BERIO, Luciano
Nato il 24 ottobre 1925 a Oneglia (Imperia), era figlio e nipote di musicisti: il nonno Adolfo era stato organista e compositore di pagine sacre e pezzi strumentali, per lo più valzer e polke per pianoforte a quattro mani; il padre Ernesto aveva iniziato presto a suonare il pianoforte nelle orchestrine e nelle sale di cinema muto di Oneglia, ma attraverso studi più regolari (presso il Conservatorio di Milano, poi con Ildebrando Pizzetti a Parma) si era impadronito di un solido mestiere. Fu autore di varie composizioni rimaste manoscritte per coro, orchestra e banda (Inno dei goliardi, Inno della Società Dante Alighieri), intonazioni su testi di Carducci e Heine, varie musiche religiose, fra cui una Messa, e un grosso poema sinfonico sulla gloria di Roma (1939); più vicina alle sue possibilità espressive e al suo talento didattico spicca una raccolta di pagine per voce e pianoforte dal titolo Voci fresche, composta nel 1904 e riveduta nel 1957, ispirata a un vivace bozzettismo, di cui sono indicativi alcuni titoli: Campane di Natale, Il bimbo addormentato, Marcia dei soldatini italiani, Cavalcata garibaldina.
La madre di Berio, Ada Dal Fiume, di umili origini, nacque a Verona e lì conobbe Ernesto Berio, suo insegnante all’Istituto Magistrale; lo sposò ancora studentessa e dall’unione nacquero una figlia, Miriana, un bimbo di nome Luciano morto pochi mesi dopo la nascita, quindi, nel 1925, un secondo figlio maschio di nuovo battezzato Luciano. Ada fu una figura determinante nella conduzione e nell’educazione della famiglia, molto amata dal figlio, fino alla morte avvenuta nel 1989.
Nell’ambiente familiare Berio ricevette la prima educazione musicale, applicandosi al pianoforte e partecipando dall’età di nove anni alle esecuzioni domestiche sotto la guida del padre; Berio avrebbe ricordato come momenti di assoluta felicità queste prime esperienze che gli permisero di farsi una buona conoscenza dei classici della musica da camera e di abbordare i primi tentativi di composizioni per pianoforte, una Pastorale (1936) e una Toccata (1939). Alla mancanza in Oneglia di stagioni concertistiche sopperiva l’abitudine familiare di ascoltare molta musica per radio. Il primo contatto con l’orchestra sinfonica dal vivo capitò al ragazzo quindicenne a Sanremo in un concerto diretto da Gino Marinuzzi. Seguiva intanto studi regolari al ginnasio e al liceo classico di Oneglia, aprendosi nello stesso tempo a svariate letture – Ibsen, Rilke, Brecht, Bergson, i dieci volumi del Jean-Christophe di Romain Rolland – mentre maturava la decisione di una carriera musicale, rinunciando al sogno giovanile di una vita marinara.
Questa quiete fu sconvolta dalle vicende politiche conseguenti l’8 settembre 1943; in mezzo alle incertezze della guerra civile, il partito migliore parve quello favorito dal padre e Berio rispose alla coscrizione obbligatoria decretata dalla Repubblica di Salò presentandosi a 19 anni al distretto militare di Sanremo; ma poco dopo l’arruolamento, un’esplosione durante un’esercitazione gli procurò una seria ferita alla mano destra, la cui infezione lo costrinse a una degenza di tre mesi all’ospedale militare di Sanremo; approfittando dello sbandamento dovuto al precipitare della guerra, riuscì a fuggire dall’ospedale e a raggiungere la sorella a Milano e a Como, attendendo la fine del conflitto in una solitaria clandestinità.
Conseguita la maturità classica, per rispondere alla volontà dei genitori Berio si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’Ateneo milanese, abbandonandola tuttavia dopo un solo anno; di ben altro peso l’iscrizione nel 1945 al Conservatorio Giuseppe Verdi, che diventò così la vera culla della sua vocazione musicale. Persuaso a rinunciare all’idea di una carriera di pianista concertista, causa il danno subito alla mano destra nella ferita di un anno prima, si iscrisse al corso di composizione, col clarinetto come ‘secondo strumento’ dopo il pianoforte; superato l’esame di quarto anno, venne ammesso al quinto nella classe di ‘armonia e contrappunto’ di Giulio Cesare Paribeni, autore prolifico e solidissimo didatta da cui Berio ereditò una passione mai dimenticata per la disciplina contrappuntistica.
Ancora più importante, a partire dal 1948, lo studio nella classe di composizione con Giorgio Federico Ghedini, figura di spicco per maestria tecnica e coscienza storica, formatosi su Casella e Malipiero, ma non meno su Stravinskij, Hindemith, Bach, Frescobaldi e Monteverdi: pagine come Architetture (1940) o Concerto dell’albatro (1945) proponevano un’esattezza espressiva, un senso del lavoro ‘ben fatto’ che non sarebbero rimasti senza conseguenze nel formarsi della coscienza tecnica di Berio; di particolare rilievo l’accanito lavoro condotto col maestro sulla tecnica orchestrale, specie di Ravel e Debussy, e le esplorazioni nel passato della musica italiana: «non potrò mai dimenticare le esecuzioni monteverdiane di Ghedini», avrebbe detto il compositore (in S. Parise, Giorgio Federico Ghedini, San Giuliano Milanese 2003, p. 360).
