MANARA, Luciano
Nacque a Milano, in contrada S. Andrea, il 25 marzo 1825 da Filippo, facoltoso avvocato discendente da una famiglia di agricoltori arricchitasi durante l'età napoleonica, e da Maria Luca. Compì gli studi liceali a Milano ed ebbe come insegnante, tra gli altri, C. Negri. Pur non militando nell'esercito asburgico, il M. acquisì una discreta cultura militare, frequentando le lezioni della scuola di Marina a Venezia. Fra il 1840 e il 1846 soggiornò a lungo in Germania e in Francia, maturando una buona conoscenza delle lingue straniere, e a Roma, ove conobbe L. Torelli. Il 10 sett. 1843, vincendo le perplessità della propria famiglia, il M. sposò Carmelita Fè (nata nel 1823 e originaria di Lugano), dalla quale ebbe tre figli. Anche nel periodo successivo al matrimonio, il M. condusse una vita elegante e oziosa, che gli valse il soprannome di "milordino". Assiduo frequentatore del salotto della contessa Maffei (Clara Carrara Spinelli), strinse profondi legami di amicizia con Emilio ed Enrico Dandolo, con E. Morosini, C. Cattaneo ed E. Cernuschi, rimanendo, a quanto sembra, estraneo all'universo delle società segrete.
Appassionato di musica, organizzò e diresse ad Antegnate (centro del Bergamasco ove la famiglia possedeva una vasta proprietà fondiaria) un'orchestra filarmonica. Amico di G. Verdi, il M. trascorse con lui un lungo soggiorno a Firenze, culminato nella prima rappresentazione del Macbeth (marzo 1847).
Nel clima agitato di fine 1847 - inizio 1848 il M. acquisì in breve tempo una rinnovata coscienza patriottica, e, presentendo una imminente sollevazione antiaustriaca, già nel dicembre 1847 (la circostanza fu successivamente riferita dal cognato E. Martini Giovio della Torre) effettuò un consistente acquisto di armi da fuoco. Nella notte fra il 17 e il 18 marzo 1848, un drappello di giovani si radunò presso l'abitazione del sacerdote A. Fava: vi erano, fra gli altri, il M., i fratelli Dandolo e Morosini. Dopo essersi recati, all'alba del 18 marzo, presso la chiesa di S. Bartolomeo (ove ricevettero l'assoluzione dal padre barnabita A. Piantoni e da don C. Sacchi), i giovani milanesi presero parte ai primi scontri che si accesero in città nelle ore successive. L'indomani, guidati dal nizzardo A. Anfossi, combatterono a porta Nuova, la cui conquista fu completata la mattina del 20. Nelle ore seguenti, il M., per evitare la riconquista del duomo da parte degli Austriaci, fece alzare barricate nelle contrade di S. Giuseppe, Andegari, Monte di pietà, Orso e Olmetto. Il 21 marzo i milanesi, nel tentativo di eliminare gli ultimi capisaldi nemici dentro la cerchia del Naviglio, diedero l'assalto al palazzo del Genio, in via del Monte di pietà: ferito a morte Anfossi, il M. assunse con decisione la guida dell'operazione, conclusasi solamente dopo l'incendio delle porte. Fu però il giorno successivo, durante il decisivo assalto a porta Tosa (grazie al quale i milanesi spezzarono l'accerchiamento austriaco, aprendosi una via verso il contado) che il M., al quale fu unanimemente riconosciuto un ruolo cruciale nell'impresa, s'impose come guida indiscussa dei giovani compagni d'armi.
Il 23 marzo, con il consenso del governo provvisorio di Milano, il M. decise di organizzare l'inseguimento alle truppe austriache in ritirata: costituito dai più valorosi combattenti delle barricate, nacque così il primo nucleo di quel battaglione dei volontari lombardi, che si sarebbe estinto solamente nel luglio 1849 a Roma. Lasciata Milano il 24 marzo, con un centinaio di uomini, il M. si diresse a Treviglio, ove attese l'arrivo delle altre colonne di volontari, guidate da A. Arcioni, A. Mozzoni e G. Torrero (detto Torres). L'estrema disorganizzazione e i cattivi rapporti fra i vari comandanti non favorirono un'efficace azione contro gli Austriaci: la stessa colonna Manara non andò oltre limitate operazioni su Crema e Desenzano. Dopo la riorganizzazione dei volontari compiuta dal generale M.N. Allemandi su incarico del governo provvisorio di Milano, il M., che assunse il grado di comandante di colonna (rinunciando a quello di generale di divisione, che si era in precedenza attribuito), ebbe alle sue dipendenze circa seicento uomini. Ai primi di aprile 1848, ebbe l'ordine di penetrare nel Trentino, per compiere una manovra di accerchiamento su Verona. In seguito, il comando dell'esercito piemontese preferì utilizzare gli uomini del M. nelle operazioni contro Peschiera: essi ebbero così a Castelnuovo (10-11 apr. 1848) il primo vero scontro con gli Austriaci, che si risolse, dopo un promettente inizio, in una completa disfatta.
