BATTISTI, Lucio
Nacque a Poggio Bustone, nel Reatino, il 5 marzo 1943, da Dea Battisti e Alfiero Battisti, impiegato amministrativo in una ditta che gestiva la riscossione delle imposte comunali. Era il primogenito della famiglia, la sorella Albarita venne al mondo nel 1946, poco prima del trasferimento nella frazione di Vasche di Castel Sant’Angelo a partire dall’anno successivo, a causa dei trasferimenti imposti al padre per motivi di lavoro. La famiglia si stabilì infine a Roma, nel 1950, prima a Tor Sapienza, e in seguito in diversi appartamenti nella zona di piazza Lodi, sulla via Casilina. Lo stesso Battisti raccontò di aver iniziato a interessarsi per la prima volta alla musica nel periodo delle scuole medie, intorno alla metà degli anni Cinquanta, quando si fece regalare una chitarra (Cucco, 1970). Furono due conoscenti che abitavano nello stesso condominio, i fratelli Polsinelli, a trasmettergli i primi rudimenti dello strumento, ma presto il suo interesse per la musica sembrò spegnersi.
Negli anni dell'adolescenza, la formazione di Battisti seguì due strade che in seguito tornarono entrambe a caratterizzare la sua vicenda professionale e artistica. Da un lato quella tecnica, legata agli studi da perito elettronico presso l’Istituto Tecnico Professionale Galileo Galilei, dall’altro lato quella compiuta perlopiù da autodidatta sulla chitarra. Il suo primo insegnante di strumento fu il nonno Giovambattista, che poi lo affidò alle cure di Silvio Di Carlo, un elettricista di Poggio Bustone considerato da tutti un eccentrico; con lui Battisti passava del tempo soprattutto nei periodi di vacanza trascorsi lontano da Roma (Turrini, 2008, p. 10). Dalla fine del decennio iniziò le prime esperienze come chitarrista in complessi amatoriali e semi-professionistici; i suoi ascolti si concentravano soprattutto sulla produzione angloamericana, in particolare Everly Brothers, Diamonds, Platters, che poi replicava per un pubblico di studenti e adolescenti (Cucco, 1970). Soprattutto grazie alla grandissima costanza con cui si applicò alla pratica sullo strumento riuscì in breve tempo ad acquisire una certa credibilità nell’ambiente studentesco e dei night club, tanto da riuscire ancor prima del diploma a inserirsi nei circuiti della musica dal vivo della Capitale. L’interesse per la musica, osteggiato apertamente soprattutto dal padre, si poté sviluppare pienamente solamente dopo aver assolto i propri obblighi scolastici, grazie a un accordo con il genitore che consentì a Lucio di beneficiare dell’esenzione dagli obblighi militari (di cui poté usufruire approfittando della condizione paterna di invalido di guerra) per provare a costruirsi un futuro nel mondo della canzone. Risalgono all’estate 1962 la collaborazione con il gruppo napoletano I Mattatori e con l’orchestra di Enrico Pianori dal 1963; fu grazie a questo lavoro che riuscì a tornare a Roma, dove il complesso si esibiva regolarmente nei night club più alla moda, come il Milleluci e La Cabala (Ceri, 2008, p. 12). Quest’ultimo, nella zona di piazza Cavour, aveva un pubblico perlopiù di studenti e il repertorio si limitava a reinterpretazioni di brani rock’n’roll del momento, da Elvis Presley a Fats Domino. Qui Battisti poté conoscere Alberto Radius, con il quale, qualche anno più tardi, stabilì un’intensa collaborazione creativa.
L’incontro decisivo per l’inizio della carriera di Battisti fu con Roberto (Roby) Matano, leader dei Campioni (il gruppo che alla fine degli anni Cinquanta aveva accompagnato Tony Dallara), da cui si era appena staccato il chitarrista Bruno De Filippi. Con loro debuttò a Rupe Tarpea nel novembre 1963 e poté allargare i propri orizzonti con le prime esperienze all’estero in Germania e Olanda (Piancatelli, 2008, pp. 35 s.). Il musicista ventenne sfruttò questi momenti soprattutto per aggiornarsi sulla produzione internazionale, in particolare ascoltando Bob Dylan e il folk-rock britannico, accrescendo il proprio bagaglio di soluzioni stilistiche. Con Matano si creò un rapporto di particolare confidenza: fu lui a insistere perché Battisti si trasferisse a Milano, dove erano concentrati gli uffici delle case discografiche e dove i musicisti più interessanti della nuova scena dei complessi avevano il loro naturale punto di ritrovo nella Galleria del Corso, a fianco di Piazza Duomo. Fu sempre lui a scrivere il testo per i primi tentativi di composizione originale del musicista reatino, che all’inizio del 1964 cominciò ad abbozzare una serie di canzoni poi sviluppate nei mesi successivi (ad esempio una prima versione di quella che divenne poi Uno in più), al termine di un tormentato percorso di tentativi infruttuosi di proporsi come autore a diverse etichette.