Ma le scoperte e le emozioni più profonde dovevano essere quelle conosciute fuori dalla scuola: il giovane Berio si sentì come investito da quell’ondata di nomi, idee e fatti che la vita culturale e musicale di Milano poteva offrire dopo la ristrettezza provinciale della nativa Oneglia. Milano era in pieno recupero dopo i disastri della guerra, con la ricostruzione del teatro alla Scala e la fondazione nel 1947 del Piccolo Teatro di Giorgio Strehler e Paolo Grassi; terreno già fecondato durante gli anni del fascismo da Ferdinando Ballo, critico musicale aperto alla modernità, pianista, fondatore della casa editrice Rosa & Ballo e nel 1945 dei Pomeriggi musicali al teatro Nuovo, dove Berio ascoltò per la prima volta dal vivo musiche di Schönberg (Pierrot lunaire), Bartók, Milhaud, Hindemith, Webern. Ma Milano brulicava anche di centri minori, superando le barriere fra colto e popolare nel teatro leggero, nel jazz, nella canzone popolare internazionale: un eclettismo coltivato anche da musicisti ‘di confine’ attivi a Milano, come Giorgio Gaslini e Gino Negri; ma ancora più importante, in questo senso, furono l’incontro e l’amicizia con Roberto Leydi, non solo per l’avvicinamento professionale al mondo delle tradizioni popolari, ma forse più ancora per l’abito mentale di una ‘cultura della realtà’, basata su indagini e discussioni attorno a realtà specifiche, come strutture musicali e tecniche narrative.
Di tutto questo panorama non si trovano tuttavia tracce immediate nel lavoro di Berio studente, di schietta impostazione artigianale, come già suggeriscono i titoli di Sonata per flauto e pianoforte, Trio per violino, violoncello e pianoforte, Andantino pastorale per clarinetto, due violini, viola e violoncello; più in linea con i suoi futuri sviluppi sono le Tre canzoni siciliane del 1946-47 su testi di anonimi siciliani e di Jacopo da Lentini (due di esse finiranno nei Folk songs del 1964); né sfuggì al giovane musicista l’importanza della traduzione dei Lirici greci di Salvatore Quasimodo, uscita a Milano nel 1940 per i tipi di Corrente, come testimoniano alcuni manoscritti dedicati alle liriche greche di Saffo, conservati presso la Paul-Sacher-Stiftung di Basilea; ma i lavori più importanti di questo periodo sono del 1949, nati sotto l’influenza di Ghedini e di Stravinskij, e con carattere conclusivo dell’apprendistato, come il Concertino per clarinetto, violino, arpa, celesta e archi, e il Magnificat per due soprani, coro misto, due pianoforti, fiati e percussione.
Oltre a qualche esperienza di maestro sostituto in teatri di provincia (in Conservatorio aveva anche seguito i corsi di direzione d’orchestra di Carlo Maria Giulini), in questi anni Berio si manteneva con i modesti introiti di pianista accompagnatore delle classi di canto; occasione che favorì nel 1950 la conoscenza con una giovane studentessa armena nata e cresciuta negli Stati Uniti, Cathy Berberian, venuta a Milano per studiare canto con Giorgina Del Vigo; dopo pochi mesi i due si sposarono (dalla loro unione nacque nel 1953 la figlia Cristina). L’incontro con questa artista, dotata di un’intelligenza musicale e di un pluralismo vocale che le consentiva di passare dagli antichi ai moderni con disinvoltura, fu stimolo decisivo al talento creativo di Berio, coincidendo con l’uscita dagli anni di scuola e l’ingresso nella sua prima fervida stagione creativa.
Sempre più desideroso di assorbire ogni esperienza contemporanea, in quegli anni Berio approfondì lo studio di Luigi Dallapiccola, che ai suoi occhi realizzava il ponte europeo con la seconda Scuola di Vienna; i Due pezzi per violino e pianoforte, composti da Berio nel 1951 sono in qualche modo un’analisi dei Due studi di Dallapiccola per gli stessi strumenti; oggetto speciale di questo tirocinio dallapiccoliano è la musica vocale per la sala da concerto, come i Goethe-Lieder del 1953 o i Cinque Canti del 1956, a contatto dei quali Berio maturò la concezione di un’identità strutturale fra parola e musica, al di là della tradizionale operazione del ‘mettere in musica’ un testo letterario.
L’occasione di studiare con Dallapiccola si presentò quando questi fu invitato a tenere corsi di composizione alla scuola estiva di Tanglewood nel Massachusetts, dove Berio poté seguirlo assieme alla moglie grazie a una borsa di studio della Fondazione Koussevitzky; a Tanglewood i Due pezzi ebbero la loro prima esecuzione, con al violino il giovane Lorin Maazel, egli pure studente ai corsi. In questo primo soggiorno negli USA, più del contatto personale con Dallapiccola, che in ogni caso fu meno importante dello studio diretto delle sue partiture, va ricordato un incontro casuale quanto fruttuoso: in un concerto diretto da Leopold Stokowsky al Museum of Modern Art di New York nell’ottobre 1952 furono inclusi due brani di musiche elettroacustiche – chiamate tape-music – che, al di là dell’interesse delle due composizioni (di Vladimir Ussachevsky e Otto Luening), furono per Berio una scoperta decisiva.
Al rientro a Milano l’esperienza doveva svilupparsi nell’incontro con Bruno Maderna, più anziano di cinque anni, avvenuto nell’estate 1953 per il tramite di Hermann Scherchen. Maderna, che già dal 1949 frequentava i corsi di Darmstadt e conosceva le esperienze di vari compositori, fra cui Karlheinz Stockhausen presso lo Studio di Elettronica di Colonia, aveva già sperimentato l’unione di strumenti e nastro magnetico: ne nacque un sodalizio di feconda fraternità artistica, così sintetizzato da Berio, ricordando Maderna a dieci anni dalla sua precoce scomparsa (1973): «guardando indietro, ho quasi l’impressione di aver cominciato a vivere musicalmente in maniera completa e piena da quando ho incontrato Bruno» (cit. in De Benedictis, 2009, p. 12).
