LUCIANI (De Lucianis), Sebastiano, detto Sebastiano del Piombo
Nacque probabilmente a Venezia da Luciano nel 1485.
Se non c'è motivo di nutrire seri dubbi circa il luogo di origine (ché lo stesso L. fu solito firmarsi per tutta la vita "Sebastianus Venetus") non altrettanto certificata e documentariamente riscontrata è la data di nascita, che si può inferire solo dalla testimonianza indiretta di Vasari, il quale lo dice morto nel 1547 all'età di sessantadue anni. D'altra parte è plausibile che il pittore e biografo aretino fosse abbastanza bene informato, almeno a proposito degli anni estremi del L.; e in ogni caso le Vite restano, ancora oggi, nel bene e nel male, la principale fonte di informazione sui fatti biografici e artistici del Luciani.
In effetti, ben poco si sa circa le vicende private e materiali degli anni giovanili, a Venezia. Volendo ancora prestar fede a quanto riferisce Vasari, si potrebbe ipotizzare che il L. provenisse da una famiglia di condizione sociale ed economica relativamente agiata, se è vero che il giovane si dedicò in un primo momento a coltivare e praticare interessi musicali, guadagnandosi, soprattutto come virtuoso di liuto, una qualche notorietà tra i "gentiluomini di Vinezia" (Vasari, ed. 1967, p. 307). Solo più tardi, "essendo anco giovane" (ibid.), benché probabilmente a un'età piuttosto avanzata rispetto alle consuetudini professionali dell'epoca, decise di volgersi alla pittura, a quanto pare di sua iniziativa.
Nei primi anni del Cinquecento, a Venezia, la bottega di gran lunga più attiva e rinomata era quella di Giovanni Bellini: è perciò del tutto credibile che il suo primo apprendistato si sia svolto sotto la guida dell'anziano, celebrato maestro. Più difficile, per contro, valutare l'attendibilità della notizia - sempre riferita da Vasari e assunta pressoché integralmente dagli scrittori posteriori e dalla letteratura critica moderna - di un successivo alunnato presso Giorgione, se non altro per lo stato più che lacunoso e ancora controverso delle nostre conoscenze in merito alla reale consistenza di una bottega giorgionesca e della sua effettiva incidenza nella vita artistica veneziana dell'epoca. Un'indicazione indipendente di un possibile rapporto diretto tra i due artisti viene dalla Notizia di Marco Antonio Michiel, secondo il quale la famosa tela dei Filosofi (Vienna, Kunsthistorisches Museum), da lui veduta in casa di Taddeo Contarini nel 1525, sarebbe stata "cominciata da Zorzo de Castelfranco et finita da Sebastiano Venitiano". Tuttavia, proprio l'omogeneità stilistica dell'opera in questione non permette di sceverare fondatamente la presenza di mani diverse. Come che sia, la frequentazione di Giorgione da parte del più giovane pittore non poté essere che di breve durata, laddove ciò che già interessava maggiormente a Vasari era comunque mettere in chiaro l'"appartenenza" del L. alla "maniera moderna".
Dell'adesione a questa maniera restano, a Venezia, poche tracce sicure, ma significative, del ruolo che l'artista si avviava a ricoprire nella città, accanto a protagonisti consumati e persino in anticipo sull'altro astro nascente, il coetaneo, e forestiero, Tiziano Vecellio. Agli anni compresi tra il 1507 e il 1509 risale la realizzazione delle ante d'organo per la chiesa di S. Bartolomeo a Rialto - oggi conservate nelle Gallerie dell'Accademia - con i santi Bartolomeo e Sebastiano (originariamente all'esterno delle portelle), Ludovico di Tolosa e Sinibaldo (all'interno).
Le quattro tele furono commissionate dal vicario Alvise Ricci, tenendo conto verosimilmente, oltre che di un personale riconoscimento (donde il S. Ludovico), anche delle esigenze di "rappresentanza" devozionale dei mercanti tedeschi che facevano capo a quella chiesa, che possono spiegare la presenza di s. Sinibaldo, patrono di Norimberga. Qui l'assorta compostezza delle pale belliniane acquista un pondus di respiro statuario e monumentale, una misura di più risaputa ascendenza classica, in specie nella figura di s. Sebastiano, che è già eloquente degli interessi e degli orientamenti della cultura figurativa del pittore.