Il trasferimento a Milano rappresentò per Battisti il contatto con la realtà più dinamica dell’epoca nel campo della produzione di canzoni. Incoraggiato da Matano – dopo essere tornato a Roma deluso dai primi insuccessi –, si stabilì nel capoluogo lombardo dal 1965, in un monolocale in via dei Tulipani (Salvatore 2000, p. 30). Qui cominciò a tessere quella rete di relazioni che fu poi fondamentale per il proseguimento della carriera e compì una serie di esperienze di capitale importanza per la sua formazione come professionista a tutto tondo nel campo di quella che allora si denominava ancora musica leggera (oggi popular music). Se la sua figura è infatti principalmente conosciuta per il talento come interprete di canzoni di cui fu anche l’autore delle musiche, non si può dimenticare che il suo impegno nel campo della canzone si estendeva ben oltre: lo dimostrano le attività di produttore per altri musicisti, iniziate già nel periodo della Ricordi con gli amici Dik Dik, e più tardi di promotore della Numero Uno, etichetta discografica indipendente dalle realtà industriali più importanti dell’epoca, dal punto di vista sia della produzione sia della gestione editoriale. Con un’espressione sintetica, si potrebbe dire che qui Battisti mise a punto la sua voce autoriale, non solamente quella più caratteristica, legata alla sua inconfondibile cifra corporea (Ortoleva, 2009), ma anche quella di artista che consapevolmente gestiva tutte le fasi del processo di produzione discografica.
Il primo nodo a partire dal quale il giovane Battisti cominciò a tessere la propria rete relazionale a Milano va individuato nell’ambiente della Ricordi: nell’inverno 1963 venne convocato per un provino nello studio di via dei Cinquecento. Lì incontrò i Dik Dik, con i quali stabilì presto uno stretto rapporto professionale e personale – in particolare con il chitarrista e cantante Pietruccio Moltalbetti, di cui diventò intimo amico, e con il fratello Cesare, che scattò molte delle foto di copertina dei suoi dischi negli anni successivi. Battisti firmò la prima canzone dei Dik Dik, Se rimani con me (giugno 1965), e Dolce di giorno, lato B di quella Sognando la California che nella primavera 1966 portò in Italia, sottoforma di cover, California Dreamin’, il successo internazionale dei Mamas & Papas. Oltre a scrivere il brano originale del 45 giri, il musicista laziale curò la produzione artistica del disco e vi contribuì anche come chitarrista e corista.
Un ruolo centrale nel porre le basi per la posizione di Battisti alla Ricordi fu ricoperto prima da Christine Leroux, la sua prima editrice, e in seguito da Giulio Rapetti (in arte Mogol), con il quale il formò uno dei sodalizi creativi di maggior successo e tenuta in tutta la storia recente della canzone italiana. L’incontro con Christine Leroux avvenne il 14 febbraio 1965 alla CGD (Compagnia Generale del Disco): lei era lì per proporre alcuni artisti francesi per il mercato italiano, lui stava presentando le sue canzoni nel tentativo di affermarsi come autore (Salvatore, 2000, pp. 41 s.). Dopo averlo messo sotto contratto fu la Leroux a presentare a Mogol, nell’autunno 1965, un ragazzo di cui intuiva il potenziale, ma che ancora stentava specialmente nella scrittura dei testi. Leroux convinse Rapetti a lavorare con Battisti, che iniziò così un periodo di apprendistato il cui primo risultato fu Per una lira, la canzone presentata a Detto Mariano nella primavera 1966 per una possibile inclusione nel catalogo del Clan, casa discografica di Adriano Celentano. La canzone fu incisa dai Ribelli (Gianni Dall’Aglio, Natale Massara, Giorgio Benacchio, Philippe Bichara, Jean-Claude Bichara) e dette l’avvio alla carriera di Battisti come autore, oltre a inaugurare una sorta di rapporto di apprendistato con Detto Mariano, uno tra i più esperti arrangiatori e direttori attivi nell’ambiente della canzone italiana dell’epoca. Nei mesi successivi, dello stesso team di autori, arrangiatore e direttore uscirono Che importa a me (La Ragazza del Clan, nome d’arte di Anna Milena Cantù), Non prego per me (canzone originariamente destinata ai Ribelli, ma poi affidata a Mino Reitano e agli Hollies per la partecipazione al Festival di Sanremo del 1967), Ladro e Nel cuore (Equipe 84).