Nel 1953, introdotto da Dallapiccola e Luigi Rognoni negli ambienti di quella sorta di aristocrazia delle intelligenze che era il Terzo Programma della RAI negli anni Cinquanta, Berio convinse i responsabili dell’azienda a fornirgli uno strumentario rudimentale, fra cui magnetofoni, oscillatori e altri apparecchi atti a ricerche elettroacustiche. Oltre a commenti sonori per film televisivi e per la «tragicommedia» radiofonica Il trifoglio fiorito (da Rafael Alberti per la regia di Enzo Ferrieri), produsse come esercizio privato un pezzo autonomo per nastro, Mimusique n. 1, e successivamente una Mimusique n. 2: tre modi di sopportare la vita, azione mimica per quattro mimi, recitanti e orchestra: prima esperienza di Berio per la scena, condotta assieme a Leydi e allestita il 25 ottobre 1955 al teatro delle Novità di Bergamo. Mentre cominciarono a delinearsi le prime idee progettuali di un centro per la ricerca elettroacustica, nel 1953 compose Chamber music per voce femminile, violoncello, clarinetto e arpa: omaggio a Dallapiccola per la massima tangenza al contrappuntismo seriale, segnò anche il primo contatto con l’opera di Joyce, in tre poesie scelte appunto dalla raccolta Chamber music; scritta per la voce di Cathy Berberian, la composizione colpisce per come il canto e gli strumenti si integrano e quasi si attirano innestandosi l’uno negli altri. Il secondo brano, Monotone, prende spunto dal titolo per fissare la voce su una sola nota ripetuta mentre gli strumenti tessono delicati movimenti: il brano inaugura una dimensione cara a Berio, la fissità rituale, l’arresto del flusso temporale nella contemplazione.
Alla fine del 1954, su un testo di Leydi e assieme a Maderna, Berio produsse Ritratto di città, un documentario sonoro sulla città di Milano: la sua importanza, oltre al contenuto inventivo, non realistico, consiste soprattutto nella sua funzione di esempio per convincere la direzione della RAI dell’utilità anche pratica, e non solo di ricerca scientifica, delle sperimentazioni elettroacustiche. Poco dopo infatti venne aperto un primo locale provvisorio nella sede di Corso Sempione della RAI, finché nel maggio 1956 fu ufficialmente inaugurato lo Studio di fonologia della RAI con Berio e Maderna condirettori, assistiti dal tecnico del suono Marino Zuccheri e dall’ingegner Alfredo Lietti, progettatore delle prime macchine a disposizione. Con la nuova attrezzatura installata nei locali dello Studio (tra cui il pannello di nove oscillatori) Berio compose Perspectives per suoni elettronici su nastro; la composizione elettronica alimentò l’interesse per la concezione di un suono variamente articolato nello spazio d’ascolto, sperimentato fin dal 1955-56 con Allelujah I (poi ripreso in Allelujah II del 1958), mediante la divisione dell’orchestra in sei gruppi strumentali timbricamente distinti.
Nell’attività dello Studio vennero subito coinvolti altri musicisti, come Henri Pousseur e John Cage, secondo un indirizzo culturale di grande apertura, dove si manteneva, specie nella visione di Maderna, un dialogo fra dimensioni diverse senza lasciarsi condizionare dalla rigida contrapposizione fra musica ‘concreta’ e musica ‘elettronica’, perseguita rispettivamente dagli Studi di Parigi e di Colonia.
Un rendiconto del fermento di idee e di progetti di questi anni è testimoniato dai quattro numeri di Incontri musicali (1956-60), nome della rivista fondata da Berio su cui apparivano scritti teorici di Maderna, Pousseur, Eco, Boulez, Stockhausen, Cage e Berio stesso, oltre a rassegne di concerti di musica contemporanea che animavano il panorama milanese tramite contatti e dibattiti con altri centri internazionali. In un articolo del 1959, La nuova sensibilità musicale, Pousseur discuteva l’idea di una musica tesa a «promuovere atti di libertà cosciente», dove l’ascoltatore, quasi promosso a soggetto interattivo, viene condotto a utilizzare la maggior quantità possibile di suoi strumenti di assimilazione: era già in sostanza la poetica dell’«opera aperta», poi resa esplicita e divulgata in un saggio famoso di Umberto Eco (L’opera in movimento e la coscienza dell’epoca, in Incontri musicali, III, 1959, poi rifuso in Opera aperta, Milano 1962).
L’incontro con Eco ebbe fondamentale importanza per Berio. Sul piano creativo il frutto più rilevante, nell’immediato, fu la trasmissione radiofonica Omaggio a Joyce: documenti sulla qualità onomatopeica del linguaggio poetico (dove passi del capitolo XI dell’Ulysses erano letti, tra gli altri, da Berberian ed Eco): l’elaborazione elettroacustica finale costituì il nucleo della celebre composizione Thema (Omaggio a Joyce), resa autonoma nello stesso anno. Un risultato del più alto interesse per l’unione tra voce umana e suoni elettronici si sarebbe affermato qualche anno dopo con Visage, realizzato nel 1961 nello Studio di fonologia.
Contemporaneamente, in quei tardi anni Cinquanta, Berio tese all’estremo le risorse della sua inventività producendo in ogni settore e integrando per così dire l’‘idea della musica elettronica’ anche in opere strumentali e vocali nate lontane dagli studi elettroacustici. Il dominio della grande orchestra si completa in lavori come Nones (1954), che prende avvio da una poesia di Wystan Hugh Auden (l’omonima Nones, cioè «L’ora nona», trasfigurazione della Passione di Cristo), ed Epifanie (1959-61) per orchestra e voce femminile: pensato per le virtù canore di Berberian, dove negli intermezzi frapposti ai testi di Proust, Machado, Joyce, Sanguineti, Brecht e Claude Simon, scelti da Eco, un’orchestra a tratti non immemore d’insorgenze espressionistiche e berghiane alterna convulsioni e momenti di stasi con un costante senso della realizzazione formale.
