BIANCIARDI, Luciano
Nacque a Grosseto il 14 dic. 1922 da Atide, cassiere di banca, e Adele Guidi, maestra elementare. Conseguita la maturità classica presso il liceo "Carducci-Ricasoli", si iscrisse alla facoltà di lettere e filosofia dell'università di Pisa. Ai primi del 1943, chiamato alle armi, interruppe gli studi e, dopo il corso allievi ufficiali, fu inviato nell'Italia meridionale dove, in Puglia, lo colsero il bombardamento di Foggia del luglio e l'armistizio dell'8 sett. 1943. Antifascista, nel 1945 si iscrisse al Partito d'azione.
Alla fine del 1945 poté riprendere gli studi presso la Scuola normale superiore di Pisa dove ebbe come insegnanti L. Russo, A. Capitini, D. Cantimori, G. Calogero, con il quale si sarebbe laureato nel 1947 discutendo una tesi sul pensiero di John Dewey. Dopo lo scioglimento del Partito d'azione (1947) rimase su posizioni di sinistra senza però aderire a nessuna formazione politica. In questi stessi anni venne notevolmente influenzato sia dall'opera di Gramsci, del quale si andavano pubblicando gli scritti del carcere (ampliando e integrando l'insegnamento di Russo e il suo influsso prevalentemente crociano), sia dalla cultura americana che aveva approfondito negli studi, universitari e non, di filosofia e letteratura.
Di nuovo a Grosseto, insegnò in una scuola media lingua inglese e poi storia e filosofia nel locale liceo (1949-1951). Abbandonato l'insegnamento, riorganizzò la biblioteca comunale Chelliana, danneggiata dall'alluvione del 1945, e nel 1952 ne divenne direttore, spendendo questi anni per lo sviluppo culturale e civile della sua città (fu tra gli artefici del cineclub cittadino e si impegnò, con un servizio di bibliobus, per la diffusione della lettura nel Grossetano). Gli anni tra il 1952 e il 1954 segnarono i suoi esordi giornalistici e letterari. Suoi articoli comparvero sulla Gazzetta, quotidiano di Livorno sul quale curò la rubrica "Incontri provinciali", Belfagor, l'Avanti! (al quale avrebbe collaborato con interruzioni fino al 1963), Comunità, Nuovi Argomenti, L'Automobile e Il Contemporaneo (fino al 1957).
"Ho scelto di star dalla parte dei badilanti e dei minatori della mia terra - scrisse nel 1952 -, quelli che lavorano nell'acqua gelida con le gambe succhiate dalle sanguisughe, quelli che cento, duecento metri sotto terra consumano giorno a giorno i polmoni respirando polvere di silicio. Anche loro hanno bambini come il mio, hanno un avvenire da costruire" (Nascita di uomini democratici, in Belfagor, VII [1952], pp. 466-471). Legato per formazione e per scelta a tematiche classiste e libertarie, il B. avrebbe dato all'impegno letterario il senso di un diretto engagement civile, concependo l'attività culturale come strumento di denuncia e di presa di coscienza, ma anche come intervento direttamente e immediatamente militante. Non fu casuale, pertanto, che il suo primo libro, I minatori della Maremma, scritto in collaborazione con Carlo Cassola (Bari 1956), fosse una paziente ricerca e un'inchiesta appassionata sulle condizioni di lavoro e di vita nelle miniere del Grossetano (anticipazioni ne apparvero su Nuovi Argomenti nel 1954 e 1955).
Si inserisce in questa fase un episodio (maggio 1954) che avrà forte influenza sulla vita del B., tanto da tornare di frequente nei suoi scritti: la sciagura di Ribolla, l'esplosione di grisou in una miniera di lignite nella quale restarono uccisi quarantatré operai. In questo fatto il B. vide l'emblema di una sconfitta storica della classe operaia e della possibilità di rinnovare la società italiana: "la fine di un periodo, di un entusiasmo, di una speranza collettiva, e l'avvio di una situazione di chiusura in cui pareva dover cadere l'intero paese. Sprofondò in una crisi spaventosa e di lì a poco fuggì a Milano" (Terrosi, 1985, p. 87).
