreso in XIII 11: si tratta ancora, dunque, di un'‛ illuminazione ' dell'intelletto), reale è quella della sestina doppia Amor, tu vedi ben (cfr. questa voce), che ne li occhi sì bella mi luce / quando la miro, ch'io... (v. 40), con evidente allusione a un fulgore di bellezza fisica. (‛ Luce ' è una delle parole-rima della sestina, in cui ricorre, anche come sostantivo, tredici volte. Come forma verbale ritorna altre due volte: con qualche attinenza al senso proprio al v. 5, detto del raggio d'Amore ch'al volto mi luce; con riferimento a fatti stilistici, nel congedo: Canzone... / io ardisco a far per questo freddo / la novità che per tua forma luce [v. 65], " risplende mostrandosi a tutti attraverso la tua... forma, la forma metrica e stilistica che io ti ho data ", Barbi-Pernicone).
Donna reale è pure Beatrice, che su nell'Empireo riceve onore, / e luce di un fulgore tutto spirituale (Vn XLI 11 7: " È qui il primo germe della visione mirabile del Paradiso, c. XXXI, vv. 71-72 ", Barbi-Maggini): e di Beatrice D. ricorda anche il fulgore degli occhi, splendenti di bellezza - Lucevan li occhi suoi più che la stella, If Il 55; e poco importa che questi occhi siano " la ragione e lo intelletto de' santi uomini, i quali rilucono più che ogni stella o pianeta: imperò che in essi riluce la somma luce; cioè Idio infinito et eterno ", Buti - o rilucenti di pianto: li occhi lucenti lagrimando volse (v. 116), gli occhi " lacrimanti ", essendo il gerundio " riferito non al sogg. (Beatrice), ma al complem. (occhi), come spesso in antico si faceva " (Scartazzini-Vandelli). L'espressione non è nuova agli stilnovisti: cfr. Guinizzelli Vedut'ho la lucente stella diana 6 " occhi lucenti, gai e pien' d'amore "; e soprattutto Lapo Gianni Questa rosa novella 14 " li occhi suoi lucenti come stella ".