Elementi di chiarissimo valore plastico-architettonico e di gusto (e competenza) antiquariale sono pure evidenti nell'altro dipinto giovanile che ormai la critica, pur in assenza di documenti inoppugnabili, riconosce unanimemente al L.: l'incompiuto Giudizio di Salomone di Kingston Lacy, Wimburne (Dorsetshire, collezione Bankes), anch'esso databile tra la metà e la fine del primo decennio, e voluto, forse, dal patrizio Andrea Loredan.
Ma l'opera più importante, per funzione e destinazione, realizzata a Venezia dal L. resta la pala di S. Giovanni Crisostomo dell'altar maggiore dell'omonima chiesa, allogata da Caterina Contarini e da suo marito Niccolò Morosini, ma cominciata e condotta a termine dopo la morte di entrambi, e comunque non prima del maggio 1510, molto probabilmente su indicazione e con la supervisione del parroco Alvise Talenti, responsabile della ricostruzione e ridecorazione della chiesa (Gentili - Bertini).
Il dipinto segna una tappa decisiva nello sviluppo tipologico della pala d'altare veneziana, oltre che nel percorso personale dell'autore, tanto dal punto di vista delle soluzioni iconografiche quanto per le scelte di ordine compositivo e strutturale, con il riaffermarsi di una decisa tendenza verso una maggior pienezza volumetrica e nello stesso tempo una più rigorosa essenzialità plastico-luministica.
Questi aspetti salienti, se non dicono le cause, possono almeno suggerire con quale atteggiamento il L. accolse l'opportunità di trasferirsi a Roma, che gli fu offerta di lì a poco dal banchiere del papa, Agostino Chigi, in visita presso la Serenissima. Nella primavera del 1511 il pittore lasciava definitivamente la città natale alla volta di Roma.
La scelta dovette essere radicale, ma, se non fu senza conseguenze in ordine all'immagine canonica e normativa che la letteratura critica si formò subito della sua arte (da ascriversi tutta alla congiuntura tosco-romana e sostanzialmente estranea alla tradizione figurativa veneta e veneziana), non irrilevanti furono in realtà le conquiste della sua prima formazione per gli esiti più maturi della produzione successiva.
Appena giunto a Roma, il L. si mise al lavoro nella loggia terrena della villa di Agostino Chigi alla Lungara, meglio nota come Farnesina, dove affrescò, a istanza del ricco mecenate senese, le lunette del soffitto con soggetti mitologici tratti dalle Metamorfosi di Ovidio e ispirati unitariamente al tema dell'aria. E veramente "aerea" può dirsi l'esecuzione dell'opera - già compiuta entro il 27 genn. 1512 - caratterizzata da un'inedita immediatezza disegnativa (forse senza neppure l'uso di cartoni riportati) e soprattutto da una programmatica, squillante chiarezza di colorito.
A questi tratti si legano però la coscienza, e ormai la diretta esperienza, dei livelli raggiunti dall'arte, da un lato, di Raffaello e dall'altro, e più distintamente, di Michelangelo, i cui tours de force anatomico-muscolari giganteggiano a evidenza nell'affresco del Polifemo, sempre alla Farnesina e immediatamente posteriore alle lunette. Ma forse ancora più indicativo della complessa e articolata cultura figurativa del L. in questo giro di anni è la tela della Morte di Adone degli Uffizi (che in realtà rappresenta più precisamente il mito venereo della tintura delle rose). La difficoltà di una sua precisa collocazione cronologica a ridosso dello spartiacque del trasferimento romano del L. dipende in effetti dalla compresenza di un duplice retaggio: di elementi che i critici hanno saputo, o voluto, riconoscere tributari di una diretta conoscenza dell'ambiente romano, e di motivi esplicitamente legati al contesto veneziano (forse anche solo per ragioni di committenza), se si considera la cospicua, suggestiva presenza della veduta lagunare dell'area marciana, crepuscolare e fedele "ritratto" della città natale, lambita dalle ultime luci vespertine e già illuminata da fuochi notturni.