Per piccoli gruppi, oltre al Quartetto per archi (1956), in cui le scelte di altezza, timbro e dinamica qualificano i suoni sparsi in rigoroso puntillismo, nacquero nel 1958-59 Tempi concertati, Différences e Sequenza I, scritta per il flautista Severino Gazzelloni: primo componimento del ciclo di Sequenze che Berio sviluppò in tutta la sua carriera come esplorazione di ogni aspetto tecnico, gestuale e storico-espressivo degli strumenti specifici; sempre nel 1958, a Sanremo, in un primo incontro con Italo Calvino preparò l’azione mimica Allez-hop! rappresentata a Venezia l’anno dopo.
Nel 1956 uscì Laborintus, la raccolta poetica di Edoardo Sanguineti che rompeva con quell’armonia della forma che era stata una costante nella tradizione lirica italiana dal Petrarca a Montale; fu Eco a segnalarla a Berio, il quale, sempre alla ricerca di testi da destrutturare per le sue esigenze, trovò in questa poesia ‘non poetica’, che offriva testi già di per sé destrutturati, uno stimolo determinante per arricchire con nuove soluzioni il suo rapporto col testo. In questo senso una sorta di punto fermo è costituito da Circles (1960) su poesie di Edward Estlin Cummings per voce, arpa e percussione; Berio non ‘rivestì’ di musica le tre poesie, ma lasciò che la musica sgorgasse circolarmente dalla loro assimilazione, generando situazioni senza distinzione fra la voce incantatoria e il tumulto di una screziatissima percussione. La musica di Berio sostituisce ai temi (assenti o ridotti a minimi termini) gesti, note singole, modi di emissione, collocati in modo da colpire l’orecchio come oggetti concreti che stabiliscono nessi e definiscono un percorso: pertanto distinguendosi dalla sfiducia nelle possibilità di un linguaggio percepita dalle punte più radicali dell’avanguardia a lui contemporanea.
Al principio degli anni Sessanta, consolidatasi la fama di Berio nell’ambiente della musica d’arte contemporanea, si moltiplicarono gli inviti a insegnare e a dirigere musiche proprie. Nel 1960 tenne corsi di composizione a Tanglewood e negli anni successivi alla scuola estiva di Dartington, viaggi e residenze che lo convinsero a rinunciare alla direzione dello Studio di fonologia di Milano; nella primavera del 1962 sostituì per un semestre Darius Milhaud al Mills College di Oakland in California, incarico che si rinnovò per l’intero anno accademico 1963-64; a Oakland conobbe Susan Oyama, studentessa di psicologia e linguistica. Separatosi da Cathy Berberian, la sposò nel 1966 e da lei ebbe i figli Marina (1966) e Stefano (1968). Il rapporto artistico con Cathy Berberian, tuttavia, malgrado la separazione non s’interruppe, anzi procedette in opere divenute subito famose, come i Folk songs del 1964 e Sequenza III (1965-66).
Intanto nel 1963 alla Piccola Scala di Milano andò in scena Passaggio su testo di Sanguineti (1961-62), primo lavoro teatrale importante, che per il provocante coinvolgimento degli spettatori in sala fu accolto alla prima rappresentazione con un successo di scandalo; ma il vero argomento era schiettamente musicale, definito dalla vocalità disperata di un soprano che svetta sulle aggressioni dei cori e sul sinistro minacciare degli strumenti.
Nel 1964 Berio cominciò una serie di corsi e conferenze alla Harvard University, mentre dall’autunno del 1965 si accordò per una docenza di analisi e composizione presso la Composition faculty della Juilliard school of music di New York, dove insegnò per sei anni e fondò il Juilliard Ensemble per l’esecuzione di musiche nuove. Tanti impegni, che dalla residenza a Hoboken nel New Jersey videro Berio allontanarsi per una serie continua di spostamenti, anziché nuocere alla concentrazione compositiva sembrarono incrementarla, segnando nel fitto catalogo di questi anni alcune delle opere maggiori: fra queste è certamente Laborintus II (il ‘II’ del titolo allude alla raccolta di poesie di Sanguineti del 1956), composto su commissione della Radio Televisione Francese nel 1963-65 per celebrare il centenario dantesco; il testo assemblato da Sanguineti raccoglie passi dalla Vita nova, dal Convivio e dalla Commedia lette da uno speaker, interpolate con brani della Bibbia, di Thomas Stearns Eliot ed Ezra Pound: l’invenzione musicale unisce voci, strumenti e nastro elettronico con infallibile definizione timbrico-armonica, scavando nei valori fonici e nel senso della parola.
La curiosità per ogni tipo di musica va dall’arrangiamento del Combattimento di Tancredi e Clorinda di Monteverdi (1966) alle trascrizioni per voce e strumenti di cinque Beatles songs, che contrastano con la rigorosa ricerca delle Sequenze per strumenti soli: dal 1963 al 1969 ne nacquero ben sei, rispettivamente per arpa, voce, pianoforte, trombone, viola, oboe, unificate dalla concezione personalissima di un virtuosismo che sembra ogni volta montare uno spettacolo nella tensione fra idea musicale e strumento, per lo più incarnato nelle facoltà di solisti d’eccezione: come già Gazzelloni nella Sequenza I, l’arpista Francis Pierre nella II, Berberian nella III, l’oboista Heinz Holliger nella VII e il trombonista Stuart Dempster nella V, pezzo di geniale gestualità anche per il riferimento a tipici motti del celebre clown Grock.
In stretta relazione con le Sequenze, nacque la serie dei Chemins con cui si esemplifica nel modo più chiaro una costante del pensiero musicale di Berio: nel quale l’investimento intellettuale messo in atto in una data composizione va al di là di essa e chiede di completarsi in un nuovo lavoro, ripensamento analitico del precedente; così sulla base solistica di alcune Sequenze si genera nei relativi Chemins il commento di un ensemble in successive stratificazioni polifoniche.