Il passo successivo fu la ricerca dell’affermazione come interprete, che però stentava ad arrivare a causa della scarsa considerazione che gli veniva riservata in seno alla Ricordi dopo i deludenti riscontri dei primi due singoli Dolce di giorno / Per una lira (1966) – rifiutato dalla RAI perché la voce di Battisti era stata giudicata non adatta alla messa in onda (Ceri, 2008, p. 32) – e Luisa Rossi / Era (1967). In un primo tempo Battisti avrebbe dovuto incidere 29 settembre, una canzone di cui si intuivano fin dall’inizio le grandi potenzialità, ma a lavori già avviati il brano venne affidato all’Equipe 84. Fu il primo vero e proprio successo di Lucio Battisti come autore, che si ripeteva dopo il singolo di Riki Maiocchi Uno in più / Non buttarmi giù, che aveva raggiunto il secondo posto nelle classifiche nell’autunno 1966. Ben diversi i risultati di vendita di 29 settembre: alla fine dell’anno risultò in assoluto il terzo disco più venduto in Italia (Neri, 2010, p. 43). Emerge come dato particolarmente evidente nella primissima produzione di questo autore il legame con gli stili provenienti dall’altra parte dell’Atlantico, in particolare con un autore come Otis Redding e con il genere della soul music. Un’influenza ben riconoscibile e in linea con i gusti del pubblico dell’epoca, che proprio in Battisti trovava una voce capace di trasferire quel sound nella popular music italiana. L’affinità con questi repertori della musica nera afroamericana è confermata dal fatto che gli fu affidata dalla Ricordi la selezione e la cura editoriale di un’antologia di canzoni della Atlantic Records, di cui la casa milanese deteneva i diritti per il mercato italiano (Salvatore, 2000, p. 99).
Oltre al contatto con Mogol e allo sviluppo del suo profilo di autore, l’ambiente della Ricordi permise a Battisti di entrare stabilmente nell’orizzonte della produzione musicale dell’epoca, tessendo rapporti con altri gruppi musicali o con singoli professionisti che ebbero una parte importante nel sostenere l’inizio della sua carriera discografica. A partire dal terzo singolo (Prigioniero del mondo / Balla Linda, 1968), su cui la Ricordi investì in grande stile coinvolgendo un arrangiatore del calibro di Detto Mariano, e poi fino alla registrazione delle canzoni per il primo LP, si stabilì infatti un rapporto privilegiato con un gruppo di musicisti che facevano riferimento alla formazione dei Ribelli e con un altro degli arrangiatori di maggior talento allora operanti nel campo della canzone, Gian Piero Reverberi. A questi si affiancò Natale Massara come curatore delle parti orchestrali per le canzoni ancora inedite del primo album. Nel mondo della popular music italiana antecedente il 1970, in cui le sonorità orchestrali erano ancora parte integrante del linguaggio dominante, la collaborazione con queste figure si rivelò una carta fondamentale per affinare la capacità di immaginare trame strumentali complesse e idee timbriche che la formazione di autodidatta non gli avrebbe forse permesso di elaborare in forma compiuta.