Ma il tema del notturno avrebbe impegnato il L., di lì a qualche anno, quasi certamente entro il 1516, in ben altra impresa: nella grande pala della Pietà per la chiesa di S. Francesco a Viterbo (attualmente al Museo civico della stessa città), oggi largamente giudicata come il vero capolavoro del pittore e in realtà opera cruciale nello snodo delle vicende storico-artistiche dell'"alto Rinascimento" italiano, e non solo.
Un notturno più che naturale, sia da un punto di vista fenomenologico sia da un punto di vista semantico, connota il momento dell'immagine; così come più che naturale è la luce che rischiara il dramma della morte di Cristo e lo proietta in una dimensione più che narrativa. La tavola viterbese scarta infatti consapevolmente rispetto alla tradizione iconografica del Vesperbild e si trasforma in un più concentrato e speculativo Andachtbild ispirato alla spiritualità e all'ermeneutica agostiniane (Barbieri, 1999). Con piena consapevolezza dei propri mezzi il L. mira qui a una sintesi critica della forza espressiva della figura umana michelangiolesca - tanto più quando si voglia accettare la notizia vasariana secondo cui fu lo stesso Buonarroti a fornire il disegno dell'invenzione della pala - con una sapiente rielaborazione ed essenzializzazione della propria eredità veneta nell'uso del colore e nella concezione del ruolo del paesaggio. Non per caso, la pala, commissionata dal chierico di camera, Giovanni Botonti, guadagnò all'artista notorietà e consensi, oltre a segnare l'inizio di un fecondo sodalizio con Michelangelo.
In questi primi anni di attività romana il L. ricevette anche varie richieste di ritratti, alcune particolarmente prestigiose e ugualmente legate al mondo della Curia, come quella di Ferry Carondelet, che fu a Roma tra il 1510 e il 1512, prima di trasferirsi a Viterbo (il dipinto si trova oggi nel Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid); o l'altra per il ritratto del Cardinale Bandinello Sauli (Washington, National Gallery), firmato e datato 1516. Dello stesso periodo sono pure alcuni ritratti muliebri, più o meno ideali e allegorici, quali la cosiddetta Fornarina (Firenze, Uffizi), datata 1512, e la Dorotea (Berlino, Gemäldegalerie), appena successiva. Sempre nel 1516 il L. firmò e datò la tavola, trasportata su tela, del Cristo deposto (San Pietroburgo, Ermitage, ma in origine nell'Alcázar di Madrid).
La composizione, che riprende l'ambientazione crepuscolare della Pietà (sia pure con minor densità tematica e un'impaginazione iconografica meno concentrata, ancorché attentamente ponderata), costituiva forse lo scomparto centrale di un trittico, come testimonierebbe una copia relativamente fedele, oggi nel Museo d'arte di Olomouc (Repubblica Ceca), che ci restituirebbe l'insieme, con i comparti laterali che raffiguravano, a sinistra, Cristo che si rivela agli apostoli e, a destra, la Discesa di Cristo al limbo. Quest'ultimo pezzo è stato identificato da alcuni studiosi - nonostante la non perfetta coincidenza delle misure e una datazione problematica - con il dipinto, pressoché identico dal punto di vista compositivo, conservato al Prado di Madrid e già dalla metà del XVII secolo documentato nella sacrestia dell'Escorial.
Licenziata la tavola spagnola, il L. dovette dedicarsi a un più consistente e prolungato impegno, giacché nell'estate di quello stesso 1516 il mercante fiorentino Pier Francesco Borgherini, impressionato dai risultati della Pietà viterbese, gli commissionò l'intera decorazione di una cappella nella chiesa romana di S. Pietro in Montorio, per la quale godeva del giuspatronato.
La cronologia delle varie fasi dell'impresa è abbastanza precisamente documentabile attraverso la corrispondenza epistolare di Michelangelo (in particolare grazie alle notizie ricavabili dalle lettere scritte da Leonardo Sellaio), al quale il L. aveva chiesto, già nell'agosto del 1516, dei disegni su cui formarsi una prima idea del soggetto. Nel mese di novembre dovevano essere approntati i cartoni per un primo intervento, relativo alle figure sulla parete dell'arco soprastante la cappella, quando una nuova e assai più prestigiosa commissione giunse al pittore, riconfigurando così le priorità del suo lavoro.
