SERVADIO, Lucia (
Lucia Bedarida). – Nacque ad Ancona il 17 luglio 1900, primogenita e unica femmina di cinque figli in una famiglia agiata di origine ebraica. Il padre, Cavour Servadio, nato nel 1862 ad Ancona, era un uomo d’affari in contatto con diverse corporazioni straniere. La madre, Gemma Vitale, nata nel 1878, veniva da Torino dove era cresciuta in un ambiente colto che le aveva permesso di studiare diverse lingue, di diventare una pianista esperta e un’abile infermiera. Come di consueto in quegli anni, pur mantenendo un’identità ben saldata alla tradizione ebraica, il livello di integrazione sociale e culturale del nucleo familiare con il resto della popolazione italiana fu ottimo. Lucia sin da piccola si dimostrò brillante negli studi, tanto da terminare la scuola superiore a sedici anni con votazioni eccellenti, per poi conseguire la laurea in medicina all'età di ventidue anni. Venne, infatti, definita la più giovane donna medico d’Italia. La scelta di intraprendere quella carriera fu determinata dagli orrori della Prima guerra mondiale e dal vissuto della madre infermiera, dalla quale Lucia assorbì con coinvolgimento e curiosità esperienze e conoscenze. Inizialmente iscrittasi alla facoltà di medicina a Torino, si trasferì poi a Roma (1916-1917) per svolgere i restanti anni di studio. Il 17 luglio 1922, giorno del suo ventiduesimo compleanno, ottenne con lode il titolo di dottore in medicina e chirurgia, a cui seguì la proposta di pubblicazione della tesi sperimentale intitolata Alterazioni del parenchima epatico nelle colecisti acute. In quegli anni non era frequente che una donna conseguisse una laurea in medicina: «[…] era ancora inculcata e radicata nella mentalità dell’epoca l’opinione che certi tipi di lavoro non si addicessero al sesso, allora considerato debole» (Servadio Bedarida, 1989, p. 1). A cavallo tra il 1890 e il 1900, l’attribuzione alla donna di un ruolo minoritario e subalterno rappresentava un tratto culturale tipico della tradizione italiana, emerso grazie all’azione di contrasto e all’impegno emancipazionista di diverse donne, che ebbero il merito di accostare alla svilente identificazione della donna il campo medico e assistenziale tramite un qualificato impegno professionale, culturale e sociale. Proprio sulla scorta dei principi resi concreti dall’attivismo pratico e sociale di gruppi femminili, si plasmò la vita professionale e privata di Lucia, continuamente equilibrate e bilanciate tra loro. Fu così che dovendo accantonare il desiderio di seguire la specializzazione in chirurgia infantile a Londra, e potendosi dedicare maggiormente alla vita sociale, nel 1923 Lucia si fidanzò e poi sposò con il dottor Nino Vittorio Bedarida. Nato nel 1889 in una famiglia ebrea benestante in Piemonte, Bedarida era diventato medico nel 1916 e nel 1923 era assistente chirurgo all’ospedale San Giovanni di Torino. L’affiatamento tra i due, che avrebbe segnato tutta la loro vita coniugale, era sicuramente alimentato dai comuni interessi professionali. Lavoravano spesso unendo le loro menti nella produzione di ricerche bibliografiche, di pubblicazioni scientifiche e di lavori di ricerca in laboratorio, nella pratica di atti chirurgici e nella definizione delle diagnosi dei pazienti. Nel 1930 la coppia di medici si spostò con le tre figlie (Paola, Mirella e Adria) da Torino a Vasto, dove Nino Bedarida prese il posto di primario chirurgo e direttore dell’ospedale civile. Ma se sino a quel momento la dittatura fascista, ormai stabilizzata e assestata, non aveva influenzato direttamente il percorso della famiglia Bedarida Servadio, successivamente al 1933 Lucia e Nino furono obbligati a iscriversi al Partito nazionale fascista e finirono per ricoprire posizioni di grande prestigio in un clima di collaborazione esplicita. La normale quotidianità familiare venne interrotta nel 1938, quando a settembre fu annunciata la promulgazione delle leggi razziali, che portarono all’espulsione degli ebrei stranieri prima e di quelli italiani poi. Nel 1940 insieme al marito decisero di lasciare l'Italia. Dopo molte difficoltà e tentativi falliti, il 18 ottobre 1940 Lucia e la sua famiglia raggiunsero Tangeri, in Marocco, una zona internazionale lontana da qualsiasi influenza delle leggi razziali, amministrata da sette paesi europei. La famiglia poté godere della straordinaria accoglienza del Consolato generale d’Italia in Marocco, della lontananza dalla guerra che sconvolgeva l’Europa e di una tradizione culturale, un clima e un paesaggio che Lucia avrebbe ricordato con grande gioia fino agli ultimi giorni della sua vita. In Marocco ebbe l'opportunità di consolidare e rafforzare la sua passione per l’arte medica e si guadagnò in breve tempo un’ampia clientela femminile. Verso i due coniugi cominciò ad affluire la popolazione autoctona attratta da un lato dalla fama del dottor Bedarida, dall’altro richiamata dal genere della dottoressa Servadio. In una conferenza tenuta a New York nel 1989 e intitolata La