Proprio in quei giorni il M. cominciò una fitta corrispondenza con l'amica Francesca Bonacina, detta Fanny (moglie del conte G. Spini), che sarebbe proseguita fino al giugno 1849. Insieme con le missive indirizzate alla consorte Carmelita, tale carteggio costituisce una preziosa fonte sugli eventi del biennio 1848-49.
Dopo lo scontro di Castelnuovo, la colonna Manara, fatta eccezione per una brevissima puntata nel Trentino in soccorso alla colonna Arcioni (14-20 apr. 1848), rimase di stanza a Salò. In seguito a una ulteriore riorganizzazione dei volontari disposta dal nuovo comandante Giacomo Durando (maggio 1848), il M. assunse la guida, con il grado di maggiore, del primo battaglione dei volontari lombardi (circa 450 uomini, suddivisi in sei compagnie). Durante la permanenza a Salò, notevole imbarazzo presso gli uomini del M. fu creato dal proclama del governo provvisorio di Milano, che invitava i Lombardi a pronunciarsi, entro il 29 maggio 1848, sulla proposta di unione al Piemonte: Emilio Dandolo redasse addirittura una protesta, sottoscritta all'unanimità dai suoi commilitoni (molti dei quali simpatizzavano per la repubblica). Ma il M., convinto che l'unione al Piemonte fosse in quel frangente il male minore e scosso dagli ammonimenti di familiari e amici rimasti a Milano, non inoltrò la protesta al governo provvisorio.
Alla fine del maggio 1848, gli uomini del M. furono dislocati presso monte Suello, fra Lombardia e Trentino. Nei successivi due mesi mantennero la posizione, senza essere impegnati in scontri rilevanti: in questo torno di tempo, più volte il M., nelle missive indirizzate alla Bonacina Spini, lamentò le miserevoli condizioni dei propri uomini, abbandonati a se stessi, e formulò penetranti riflessioni sul problema del volontarismo e sulla condotta di guerra dei generali piemontesi. Dopo il disastro di Custoza (26-27 luglio 1848) i volontari del M. iniziarono la ritirata verso il Piemonte: brillanti protagonisti nello scontro di Lonato (6 agosto), varcarono il Ticino il 19 agosto.
Persuaso che solamente il Piemonte offrisse in quel momento una credibile prospettiva militare e politica, il M. aveva lasciato cadere nei giorni precedenti i pressanti inviti di G. Garibaldi e G. Mazzini a proseguire la guerra di resistenza in territorio lombardo. Il 7 sett. 1848 sciolse il proprio battaglione, oramai irrimediabilmente minato dall'indisciplina. Pensò, in un primo momento, di recarsi a Venezia, insieme con Emilio Dandolo e pochi altri, ma, dopo un viaggio a Torino (durante il quale ebbe colloqui chiarificatori con i generali sabaudi Alessandro Ferrero della Marmora ed E. Perrone di San Martino), decise di costituire un corpo scelto inquadrato nell'esercito piemontese.
Già il 1( ott. 1848 il M. fu nominato maggiore comandante del battaglione dei bersaglieri lombardi, inserito più tardi nella divisione lombarda comandata dal generale G. Ramorino. Gli effettivi, circa ottocento, provenivano dai disciolti corpi dei doganieri, della colonna Thannberg e della guardia nazionale bergamasca. Tra gli ufficiali, il M. poté annoverare i Dandolo, Morosini, A. Mangiagalli e il bavarese G. von Hoffstetter.
Nei mesi successivi, il M. si appassionò alla dialettica politica piemontese, dalla quale dipendeva la ripresa della guerra all'Austria: sostenitore della democrazia giobertiana, accolse con vivo disappunto la notizia della rivoluzione a Firenze e Roma. Nell'imminenza della tornata elettorale del 15 genn. 1849, venne anche candidato alla Camera subalpina dagli elettori del collegio di Felizzano, ma, non possedendo l'età minima richiesta dallo Statuto, la cosa non poté avere sviluppi.