Tra la fine del 1516 e l'inizio del 1517, infatti, il cardinale Giulio de' Medici, poi pontefice col nome di Clemente VII, allogò al L. la realizzazione di una grande pala d'altare con la Resurrezione di Lazzaro (Londra, National Gallery), da inviarsi in Francia, alla cattedrale di Narbonne, diocesi amministrata dal cardinale.
In realtà, l'intento del prelato era di far esporre l'opera del L. "a concorrenza", come ricorda Vasari, con quella che lo stesso aveva contemporaneamente commissionato a Raffaello, la celebre Trasfigurazione della Pinacoteca Vaticana. Ciò comportò tuttavia una serie di rallentamenti nell'esecuzione dell'opera, anche questi documentati attraverso le lettere inviate da Leonardo Sellaio e dallo stesso L. a Michelangelo, perché Raffaello avrebbe voluto sottrarsi a un pubblico confronto rimandando in tutti i modi il completamento del proprio lavoro. Nel gennaio del 1519 la tavola del L. era comunque praticamente compiuta e fu esposta a palazzo e presentata al papa nel dicembre dello stesso anno; ma il tanto atteso confronto fra i due rivali avvenne soltanto il 12 apr. 1520, quando ormai Raffaello era già morto da qualche giorno. Non meno tormentate furono le trattative relative al pagamento della pala, per la quale l'artista aveva chiesto al committente più di 1000 ducati, una somma maggiore di quella che il cardinale era disposto a sborsare. Alla fine, anche grazie all'intervento arbitrale di Michelangelo, il L. si accontentò di 800 ducati. Tutta la vicenda è comunque indicativa della posizione di spicco che il L. aveva ormai assunto sulla scena artistica romana, una posizione vieppiù consolidata dopo la scomparsa di Raffaello e in ogni caso giustificata proprio dalla maturità e dalla qualità pittorica di un'opera come la Resurrezione di Lazzaro. Il dipinto affronta infatti con sicurezza drammaturgica il tema complesso di una composizione così affollata e rifonde ormai vagliate le componenti di un personale bagaglio stilistico, così come i possibili più circostanziati spunti forniti dai sussidi grafici michelangioleschi.
Sfuggitagli, nonostante la raccomandazione di Michelangelo, l'occasione di farsi affidare dal papa la decorazione della sala dei Pontefici in Vaticano, il L. rimise mano al lavoro lasciato interrotto nella cappella Borgherini. L'esecuzione si protrasse tuttavia ancora per qualche tempo e l'intera decorazione poté essere completata solo nel 1524, con la Trasfigurazione nel catino absidale, che prende chiaramente le distanze dalla contemporanea interpretazione raffaellesca, la grande Flagellazione, con le figure laterali di S. Pietro e S. Francesco, dipinta a olio su muro, che divenne presto - e resta ancor oggi - una delle opere più celebri del maestro. Non per caso, quello stesso monsignor Botonti che dieci anni prima aveva commissionato la Pietà viterbese chiese al pittore di realizzare per la chiesa dell'Osservanza del Paradiso, sempre a Viterbo, una pala che riprendesse la scena della Flagellazione Borgherini (la tavola si trova ancora a Viterbo, presso il Museo civico).
Mentre le commissioni, intanto, si venivano sommando e il L. lavorava invece con lentezza, spesso procrastinando sine die i termini degli impegni assunti, nel 1520 la moglie Maria metteva al mondo il primo figlio, Luciano, che fu tenuto a battesimo da Michelangelo. Nello stesso anno il pittore era stato contattato dagli eredi di Agostino Chigi per un dipinto da collocare nella cappella di famiglia in S. Maria della Pace; ma l'opera non vide mai la luce, neppure quando un decennio più tardi gli stessi committenti, nella persona dell'esecutore testamentario Filippo Sergardi, rinnovarono il contratto specificando il soggetto dell'opera: una Resurrezione, soggetto al quale il L. pose mente (se a questo progetto possono ricondursi alcuni disegni michelangioleschi e se è vero, come racconta Vasari, che fece preparare le superfici per dipingere su pietra), ma infine non pose mai mano. Ancora al 1520 è datata e firmata la tavola di Palazzo Pitti con il Martirio di s. Agata, eseguita probabilmente per il cardinale Ercole Rangone, legato da rapporti di amicizia con la famiglia Medici e creato cardinale nel 1517 con il titolo diaconale della chiesa di S. Agata dei Goti, appunto.