Del resto, quasi sempre nel Berio maturo le singole opere non restano isolate, ma nascono da un sottostante livello d’invenzioni proprie o altrui, principio che trova una manifestazione saliente in Sinfonia, una delle opere di maggior successo in tutta la generazione di Berio: scritta nel 1968 per il 125° anniversario dell’Orchestra Filarmonica di New York, comprende cinque parti in cui testi dello stesso Berio, di Samuel Beckett e Claude Lévi-Strauss sono affidati alle otto voci degli Swingle Singers, che amplificate da altoparlanti nuotano sulla massa cangiante di una estesissima orchestra; la seconda parte (già concepita come pezzo autonomo) è un tributo alla memoria di Martin Luther King, mentre la terza sezione, cuore del lavoro, assume Gustav Mahler (in una trascrizione pressoché integrale dello Scherzo della Seconda Sinfonia) come colui che regge sulle spalle tutta la tradizione della musica occidentale in un 'flusso di coscienza' che suscita una pluralità di livelli e di riferimenti culturali combinati con impareggiabile scaltrezza.
Dopo questi lavori Berio tornò a misurarsi col teatro musicale, rispondendo a una richiesta del teatro di Santa Fe nel New Mexico, dove andò in scena nell’agosto 1970 Opera (plurale del latino opus), che fissa le costanti del teatro musicale di Berio nel rifiuto di una vicenda narrativa seguita, a favore di episodi che s’intrecciano e sovrappongono, qui tre motivi convergenti verso il tema della violenza e della morte: la sciagura del Titanic, l’industria mortuaria d’una clinica moderna e il ricordo del mito di Orfeo e Euridice.
Nel 1972 Berio produsse per la RAI C’è musica e musica, documentario televisivo in dodici puntate con la regia di Gianfranco Mingozzi e la cura di Vittoria Ottolenghi, esempio notevole della sua vocazione comunicativa, coinvolgendo in interviste musicisti di tutto il mondo; si concluse invece, anche per il moltiplicarsi degli impegni internazionali, il periodo dell’insegnamento regolare alla Juilliard school.
Dopo la rottura del secondo matrimonio, Berio pensava ormai al rientro in Italia: acquistò una casa colonica in Toscana, nella campagna presso Radicondoli, dove si stabilì nel 1974, abitando anche a Roma (1972-77), poi a Firenze (dal 1985); nel 1975, a Tel Aviv, dove si trovava per un giro di concerti, conobbe Talia Pecker, musicologa israeliana, che sposò nel 1977.
Pur con centro a Radicondoli, proseguirono i contatti internazionali, nel decennio 1970-80 specialmente intensi con Parigi; qui come parte del Centre Pompidou stava infatti nascendo l’IRCAM (Institut de Recherche et Coordination Acoustique/Musique) sotto la direzione di Pierre Boulez, che chiamò a collaborare Berio, Vinko Globokar, Jean-Claude Risset e Max Mathews, nel 1974 incaricando lo stesso Berio di fondare e dirigere il dipartimento elettroacustico dell’Istituto. Per onorare l’impegno, che gli dava l’occasione di riprendere con nuovi strumenti elettronici le esperienze dello Studio di Milano, in questi anni Berio risiedette con la moglie a Parigi, dove nacquero i figli Daniel (1978) e Jonathan (1980).
Nel frattempo, nel campo della musica registrata, mise a punto lavori di rilievo, come Per la dolce memoria di quel giorno (dai Trionfi del Petrarca) per il Ballet du XXe siècle di Maurice Béjart (1974), Chants parallèles e Diario immaginario, «opera radiofonica» da Molière, che nella traduzione di Vittorio Sermonti e con la regìa di Giorgio Pressburger vinse il Premio Italia 1975.
All’IRCAM, che ufficialmente venne inaugurato nel 1977, Berio introdusse il fisico Giuseppe Di Giugno, il quale dall’Università di Napoli – insegnava Fisica delle particelle elementari e lavorava per proprio conto a progetti di musica elettronica – fu convinto a trasferirsi a Parigi, dove progettò diverse macchine per la trasformazione del suono 'in tempo reale', fino al più perfezionato modello 4X: un sistema digitale di grande potenza che permetteva la trasformazione istantanea dei vari parametri del suono e il controllo della sua proiezione spaziale.
Il frutto di queste esperienze, più che in specifici lavori legati alle nuove tecnologie, si coglie nella serie di composizioni nate a metà degli anni Settanta: in campo strumentale emerge Point on the curve to find... (1974) per pianoforte e 23 strumenti, poi rielaborato in Concerto II (Echoing Curves) del 1987-88, dove Berio sostituisce la tipica contrapposizione solo/tutti della forma concertante con la gittata unica di un processo stratificato, che vede la parte pianistica (scritta in precedenza) svolgersi come una linea continua sulla quale altri strumenti si sovrappongono per svilupparne caratteri armonici e proprietà nascoste.
In questa stagione compositiva spicca in modo particolare la Sequenza VIII per violino (1976), esemplare per come modelli storici (Bach come esempio di complessità polifonica e Paganini d’invenzione virtuosistica) si convertono in un’esplosione di combinazioni originali. Nel campo vocale, oltre ai Cries of London (1974-76) per otto voci, nacque per la radio nel 1974 A-Ronne su testo di Edoardo Sanguineti per cinque attori, un 'documentario', quasi un’enciclopedia su ogni articolazione della vocalità, che mantiene un legame con opere come Thema (Omaggio a Joyce), Diario immaginario e soprattutto Sequenza III, aprendosi, nel suo gioco di sfumature tra parola e gesto vocale, a una sorta di animatissimo 'teatro per gli orecchi'.