A Milano dal luglio 1954, già attivo nel gruppo redazionale dei Contemporaneo, diretto da C. Salinari, e collaboratore di Cinema nuovo, diretto da G. Aristarco, fu chiamato da Fabrizio Onofri a svolgere il lavoro di redattore nella nascente casa editrice di Giangiacomo Feltrinelli, dove lavorò fino al 1957, allorché fu licenziato. L'anno stesso pubblicò per le stesse edizioni l'ironico libello Il lavoro culturale. Gli anni tra il 1954 e il 1962 furono particolarmente duri e difficili sia per l'isolamento in cui il B. si venne a trovare, sia per le difficoltà economiche (è di questo periodo anche la rottura del matrimonio e l'inizio di una nuova relazione). Il suo maggior cespite venne dalle traduzioni dall'inglese (eseguì la versione italiana di circa ottanta opere), lavoro che a partire dal licenziamento dalla Feltrinelli e per tutta la vita avrebbe costituito la sua principale occupazione. Scrisse un secondo romanzo (L'integrazione, Milano 1960), finché la pubblicazione della Vita agra (ibid. 1962) gli portò successo di pubblico e di critica.
Fra le traduzioni del B., pur se la scarsa autonomia verso le molte case editrici per le quali lavorò spesso non gli consentì di effettuare scelte, è comunque rinvenibile una traccia dei suoi interessi nel percorso (prevalentemente americano) che lega scrittori come J. Steinbeck, W. Faulkner, J. London, S. Bellow, I. Shaw, T. Williams, J. Barth, il sociologo C. Wright Mills, lo storico P. J. Taylor, J. F. Kennedy. In alcuni casi il lavoro di traduttore del B. ha costituito vere e proprie operazioni culturali: la brillante versione italiana dei Tropici di H. Miller (autore con il quale il B. strinse rapporti di amicizia e verso cui riconosce un debito letterario) e la pionieristica traduzione (1961) di J. Kerouac e di altri autori della Beat Generation.
Sulle ragioni dei trasferimento a Milano il B. fornisce più volte una spiegazione metaforica. Egli deve compiere una missione affidatagli dai compagni degli operai morti nella miniera di Ribolla: far saltare il "torracchione" della Montecatini, azienda responsabile della sciagura. "Pensai che la lotta, quassù, si poteva condurre con mezzi migliori, più affinati, e a contatto diretto con il nemico" (Lettera da Milano, in Il Contemporaneo, 5 febbr. 1955, p. 2). Ma la Milano degli anni Cinquanta - con una classe operaia disgregata e abbrutita dalla fatica, con una cultura di sinistra accademica, antiquata e parolaia, e perciò inservibile, con le sezioni del partito comunista burocratizzate e in mano ad intellettuali dei ceti medi, con la sua angosciosa solitudine metropolitana e, sopra ogni cosa, con il dominio dell'ideologia e della pratica del neocapitalismo - gli apparve ancora più chiusa e indisponibile della provincia che aveva lasciato. "Da qui si usciva in due modi, pensai: o coi piedi avanti, o raccontando la propria rabbia" (lettera del febbraio 1964 a G. Rabiti, in Angelini, p. 8).
Nel Lavoro culturale il B. aveva narrato le speranze e l'eclisse delle speranze della propria generazione (maturata con la Resistenza), vissute in provincia (trasfigurata, attraverso il mito letterario americano, in una sorta di Grosseto-Kansas City), quando, nel "fecondo e confuso periodo della ricostruzione non tanto economica quanto morale e civile" (Angelini, p. 20), sembrava che molti sogni di libertà e progresso sociale avrebbero potuto avverarsi. Già qui, nel mimetico sdoppiamento che il B. compie tra i due protagonisti (Luciano Bianchi e Marcello, il fratello), si intravedono le due paradigmatiche risposte possibili ad uno sviluppo sociale e politico tendente non già all'esaltazione della libera espressione bensì alla subordinazione dell'individuo alle leggi della produzione: l'integrazione in quell'ingranaggio sociale e produttivo che si voleva distrutto o, quanto meno, diverso, oppure l'aspra (agra) condizione dell'irriducibile. Questo sdoppiamento sarebbe stato presente anche nel secondo romanzo (L'integrazione, appunto), ambientato nella Milano del boom economico degli anni Cinquanta, tra le redazioni delle case editrici e l'ossessionante meccanismo produttivo il cui significato si perde nell'ingranaggio stesso divenuto fine e destinatario obbligato di tutte le attenzioni e le energie.