La tanto agognata ripresa delle ostilità si rivelò però una tremenda delusione: dislocati in località La Cava, alla confluenza fra Ticino e Po, i bersaglieri del M. (privati, a causa di un grave errore di valutazione del generale Ramorino, dell'appoggio del resto della divisione lombarda) opposero, il 20 marzo 1849, una disperata ma vana resistenza al grosso dell'esercito austriaco, che poté così scagliarsi contro l'ala destra dello schieramento piemontese, appoggiata su Mortara. Nei successivi giorni del conflitto, rimasero inattivi sulle rive del Po.
Dopo l'armistizio di Vignale, che stabiliva lo scioglimento della divisione lombarda senza offrire concrete garanzie ai sudditi dell'imperatore d'Austria, il M. rifiutò sdegnosamente la prospettiva dell'inquadramento a titolo personale nell'esercito sardo. Scartata l'eventualità di unirsi alla ribellione della città di Genova, il M. accettò l'offerta, formulata il 13 apr. 1849 da P. Maestri (inviato straordinario della Repubblica Romana a Firenze), di recarsi a Roma, per contribuire alla resistenza contro l'intervento francese. Ottenuti, grazie all'intercessione di Alessandro Ferrero della Marmora, i vapori "Nuovo Colombo" e "Giulio II", salpò da Portofino il 22 apr. 1849 con circa seicento uomini. Dopo il tempestoso colloquio del 25 aprile a Civitavecchia con il generale N.C.V. Oudinot, comandante del corpo di spedizione francese, il M. ottenne di poter sbarcare i propri uomini ad Anzio, dietro la promessa di non impegnarli nei combattimenti per almeno otto giorni. Giunti a Roma il 29 aprile, gli uomini del M. vollero mantenere l'uniforme scura e il cappello piumato dei bersaglieri piemontesi, con la croce di Savoia sulle cinture. L'imprevista vittoria delle milizie garibaldine sui Francesi a porta S. Pancrazio il 30 apr. 1849 guadagnò definitivamente alla causa della Repubblica Romana i bersaglieri del M. (che, onorando la parola data, si erano astenuti dal combattere), dissipando i dubbi e le incertezze che avevano segnato la loro andata a Roma. Il 9 maggio a Palestrina, sotto il comando di G. Garibaldi, ebbero il battesimo del fuoco contro le truppe napoletane. Il 14 maggio il M. ricevette il grado di tenente colonnello e gli venne affidato un secondo battaglione, che, insieme con il suo, costituì il reggimento dei bersaglieri lombardi. Con questa rinnovata compagine, il M., nella seconda metà di maggio, prese parte nel Lazio meridionale alle operazioni che portarono alla definitiva ritirata delle milizie borboniche. Alla ripresa delle operazioni d'assedio, il M. combatté valorosamente nella sanguinosissima giornata del 3 giugno 1849, perdendo tra morti e feriti, nei tre disperati contrattacchi per riconquistare villa Corsini, duecento uomini del suo reggimento (cadde, fra gli altri, Enrico Dandolo). Il 4 giugno il M. succedette a F. Daverio (anche lui morto a villa Corsini) nel ruolo di capo di stato maggiore di Garibaldi, verso il quale, superata la profonda diffidenza iniziale, aveva maturato sentimenti di simpatia e stima. Nei giorni seguenti, il M. tentò di organizzare l'estrema difesa di Roma: fece edificare magazzini per le munizioni di artiglieria e fanteria e per le vettovaglie di soldati e lavoratori, dispose una ferrea vigilanza ai pozzi e alle porte e la creazione di ambulanze provvisorie. Questa strenua resistenza non valse a impedire che nella notte fra il 21 e il 22 giugno i Francesi occupassero villa Barberini e alcuni bastioni prossimi a porta S. Pancrazio. Dopo la nuova sconfitta, Garibaldi pensò di radunare le poche forze rimaste e proseguire la guerra sulle montagne dell'Appennino, ma il M., appoggiato da Mazzini, lo convinse a non abbandonare Roma senza combattere.
Il 30 giugno 1849, a villa Spada, mentre guidava un ultimo assalto contro le truppe francesi, il M. fu ferito al petto da un colpo di carabina. Dopo alcune ore di agonia, sopravvenne la morte, dal M. lucidamente preconizzata, in molte lettere a familiari e amici, come logica conclusione del proprio percorso.