Una visione enciclopedica, in senso antropologico, è sottesa anche a Coro (1974-76), col suo vagare fra musiche e testi di ogni paese, dai canti degli indiani d’America alle poliritmie africane, dal Cile alla Croazia, da Venezia alla Polinesia; per converso, la struttura globale è controllatissima, con gli esecutori disposti in oltre 40 coppie formate ciascuna da un corista e uno strumentista affiancati, dove voce e strumento si corteggiano e si circondano in una sorta di osmosi melodica; dei versi di Pablo Neruda che invadono la scena come un ritornello («venid a ver la sangre por las calles») stabiliscono un polo drammatico di contrasto col mondo individuale solistico che tesse il filo della composizione.
Il ritorno al teatro musicale vede la ripresa di una collaborazione, dopo Allez-hop! del 1959, con lo scrittore Italo Calvino, il quale però era non immediatamente arrendevole a smembrare i propri testi per sottometterli alle esigenze musicali di Berio: il punto di frizione si situava fra la narratività e l’autonomo sviluppo musicale (con musica spesso già scritta) preteso dal musicista. D’altra parte proprio la ‘resistenza’ di Calvino, in un dialogo risentito e non esente da spunti polemici, serve a precisare il carattere del teatro musicale di Berio, che sempre di più, anziché un genere, diventa un luogo della fantasia in cui far confluire le istanze più diverse, un laboratorio in cui i testi letterari ‘diventano musica’ attraverso un lungo percorso di appropriazione.
Il primo frutto fu La vera storia, rappresentato alla Scala nel 1982 e polarizzato sul tema della festa popolare articolata in una serie di momenti chiave, festa, tumulto, sopraffazione, prigionia, morte; l’archetipo del Trovatore verdiano, che si delinea nella prima parte dell’opera, viene come sublimato nella seconda, che rielabora i materiali della prima, sia musicali sia testuali, in una sorta di teatro autoriflessivo, spingendo all’estremo quella dimensione del re-working così inerente alla creatività di Berio.
Molto diverso è Un re in ascolto, nato fra il 1979 e il 1983 e presentato al Festival di Salisburgo nel 1984; l’argomento di Calvino ruota attorno alla prova di uno spettacolo, un rifacimento della Tempesta di Shakespeare preparato da Prospero, un uomo di teatro giunto al limite della vita; fra audizioni, contrasti e discussioni si assiepano figure di contorno, finché la scena si vuota e Prospero muore solo. Anche nel rifacimento voluto da Berio resta in filigrana una linea intermittente di vicenda unitaria, e addirittura si attenua una costante del teatro di Berio, la cancellazione del personaggio: la morte nell’ultimo episodio ne restituisce senza dubbio le fattezze a Prospero, anche se tutte interiori e ritmate dal flusso circolare dei ricordi. Questo identificarsi di Prospero con la dimensione dell’ascolto fa pensare all’ultimo Luigi Nono di Prometeo, tragedia dell’ascolto (1984), come metafora dell’artista moderno che tende a rifugiarsi da un mondo imbottito di suoni nelle solitudini del suono puro; in Berio una tendenza del genere s’insedia anche in opere strumentali, come Voci, quasi un concerto per viola e due gruppi di strumenti, o nel tessuto onirico di Requies (in memoriam Cathy Berberian): dove, scrisse l’autore nella presentazione (1984), «un’orchestra da camera suona una melodia. Piuttosto, descrive una melodia: ma solo come un’ombra può descrivere un oggetto e un’eco può descrivere un suono».
Nel 1980 Berio ricevette la laurea honoris causa della City University di Londra e nello stesso anno abbandonò l’impegno continuativo con l’IRCAM, pur restando direttore dell’istituto di ricerca elettroacustica; nel contempo prospettò al Comune di Firenze l’idea di fondare un analogo centro di ricerca musicale, ‘Tempo Reale’. Direttore artistico per breve tempo dell’Orchestra regionale della Toscana, nel 1984 gli venne affidata la direzione del XLVII Maggio Musicale Fiorentino, per il quale allestì un programma originale che al palinsesto tradizionale aggiungeva musiche e danze popolari (dalla Iugoslavia e dalla Sicilia), facendo scendere nelle strade bande e gruppi musicali amatoriali a creare un rapporto più diretto fra il ‘Maggio’ e la città; in questo spirito nacque la rappresentazione di Orfeo B, un progetto collettivo di trascrizione dell’Orfeo di Monteverdi coordinato da Berio con la partecipazione di musicologi e giovani musicisti, attento al recupero della vocalità e all’impiego di una vasta gamma di strumenti, da quelli originali al live electronics.
Intanto si conclusero le trattative per l’avvio definitivo a Firenze di ‘Tempo Reale’, che venne fondato nel 1987 col sostegno economico del Comune e della Regione. Al centro degli interessi di Berio, oltre al perdurante desiderio di far interagire suoni strumentali e suoni elettronici, diventò sempre più allettante la proiezione spaziale del suono; da queste istanze, con la collaborazione di Peter Otto e Nicola Bernardini, derivò la messa a punto di TRAILS (Tempo Reale Audio Interactive Location System), un sistema multicanale che, proseguendo il 4X di Di Giugno, permetteva appunto la distribuzione controllata e il movimento del suono nello spazio.
Sul piano compositivo la prima prova di grande rilievo in tali direzioni fu Ofaním del 1988-92 (poi revisionato nel 1997): articolato dal contrasto fra le visioni apocalittiche del Libro di Ezechiele e la sensualità carnale del Cantico dei Cantici, il brano affida i testi a due gruppi simmetrici di voci bianche accompagnati dalle percussioni, fonti sonore che TRAILS diffonde in uno spazio circolare e ruotante (Ofaním in ebraico sta per ‘ruote’); ma il pezzo conta fra le cose più alte di Berio per il vero colpo di teatro finale, la ‘rivelazione’ della voce femminile (cap. 19 di Ezechiele) che incarna la figura della madre e il tema dell’esilio, con un canto quasi a voce sola dove melopea ebraica e matrice monteverdiana si fondono in una sintesi altera e commovente.