Con La vita agra, il romanzo più noto e letterariamente considerato il più riuscito, il B. chiudeva questo ciclo narrativo. Autobiografico come i precedenti, ma privo della dicotomia tra integrazione e ribellione, il libro narra dell'isolamento di un intellettuale nel periodo del boom, portando a deciso compimento la scelta più radicale. Lo scenario è anche qui la Milano del "miracolo italiano", dove l'io narrante (un traduttore) ha scelto di rifiutare l'integrazione nell'industria culturale e di lavorare in proprio, perseguitato da mille richieste (i "tafanatori") e dalla quotidiana angoscia di non riuscire a tradurre le venti cartelle che gli assicurano la sopravvivenza. Unici lenimenti (ma non tali da costituire una speranza) vengono ad essere il liberatorio erotismo di un forte vincolo affettivo e la scelta della propria irriducibilità a rotella dei meccanismo, genesi stessa, quest'ultima, della propria condizione, insieme, di autenticità e di "devianza".
Nella Vita agra - ha scritto Gessani (pp. 53-55) - "l'io non esiste più in modo alcuno, e guardarlo significa ormai guardare l'agitazione insulsa di parole e di messaggi incapaci di ordinarsi in qualche modo ed organizzarsi. Come, vivendo il mondo del lavoro proletario, Bianciardi scopre soltanto un lavoro degradato, così, affrontando finalmente l'io, non trova che letteratura, angoscia e senso dell'assurdo. Ma questo assurdo dilagante non ha un carattere metafisico e non è nemmeno un caso psicologico: è l'assurdo, vissuto in prima persona, di una società malata e forse morente, nella quale la sovrabbondanza degli stimoli nasconde squallore morale, solitudine ed incapacità di vivere in modo pieno e compiuto… Bianciardi ha messo infine la sua carica d'esplosivo dentro il palazzo, anche se l'ha dovuta mettere da solo e non, come aveva sperato partendo da Grosseto, con l'aiuto di una organizzazione vasta ed impegnata".
Il B., che con la Resistenza e la ricostruzione aveva assorbito i valori della solidarietà e dell'uomo come fine con l'inflessibile rigore morale e intellettuale dei militante azionista, resta annichilito davanti al trionfo del neocapitalismo. I suoi primi libri (che infatti più che un giudizio letterario ne chiedono - caso inconsueto nella letteratura italiana, ma frequente nelle culture letterarie francese e americana - uno morale e civile) sono forse la testimonianza più esplicita e diretta di un consapevole no alla società di massa. In questo no è stata legittimamente intravista una premonizione del Sessantotto, ma esso assume una carica dirompente di portata ancor più radicale se inteso (collegato con le coeve elaborazioni del pensiero critico occidentale) come contributo alla fondazione di un'antropologia dell'uomo moderno.
Il successo dei libro da un lato sottrasse in parte il B. agli affanni della precarietà economica ed esistenziale (pur procurandogli alcune situazioni spiacevoli sul piano umano e giudiziario), dall'altro gli chiarì subito come il sistema avesse vinto ancora una volta prendendo per brillante scherzo letterario il travaglio di un'esistenza: "Finirà che mi daranno uno stipendio mensile solo per fare la parte dell'arrabbiato italiano. Il mondo va così - cioè male. Ma io non ci posso fare nulla. Quel che potevo fare l'ho fatto e non è servito a niente" (in Terrosi, 1985, p. 99). Si trasferì a Sant'Anna di Rapallo nel luglio 1964, e li continuò le collaborazioni con periodici e quotidiani e il mestiere di traduttore che sempre considerò il suo vero lavoro.