Il 2 luglio 1849, nella chiesa romana di S. Lorenzo in Lucina, ebbero luogo i funerali, durante i quali il barnabita U. Bassi commemorò il patriota milanese. Le salme del M., di Enrico Dandolo e di Morosini (morto anch'egli il 30 giugno) furono portate da alcuni commilitoni a Vezia, presso Lugano. In seguito, le spoglie del M. furono traslate a Sesto Ulteriano, ad Antegnate e, infine, a Barzanò (in Brianza).
Fonti e Bibl.: Le Carte Manara sono conservate presso il Museo del Risorgimento di Milano (cfr. L. Marchetti, M., i Dandolo, Morosini e il primo battaglione dei volontari lombardi. Regesto delle carte conservate nel Museo del Risorgimento di Milano, in Rass. storica del Risorgimento, XXV [1938], pp. 1337-1382). Amplissimi estratti in G. Capasso, Dandolo, Morosini, M. e il primo battaglione dei bersaglieri lombardi nel 1848-49, Milano 1914; E. Viarana, L. M., Milano 1933; A. Cavazzani Sentieri, Carmelita Manara nell'Italia eroica dell'Unità, Milano 1937; Lettere di Luciano Manara a Fanny Bonacina Spini (7 apr. 1848 - 26 giugno 1849), a cura di F. Ercole, Roma 1939. Si consultino inoltre: G. von Hoffstetter, Giornale delle cose di Roma nel 1849, Torino 1851, passim; L. Torelli, Ricordi intorno alle Cinque giornate di Milano (18-22 marzo 1848), Milano 1876, pp. 123, 213-215; E. Dandolo, I bersaglieri di L. M., Milano 1934; C. Pisacane, Guerra combattuta in Italia nel 1848-49, a cura di A. Romano, Milano 1961, ad ind.; Ed. nazionale degli scritti editi e inediti di G. Mazzini, Indici, II, ad nomen; C. Cattaneo, Arch. triennale delle cose d'Italia: dall'avvento di Pio IX all'abbandono di Venezia, I-II, a cura di L. Ambrosoli, Milano 1974, ad ind.; Ed. nazionale degli scritti di G. Garibaldi, VIII, Epistolario, 2, 1848-49, a cura di L. Sandri, Roma 1978, ad ind.; G. Garibaldi, Memorie, a cura di G. Armani, Milano 1998, pp. 167-177.
Riferimenti al M. in V. Ottolini, La rivoluzione lombarda del 1848 e 1849, Milano 1887, pp. 63-476 passim; A. Faconti, Le Cinque giornate. Morti, feriti, benemeriti, Milano 1894, pp. 161-163, 257-260; C. Fabris, Gli avvenimenti militari del 1848-49, I, 1, Il 1848: fino alla resa di Peschiera, Torino 1898, pp. 154-361 passim; C. Pagani, Uomini e cose in Milano dal marzo all'agosto 1848, Milano 1906, pp. 6-9, 526-532; G.M. Trevelyan, Garibaldi e la difesa della Repubblica Romana, Bologna 1909, pp. 137-253 passim; G. Leti, La Rivoluzione e la Repubblica Romana (1848-49), Milano 1913, ad ind.; C. Cesari, La difesa di Roma nel 1849, Milano 1913, passim; R. Huch, La difesa di Roma, Milano 1924, passim; Ministero della Guerra, Comando del corpo di stato maggiore, Ufficio storico, La campagna del 1849 nell'Alta Italia, Roma 1928, pp. 105, 109, 182 s., 202-204; R. Barbiera, Il salotto della contessa Maffei, Monza 1944, pp. 73, 79 s., 133; A. Monti, Le Cinque giornate di Milano, Roma 1944, pp. 70, 72, 97; Id., Quarantotto romantico ed eroico, Firenze 1948, passim; P. Pieri, Il generale Chrzanowski e la mancata difesa del Ramorino alla Cava, in Rass. storica del Risorgimento, XXXVII (1950), pp. 400, 403; F. Curato, L'insurrezione e la guerra del 1848, in Storia di Milano, XIV, Milano 1960, pp. 328-404 passim; G. Candeloro, Storia dell'Italia moderna, III, La rivoluzione nazionale, Milano 1960, pp. 167, 175, 443, 452; P. Pieri, Storia militare del Risorgimento. Guerre e insurrezioni, Torino 1962, ad ind.; La Repubblica Romana e il suo esercito, Roma 1987, passim; F. Della Peruta, Milano nel Risorgimento. Dall'età napoleonica alle Cinque giornate, Milano 1992, ad ind.; G. Natalini, Storia della Repubblica Romana del Quarantanove, Roma 2000, pp. 52-185 passim.