L’attivismo organizzativo di Berio cercò di esportare l’azione di ‘Tempo Reale’ in altre città: nell’aprile 1992 progettò un laboratorio permanente di ‘Tempo Reale’ al Lingotto di Torino, dove a settembre realizzò una serie di concerti sul tema ‘Musica e Lavoro’, impostando pure ambiziosi collegamenti con l’IRCAM, la Stanford University, il Massachusetts Institute of Technology, e altri centri di ricerca di Padova, Palermo, Genova, Amsterdam e Marsiglia.
Ricevuto nel 1989 il Siemens-Musikpreis, cui si aggiunse due anni dopo il premio Wolff, nel 1990 Berio compose Rendering, ‘restauro’ del frammento sinfonico D 936a di Franz Schubert, in realtà un atto d’amore verso il compositore, giocato fra frammenti dell’originale e zone neutre di raccordo, esse pure filtrate da elementi schubertiani: opera di trascrizione che sconfina nell’originalità, concludendo quel dialogo con i grandi maestri del presente e del passato che attraversa tutta la carriera di Berio, infittendosi negli ultimi anni con rivisitazioni di Boccherini, Falla, Mahler, Brahms e Verdi.
L’ultimo decennio fece registrare un’attività ancora aumentata per incombenze pubbliche e organizzative che si sommarono al lavoro creativo. Nell’anno accademico 1993-94 Berio fu invitato a tenere le sei conferenze della cattedra di poetica Charles Eliot Norton della Harvard University, poi pubblicate postume (2006) col titolo Un ricordo al futuro: lezioni americane. Nel 1993 dopo un lungo intervallo tornò al quartetto d’archi con Notturno (Quartetto III), la più ampia composizione del genere, dove la ricerca delle possibilità tecniche si ritira di fronte all’intensità interiore, di cui è già spia un frammento in esergo di Paul Celan, allusivo alla «parola che ammutolisce». Ma in mezzo ad altri lavori importanti come Continuo (1989-91) e Ekphrasis (Continuo II) del 1996, riprese lena la tentazione per il teatro musicale.
La morte di Italo Calvino nel 1985 impose prolungate ricerche per un nuovo collaboratore, concluse dall’incontro con Dario Del Corno, studioso di autori latini e greci e traduttore di testi teatrali classici; nacque così Outis, che andò in scena alla Scala il 4 ottobre 1996, il ‘Nessuno-Ulisse’ dell’episodio di Polifemo che nega la propria identità scomponendola in una serie di cicli ricorrenti e affacciati su luoghi emblematici della vita moderna: una seduta d’asta, una banca, un bordello, un supermercato, un set di regìa, una nave da crociera. Outis-Nessuno-Ulisse è un punto di fuga in una costellazione culturale stratificata nei testi tratti da Omero, Catullo, Auden, Brecht, Joyce, Melville, Sanguineti, Celan, che la musica ha il compito di comporre e riassumere in un moto ondoso di trapassi dal sogno alla realtà.
Nel 1995 Berio ottenne la laurea honoris causa dall’Università di Siena, nel 1996 il Praemium Imperiale Japan Art Association, e poco dopo concluse il suo ultimo lavoro teatrale, Cronaca del Luogo, su testo della moglie Talia Pecker Berio: commissionato da Gérard Mortier per il Festival di Salisburgo, mette a fuoco situazioni singole legate ai sempre più sentiti interessi di Berio per la cultura ebraica e prende spunto dalla particolare caratteristica acustica della Felsenreitschule dove andò in scena nel 1999. Il luogo fisico di questa ‘cronaca’ si trova alla congiunzione di due realtà unificate dalla musica: la parete di fondo della sala salisburghese, dove strumentisti e coro, occupando invisibili le nicchie scavate nella roccia, fanno risuonare la parete per fasce orizzontali con i suoni amplificati dalla tecnologia digitale di ‘Tempo Reale’; e lo spazio del proscenio, dove prendono rilievo le azioni e le persone singole, in particolare una donna, ‘R’, ruolo di soprano drammatico che dà voce a testimonianze bibliche e a frammenti lirici moderni di Celan e Marina Cvetaeva.
Nel 2000 Berio ricevette la laurea honoris causa dell’Università di Bologna e per l’occasione, in sei serate, lesse le sei ‘lezioni di Harvard’, ciascuna preceduta e seguita dall’esecuzione di due Sequenze. Nello stesso anno venne eletto presidente dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia e si dedicò con entusiasmo alla nuova responsabilità, presiedendo alle varie attività dell’Accademia: gestione dei concerti, corsi e seminari, edizione di riviste e pubblicazioni scientifiche; sopra tutto seguì da vicino la nascita dell’Auditorium di Roma Parco della musica, progettato da Renzo Piano (nell’aprile 2002 fu inaugurata la sala media, nel dicembre la sala grande).
Berio riprese così a considerare l’idea, accarezzata da tempo, di stringere città e musica in forme organizzative più sostanziali e si interessò attivamente alle discussioni per la riforma dei conservatori di musica italiani; progetti che furono rallentati per l’insorgere di una grave malattia, che tuttavia non gli impedì di portare a termine alcune importanti composizioni: nel 2001 la Sonata per pianoforte, che rispetto alla precedente esperienza pianistica ha lo stesso valore riassuntivo del Notturno nei confronti del quartetto per archi.
Nel frattempo, su richiesta del teatro dell’opera di Los Angeles, pensò a una rivisitazione dell’Incoronazione di Poppea monteverdiana, progetto che restò incompiuto anche perché, dopo lunghe esitazioni, Berio decise di accogliere la richiesta dell’editore Ricordi di comporre una nuova conclusione per il terz’atto della Turandot di Puccini, rimasto interrotto alla morte dell’autore (1924) e già completato a suo tempo da Franco Alfano (1926); la soluzione di Berio, singolarmente priva di trionfalismi, andò in scena a Las Palmas nel gennaio 2002 (solo il terz’atto) e a Los Angeles nel maggio dello stesso anno (l’opera completa).