Nel dispersivo periodo che va da La vita agra a Aprire il fuoco (1962-69) il B. collaborò ad antologie per la scuola media e fu coautore di alcune sceneggiature per radio, televisione e cinema (da segnalare I Nicotera, sceneggiato televisivo scritto, insieme con G. Cesarano, nel 1968). Collaborò, inoltre, a molte testate tra le quali l'Unità (1963, all'edizione piemontese aveva già collaborato nel 1955-56), Il Giorno (1963,66), Le Ore (1963-65), Abc (1965-68), Playmen (1969-70), in particolare con novelle e rubriche televisive e sportive. Va segnalata inoltre la cessione dei diritti per la realizzazione di due film: La vita agra (regia di C. Lizzani, 1964, con U. Tognazzi e G. Ralli) e Il merlo maschio (regia di P. Festa Campanile, 1971, con L. Buzzanca e L. Antonelli, tratto dal racconto Il complesso di Loth del 1968).
Sul piano più propriamente letterario, in questo periodo il B. approfondì il filone, già in precedenza sperimentato, ruotante attorno a tematiche risorgimentali. Nella rilettura del B., il Risorgimento diviene simbolo della possibilità di costruire una società di eguali e degli enormi ostacoli che vi si frappongono, fino allo stravolgimento delle speranze e delle idealità iniziali. Tra i libri "risorgimentali" del B. vi sono lavori di divulgazione storiografica (Da Quarto a Torino. Breve storia della spedizione dei Mille, Milano 1960; Daghela avanti un passo!, ibid. 1969; Garibaldi, ibid. 1972), ma la vena più propriamente letteraria emerge in La battaglia soda (ibid. 1964), interessante esperimento linguistico (è scritto in un italiano ottocentesco), e Aprire il fuoco (ibid. 1969).
L'ultimo romanzo del B. (Aprire il fuoco, scritto nel marzo 1968) è la fantasiosa rivisitazione dell'insurrezione antiaustriaca delle Cinque giornate di Milano, situata però nel marzo 1959, con un curioso intreccio di passato e presente per cui nella lotta contro Radetzky si incontrano personaggi come papa Giovanni XXIII, Giorgio Bocca ed Enzo Jannacci. Sedata la rivolta e tornati gli Austriaci a Milano, il narratore (ancora in prima persona) si trova in esilio a Nesci (non è difficile riconoscervi Sant'Anna di Rapallo), in attesa o di un segnale che ridia vita alla rivolta o, più probabilmente, degli sgherri di Radetzky; pronto, in entrambi i casi, ad aprire il fuoco. Nel libro l'accentuazione fantastica, quasi surreale, dà il senso di una sconfitta irrimediabilmente consumata a cui si accompagna un lucido presagio - quasi un anelito - di morte.
Nell'autunno 1970 egli tornò a Milano dove ebbe modo di collaborare ai settimanali Tempo e Guerin sportivo.
Il B. morì a Milano, di cirrosi, il 14 nov. 1971.
Tra gli altri suoi scritti citiamo i volumi: Viaggio in Berberia, Roma 1969, narrazione di un'escursione in Africa settentrionale, e Il peripatetico e altre storie, postumo, Milano 1976, che raccoglie le più importanti pubblicazioni minori.
Fonti e Bibl.: Per una bibl. degli scritti su e del B. (compresi traduzioni e alcuni inediti) si veda M. C. Angelini, L. B., Firenze 1980 (volume della collana del "Castoro" della Nuova Italia), al quale rimandiamo, limitandoci qui ai pochi altri titoli essenziali: M. Terrosi, B. com'era (lettere di L. B. ad un amico grossetano), Grosseto 1974; W. Mauro, L. B., in Letteratura italiana. I contemporanei, V, Milano 1974, pp. 1351-1368 (riedito in Letteratura ital. Novecento. I contemp., IX, ibid. 1979, pp. 8903-8920); G. Pampaioni, in L. Bianciardi, Lavita agra, Milano 1974, pp. 7-12; O. Del Buono, in L. Bianciardi, Aprire il fuoco, Milano 1976, pp. IVI; M. Terrosi-A. Gessani, L'intellettuale disintegrato: L. B., Roma 1985 (contiene lo scritto dei Terrosi del 1974 e un saggio del Gessani di taglio filosofico-esistenziale, che si manifesta particolarmente adatto, più di quello meramente letterario, a cogliere compiutamente l'ambito e la portata del discorso bianciardiano).