Una seconda figura di rilievo nella formazione della personalità matura di Battisti come autore e musicista fu Walter Patergnani, tecnico del suono il cui lavoro segnò in maniera indelebile un’intera stagione nella produzione discografica della casa milanese. Assunto dalla Ricordi nel 1957, fu il principale progettista e in molti casi il realizzatore materiale dello studio di registrazione di via dei Cinquecento, ricavato negli ampi spazi di un cinema parrocchiale. Il suo apporto ai dischi di Battisti realizzati negli anni che vanno dal 1966 al 1970 non va sottostimato, in particolar modo perché si trattava di una figura in grado di manipolare la tecnologia che aveva a disposizione e di piegarne l’uso alle richieste dei musicisti con la massima flessibilità, spesso pervenendo a soluzioni innovative e originali. Dalle invenzioni tecniche per ottenere effetti come il phasing o la manipolazione in stereo dell’effetto eco fino alle sovraincisioni e al missaggio, il lavoro di Battisti e Patergnani si concentrava in particolare sulla ricerca della massima coerenza possibile tra soluzione sonora ed espressione di un particolare sentimento o concetto. Il che sembra confermare la presenza di un pensiero compositivo che ha per obiettivo finale la realizzazione di un artefatto registrato provvisto di specifiche finalità comunicative.
Sempre alla Ricordi – e grazie in particolare a Detto Mariano – il giovane Battisti poté lavorare con una delle formazioni più interessanti dell’ambiente musicale del momento, i Quelli (tra i primi componenti della band vi furono il batterista Franz Di Cioccio e il chitarrista Franco Mussida, poi fondatori della Premiata Forneria Marconi, e il chitarrista e cantante Alberto Radius, poi nel complesso Formula 3), il cui suono, influenzato dalle più recenti novità della musica britannica e statunitense, caratterizzò gli ultimi singoli incisi per l’etichetta milanese e l’album Amore e non amore. Appartengono a questo periodo alcuni dei singoli che più rimarranno impressi nella memoria del pubblico e sanciranno il definitivo ingresso dell’interprete nel circuito di consumo della canzone italiana, oltre che come autore: Un’avventura (con la quale partecipò al Festival di Sanremo nel 1969), Acqua azzurra, acqua chiara, Dieci ragazze, Mi ritorni in mente, Emozioni, Pensieri e parole, La canzone del sole, tutti usciti tra il 1969 e il 1971. In particolare con la sezione ritmica del gruppo, Di Cioccio (batteria) e Giorgio “Fico” Piazza (basso), si stabilì un rapporto privilegiato che poneva in primo piano la qualità propulsiva del loro modo di affrontare il groove ritmico (Zoppo, 2011, p. 141). Sulla base di questo elemento procedeva lo sviluppo del pezzo in studio e la costruzione delle parti cantate – contraddistinte peraltro da anche una grandissima flessibilità nell’organizzazione metrica della performance vocale rispetto al testo scritto –, spesso in un approccio cooperativo tra tutti i presenti. Amore e non amore esibisce nella forma più evidente la voglia di sperimentazione formale e timbrica dell’autore e musicista in questo periodo. Forse proprio per la sua natura peculiare, oltre che per il desiderio della Ricordi di capitalizzare al massimo l’ultimo disco che Lucio Battisti avrebbe pubblicato per loro, il lancio sul mercato avvenne nel luglio 1971, mentre le registrazioni erano state effettuate nel corso dell’autunno precedente. È indicativa dell’intenzione di riprodurre il clima di lavoro collettivo in studio nella forma stessa del disco, composto alternando tracce vocali e strumentali, queste ultime provviste di lunghissimi titoli (ad esempio Seduto sotto un platano con una margherita in bocca guardando il fiume nero macchiato dalla schiuma bianca dei detersivi) che avevano tra l’altro lo scopo di permettere a Mogol di essere accreditato come co-autore. Improvvisando in studio con questi musicisti, la forma stessa delle canzoni scritte da Battisti poteva mutare in considerazione di particolari circostanze legate alla performance, come testimonia Di Cioccio a proposito della canzone sul lato B del singolo di Emozioni, registrata nel settembre 1970 (ovvero solo qualche settimana prima di iniziare le sessioni di registrazione per l’album): «il break che c’è in Anna non è una cosa scritta, non è una parte decisa a tavolino. È una cosa che ho inventato in studio, Lucio l’ha sentita e se n’è innamorato. È un break lunghissimo, dura una vita e mezzo, però è quello che fa la differenza» (Bertoncelli-Di Cioccio, 2008, pp. 40 s.).