Il bisogno di chiudere altre esperienze compositive condusse nel 2002 a Sequenza XIV per violoncello, l’ultima della serie (la XII per fagotto, e la XIII per fisarmonica, erano nate entrambe nel 1995); infine, tra il 2002 e il 2003 si concretò la lunga gestazione di Stanze: da un primitivo progetto per una voce maschile e una femminile, l’opera si trasformò in una partitura per voce di baritono, coro di tre voci maschili e orchestra su testi di Celan, Giorgio Caproni, Sanguineti, Alfred Brendel e Dan Pagis: opera di congedo e di profonda riflessione sull’idea di Dio che comprende pure toni colloquiali e ironici inquadrati da brucianti ricordi della Shoah, metafora di una tragedia della condizione umana che l’ultima pagina sublima in una pacata catarsi. La composizione fu finita il 16 aprile 2003, poche settimane prima della morte; la prima esecuzione, postuma, venne diretta da Christoph Eschenbach a Parigi il 22 gennaio 2004.
Morì a Roma il 27 maggio 2003.
Il 24 ottobre 2009 venne fondato il Centro Studi Luciano Berio con sede a Firenze, con lo scopo di tutelare e diffondere l’eredità musicale e intellettuale del compositore in collegamento con i vari campi del sapere attraversati dalle sue esperienze. Il lascito manoscritto del compositore è integralmente conservato nella Paul Sacher-Stiftung di Basilea.
Tra le altre opere (oltre le composizioni menzionate nel testo) sono da ricordare: Air per soprano e 4 strumenti (1970); Bewegung per orchestra (1971-84); Eindrücke per orchestra (1973-74); Calmo (in memoriam Bruno Maderna) per mezzosoprano e 22 strumenti (1974-89); Ritorno degli snovidenia per violoncello e 30 strumenti (1976-77); Rounds per pianoforte (1977); Duetti per due violini (1979-83); Ricorrenze per flauto, oboe, clarinetto, corno e fagotto (1985-87); Canticum novissimi testamenti, ballata per 4 clarinetti, quartetto di sassofoni e 8 voci (1989-91); Continuo per orchestra (1989-91).
Si vedano inoltre i cataloghi delle opere nei siti della Universal Edition (Vienna) e del Centro Studi Luciano Berio: www.universaledition.com/Luciano-Berio/composers-and-works/composers/54 e www.lucianoberio.org/en/works.
Un’edizione complessiva degli scritti e delle interviste di Berio (editi e inediti; elenco alla pagina web www.lucianoberio.org/node/1604) è in preparazione per la casa editrice Einaudi (collana a cura di T. Pecker Berio); sono apparsi finora: Un ricordo al futuro. Lezioni americane, Torino 2006 (prima ed. inglese: Remembering the future. The Charles Eliot Norton Lectures, Cambridge, Massachusetts, 2006); Scritti sulla musica, a cura di A.I. De Benedictis, Torino 2013. È stato altresì pubblicato L. Berio - F. d’Amico, Nemici come prima. Carteggio 1957-1989, a cura di I. d’Amico, Milano 2002.
L. Berio, Intervista sulla musica, a cura di R. Dalmonte, Roma-Bari 1981 (ed. inglese: Two interviews with Rossana Dalmonte and Bálint András Varga, New York-London 1985); D. Osmond-Smith, Playng on words. A guide to L. B.’s «Sinfonia», London 1985; I. Stoianova, L. B. Chemins en musique, in La Revue musicale, 1985, n. 375-377; D. Osmond-Smith, B., Oxford 1991; E. Sanguineti, Per musica, a cura di L. Pestalozza, Milano-Modena 1993; B., a cura di E. Restagno, Torino 1995 (con bibliografia); Nuova musica alla radio. Esperienze allo Studio di fonologia della RAI di Milano 1954-1959, a cura di A.I. De Benedictis - V. Rizzardi, Roma 2000; Sequenze per L. B., a cura di E. Restagno, Milano 2000; D. Osmond-Smith, L. B., in The New Grove dictionary of music and musicians (ed. 2001), III, pp. 350-358; H.-J. Hinrichsen, «Rendering per orchestra»: L. Berios komponierter Essay über Schuberts Spätwerk, in Schubert: Perspektiven, II (2002), pp. 135-166; F. Giomi - D. Meacci - K. Schwoon, Live electronics in L. B.’s music, in Computer Music Journal, XXVII (2003), 2, pp. 30-46; M. Uvietta, Il pianoforte di L. B., in Rivista di Analisi e Teoria Musicale, XII (2006), 2, pp. 11-72; B.’s «Sequenzas»: essays on performance, composition and analysis, a cura di J.K. Halfyard, Aldershot 2007; U. Brüdermann, Das Musiktheater von L. B., Frankfurt a.M., 2007; A.I. De Benedictis, Gli esordi dello Studio di fonologia musicale: «Il risultato di un incontro fra la musica e le possibilità dei nuovi mezzi», in Lo Studio di fonologia. Un diario musicale 1954-1983, a cura di M.M. Novati, Milano 2009, pp. 7-23; G. Morelli, L. B., in Belfagor, LXIV (2009), pp. 122-146; C. Di Luzio, Vielstimmigkeit und Bedeutungsvielfalt im Musiktheater von L. B., Mainz 2010; L. B. Nuove prospettive/New perspectives, a cura di A.I. De Benedictis, in Chigiana, 2012, vol. 48 (contiene, tra gli altri: E. Sanguineti, Quattro passaggi con L.; M. Agamennone, Di tanti ‘transiti’. Il dialogo interculturale nella musica di L. B.; T. Gartmann, Nuove prospettive degli studi su L. B., con ampia bibliografia aggiornata al 2012).