donna e la medicina, Lucia raccontò: «l’etica mussulmana […] proibisce alle donne di esporre la propria nudità alla vista maschile. Allora mi è capitato di esaminare donne venute anche da paesetti lontani a dorso d’asino, le quali mi hanno dichiarato di non essere mai state esaminate da un medico e venivano a me solo perché si era sparsa la voce che a Tangeri c’era una brava “Tubiba” (tubib è il termina arabo per dottore)» (Servadio Bedarida, 1989, p. 5). La professionalità di Lucia Servadio fu costantemente caratterizzata da una visione della salute quale diritto che il medico deve tutelare perseguendo l’obiettivo dell’equità sociale, principio che fino a quel momento non rappresentava ancora la parte fondante dei sistemi sanitari europei. La sua attività fu contraddistinta da una instancabile dedizione alla cura dell’altro, atteggiamento influenzato da quello che Lucia descriveva come 'spirito femminile', ovvero propensione a una maternità estesa a cui ascrivere una funzione sociale. Grazie al riconoscimento della sua professionalità, Servadio ricevette diversi incarichi e nomine: fu scelta dall’Organizzazione mondiale per la salute e le Nazioni Unite come medico per il Marocco e fu invitata a lavorare per il ministero della Salute marocchino al fine di supportare le donne svantaggiate del Paese. Fu il medico referente del Consolato generale d’Italia a Tangeri, così per la scuola italiana e per quella americana; nel 1946 fu scelta come consulente medico dalla legazione degli Stati Uniti d'America. In ambito scientifico internazionale venne nominata corrispondente internazionale per il Marocco della rivista Journal of American Medical Women’s Association. Nel 1957 iniziò a collaborare con l’associazione ebraica Oeuvre secours enfance, che si occupava dei rifugiati ebrei perseguitati in Europa. Forse nel tentativo di superare il trauma della morte della madre e della nonna, che nel 1944 persero la vita nel campo di sterminio ad Auschwitz, supportò il governo israeliano nell’operazione segreta che avrebbe dovuto aiutare gli ebrei del Marocco a raggiungere clandestinamente Israele. Parallelamente alle attività assistenziali e a quelle istituzionali poté dedicarsi anche a un'accurata produzione scientifica riguardante l’andamento storico del pensiero medico occidentale e medio-orientale. Il contributo intitolato Dante e la Medicina fu pubblicato nel 1965 sulla rivista dell’Associazione dei medici scrittori italiani. Due anni più tardi, per il bollettino bimestrale dell'Istituto di storia della medicina dell'Università di Roma, pubblicò un importante saggio sull’influenza della medicina araba sul pensiero medico moderno. Il testo, oltre a riportare le tappe fondamentali del pensiero medico arabo, di quello occidentale e dei relativi sincretismi, illustrava la funzione pedagogica della storia della medicina, che rende visibile le mescolanze, le rotture fondate su progressi e retrocessioni di concetti e conoscenze, determinate dalle influenze culturali e politiche di specifici periodi storici e contesti geografici. Lucia Servadio riconosceva quanto nella medicina «[…] come in tutte le forme del pensiero umano, le conoscenze attuali derivano da origini assai lontane e la loro somma ha solamente il valore di [rappresentare] una fase nel divenire del pensiero medico» (Servadio Bedarida, 1967, p. 24). Nel 1981, per volere delle tre figlie, si trasferì con loro negli Stati Uniti dove, pur rimpiangendo il suo lavoro e la vita in Marocco, avrebbe trascorso i successivi ventiquattro anni senza interrompere la propria attività intellettuale.
Morì nella sua casa di Cornwall on Hudson, nello Stato di New York, il 17 aprile 2006, quando aveva compiuto i 105 anni.
Opere. Dante e la Medicina, in La Serpe. Rivista letteraria dell’Associazione dei Medici Scrittori italiani, L (1965); La medicina araba antica e la sua influenza sul pensiero medico moderno, in Pagine di Storia della Medicina, 1967, vol. 3, pp. 10-24; La donna e la Medicina. Atti del Convegno presso il Centro Italiano Noi Italiani d’Oggi, New York 1989; Reflection on an Italian Jewish life, in S. Pugliese, The most ancient of minorities: the Jews of Italy, Westport 2002.
Fonti e Bibl.: Archivio storico dell'Università di Bologna, Biblioteca Universitaria; Fondazione Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano; College Park (MA), The U.S. National Archives and Records Administration; Centro internazionale di studi Primo Levi - Italy at the Hebrew University.
O. Fincato - R. D’Agostin, Un giorno con Lucia, s.l. 2007; R. Simili, Sotto falso nome. Scienziate Italiane ebree (1938-1945), Bologna 2010; V. Gazzaniga - M. Conforti, Anna Celli e le altre. Tra medicina e impegno sociale nella Roma di primo Novecento, in, I maestri della Sapienza: Angelo Celli, a cura di S. Orazi, Roma 2014, pp. 85-115; C. Bettin, Lucia Bedarida Servadio: A Life Beyond Limits. A Female Italian Jewish Scientist in Tangier, in Cultural and Religious Studies, 2016, vol. 4, pp. 437-445.