Tra le altre opere importanti di questo stesso periodo possono menzionarsi la bella Madonna del Velo della Galleria nazionale di Praga (ma dal 1994 in prestito al Museo d'arte di Olomouc) e la Visitazione del Louvre, firmata e datata 1521, eseguita per la regina di Francia. In entrambi i dipinti si registrano un ulteriore progresso verso la solidificazione e semplificazione prismatica dei corpi e dei panneggi e, in specie nella tavola ceca, un modellato luministicamente finissimo degli incarnati insieme con raffinati, algidi accordi cromatici.
Accanto alle opere devozionali sono poi da ricordare i non pochi, notevoli ritratti, genere nel quale il L. fu sempre molto apprezzato, come quello di Cristoforo Colombo, datato 1519 (New York, Metropolitan Museum); o il severo ritratto di umanista (Washington, National Gallery), ipoteticamente identificato con Marcantonio Flaminio e, più di recente, con il geografo Leone Africano; o ancora, di qualche anno più tardi, tra il 1525 e il 1527, quelli di Anton Francesco Albizzi (Houston, Museum of fine arts), di Clemente VII (Napoli, Museo nazionale di Capodimonte), di Pietro Aretino (Arezzo, palazzo Comunale), di Andrea Doria (Roma, Galleria Doria Pamphilj), uno dei vertici, quest'ultimo, di tutta la produzione ritrattistica del veneziano.
Tra la fine del terzo decennio e l'inizio del quarto si collocano altri impegni di rilievo. Nell'agosto del 1530 il già citato Sergardi, esecutore testamentario di Agostino Chigi, rinnovò con il pittore un accordo, già stipulato quattro anni prima, per la realizzazione della pala d'altare della cappella che il banchiere senese aveva fatto decorare da Raffaello in S. Maria del Popolo.
È possibile che in un primo momento il soggetto della pala prevedesse un'Assunzione della Madonna, tema forse più consono al programma iconografico concepito da Raffaello; ma alla fine si decise evidentemente di optare per un altro episodio mariano: la Natività della Vergine, al quale il L. si accinse a lavorare intorno al 1532, se si può assumere che la richiesta di suggerimenti per un tale soggetto rivolta dal pittore all'amico Michelangelo nel marzo di quell'anno si riferisca in effetti a questa commissione. L'esecuzione dovette comunque procedere a rilento, anzi, stando alla testimonianza di Vasari, il L. non la portò mai a compimento, tanto che gli eredi Chigi dovettero rivolgersi a Francesco Salviati per finire ciò che "la tardità e l'irresoluzione di Sebastiano" avevano lasciato incompiuto (Vasari, 1967, p. 313). Nondimeno, l'opera, oggi ancora in situ, mostra una forte coerenza stilistica, come è stato notato dalla critica, e rivela quell'habitus di aulica, grave severità con il quale il L. veniva accostandosi al tema sacro negli anni della sua maturità. Un atteggiamento che si ritrova, con inflessioni patetiche più o meno insistite in ragione dei soggetti, in opere come la Sacra Famiglia della cattedrale di Burgos, la Madonna del Velo Farnese, oggi a Capodimonte, che riprende con più meditativa solennità la versione di Olomouc, e soprattutto nelle varie redazioni del Cristo Portacroce, tema al quale il pittore si dedicò reiteratamente a partire dalla fine del terzo decennio e nel corso del successivo: dalla tela madrilena del Prado alla versione su lavagna dell'Ermitage a quella della Galleria Borghese di Roma.
Animato da un analogo pathos, volutamente spoglio e disadorno, è pure l'altro lavoro di soggetto cristologico realizzato dopo lunga gestazione sul finire degli anni Trenta: la cosiddetta Pietà di Ubeda, la città andalusa cui era in origine destinata. L'opera (Madrid, Prado, in deposito dalla Casa ducal de Medinaceli di Siviglia) fu infatti commissionata al L. già nel 1530 da Ferrante Gonzaga per farne dono a Francisco de los Cobos, potente segretario di Carlo V, quale pala d'altare per la progettata sepoltura nella chiesa di S. Tommaso a Ubeda. Completata di fatto nel 1539, dopo ripetuti solleciti e continue lamentele da parte dei committenti, fu consegnata nel 1540. Non troppo diversamente andarono le cose anche riguardo alla commissione - da collocarsi forse in una data prossima - della decorazione del presbiterio di S. Maria della Pace, per il quale era stato chiesto al L. di illustrare l'episodio della Visitazione, che dovette però rimanere incompiuta alla sua morte e che si può oggi giudicare attraverso tre frammenti (Alnwick Castle, Northumberland) e grazie a copie e derivazioni incisorie.
In realtà, il pittore poteva ormai permettersi di assecondare con minori scrupoli quell'indolenza e quella scarsa sollecitudine e prestezza di esecuzione che Vasari non manca di rimproverargli ripetutamente. Nel 1531 egli aveva infatti ricevuto l'ambita carica di piombatore delle bolle pontificie, che gli valse, oltre al soprannome con cui è ancora oggi comunemente noto, la sicurezza di una regolare pensione annua, anche se dovette per questo adattarsi a vestire l'abito fratesco, sebbene fosse sposato e avesse già due figli (il già citato Luciano e il secondogenito Giulio).
Il carattere di concentrata drammaticità delle opere religiose di questo periodo, in particolare dopo la terribile esperienza del sacco di Roma del 1527, è stato oggetto di varie speculazioni da parte degli storici, che hanno voluto riconoscervi, volta a volta, una tendenza, invero fin troppo precoce, verso le istanze tridentine; le influenze, anch'esse assai per tempo recepite, dei bisogni della cosiddetta Riforma cattolica; ovvero, al contrario, le "inquietudini" più o meno serpeggianti della Riforma protestante, dell'evangelismo, del nicodemismo e insomma dell'eterodossia italiana del Cinquecento. Né sono mancate più circostanziate illazioni circa una presunta personale adesione del pittore al movimento di dissidenza religiosa, più precisamente sulla base delle sue frequentazioni di personaggi (da Michelangelo a Vittoria Colonna, da Marcantonio Flaminio a Pietro Carnesecchi) variamente legati alla cosiddetta "Ecclesia Viterbensis" o successivamente compromessi con le vicende dell'Inquisizione. D'altra parte, già in epoca tridentina, un intransigente e rigoroso censore come Giovanni Andrea Gilio - nel dialogo in cui "si ragiona degli errori e degli abusi de' pittori circa l'historie" - sembrava preoccupato (e in grado) di stigmatizzare la riprovevole mancanza di cruento realismo in un'opera forse troppo aulicamente classicheggiante come la Flagellazione Borgherini, piuttosto che denunciare sintomatologie criptoprotestanti nella pittura del Luciani.
L'ultimo periodo della vita del pittore dovette trascorrere alquanto inoperoso, giacché, almeno secondo quanto narrano le Vite vasariane, egli preferì "attendere all'esercizio del frate, cioè di quel suo uffizio, e fare buona vita", piuttosto che dedicarsi alacremente alla pittura (Vasari, 1967, p. 323). Nel testamento, redatto il 1( genn. 1547, chiese di essere sepolto in S. Maria Maggiore, senza eccessiva pompa, presso la cappella del Presepe e nominò eredi del proprio patrimonio il figlio Giulio e i suoi discendenti. Nel suo studio restavano un S. Michele che abbatte il demonio nonché vari ritratti di papa Clemente VII e almeno uno di Giulia Gonzaga.
Il L. morì a Roma il 21 giugno 1547, nella sua abitazione nei pressi di S. Maria del Popolo, dove infine fu sepolto, come dice ancora Vasari. Quest'ultimo chiosando da ultimo la biografia del pittore, volle annotare con lapidario distacco, ma forse non senza una punta di polemica e insieme di amarezza, che "non fece molta perdita l'arte per la morte sua, perché subito che fu vestito frate del Piombo si potette egli annoverare fra i perduti" (ibid., p. 324).
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