L’evento più importante nella vita personale di Lucio Battisti nel 1969 fu il fidanzamento con Grazia Letizia Veronese (nata a Limbiate il 21 luglio 1943 e all’epoca segretaria nell’ufficio artistico del Clan di Adriano Celentano), che poi sposò nel 1976. Sul versante professionale un punto cruciale fu la fondazione, il 31 marzo, dell’etichetta discografica Numero Uno da parte di Mariano Rapetti, Mogol e Alessandro Colombini, che, appoggiati dalla RCA italiana (Radio Corporation of America), uscirono dalla Ricordi per perseguire una maggiore indipendenza artistica e produttiva. Il musicista diventò immediatamente azionista di minoranza della nuova etichetta (con una quota intorno al 10%) insieme a Carlo Donida e Franco Daldello, mentre sotto il profilo editoriale fondò insieme a Mogol la Edizioni musicali Acqua Azzurra srl, società di cui divenne azionista al 49%, recidendo così l’ultimo legame che ancora aveva con la sua prima editrice Christine Leroux (Marchetti, 2006, p. 57). Sebbene con questi movimenti Battisti avesse sostanzialmente raggiunto una posizione di autonomia pressoché totale, rimase ancora sotto contratto come interprete alla Ricordi fino al 1971, quando uscirono l’album Amore e non amore e gli ultimi due singoli, Le tre verità/Supermarket e Elena no/Una (pubblicato nel marzo 1972). Il passaggio alla Numero Uno determinò anche un allontanamento da I Quelli (ormai sul punto di trasformarsi in Premiata Forneria Marconi), ancora legati alla Ricordi.
Il sodalizio con Mogol – non solo artistico, ma anche personale e ideale – trovò un momento particolarmente evidente di visibilità con la decisione di intraprendere insieme un’impresa dal sapore di altri tempi: la traversata degli Appennini a cavallo, da Milano a Roma. L’iniziativa aveva le sue radici in quella filosofia ispirata dalla Linea Verde a cui il paroliere diceva di rifarsi fin dal 1966 (Mirenzi, 1998, p. 94) e aveva lo scopo di sensibilizzare l’attenzione del pubblico sui temi dell’ecologia attraverso un’azione eclatante messa in opera da due tra i personaggi più celebri nel mondo della canzone italiana del momento (Piancatelli, 2008, pp. 49 s.). La cooperazione in un team creativo che travalicava i limiti del puro rapporto professionale fu una delle caratteristiche che più chiaramente emersero come cifra distintiva del lavoro alla Numero Uno, e che si riproposero ad esempio nella concezione dello spazio creativo Il Mulino – fortemente voluto da Mogol e costruito in un immobile di sua proprietà ad Anzano del Parco, vicino a Erba – nato come una sorta di comune per artisti e poi trasformato in studio di registrazione.
Spiccano due particolarità nell’attività di Lucio Battisti con la Numero Uno, che già iniziano a delinearsi nel periodo precedente, ma che solamente ora si affermarono con chiarezza. La prima è la capacità di costruire una serie di reti relazionali cangianti e via via rispondenti alle sue personali esigenze di rinnovamento dal punto di vista del linguaggio musicale e del lavoro in studio. Così come con i Dik Dik, i Ribelli, i Quelli, l’idea di un collettivo che si facesse portatore di un suono inconfondibile fu di cruciale rilevanza per un artista interessato in primo luogo alla composizione fonografica, che nel disco vedeva il proprio punto d’arrivo privilegiato, piuttosto che un performer concentrato in primo luogo sul momento del concerto (Julien, 2008). Il secondo aspetto di rilievo nel contesto della produzione del periodo è legato all’album come genere di comunicazione complesso e multimediale (pur se lontana dall’idea del concept album vero e proprio), un genere che sembra cristallizzarsi in un vero e proprio formato in cui si armonizzano esigenze espressive e tecniche. Da questo punto di vista è notevole che tutti i dischi di Battisti a partire da Amore e non amore – il primo progetto del quale si può dire avesse il pieno controllo grazie all’autorità assicuratagli dalla sua posizione di prestigio – siano sempre composti da otto tracce, quattro per lato, disposte in modo da ottenere un’alternanza tra brani dal carattere contrastante. Ciò può essere ricondotto a esigenze di resa acustica ottimale: un lato di un LP in media contiene dai venti ai venticinque minuti di musica, a seconda della distanza tra i solchi, che può sì essere ridotta, ma a prezzo di una perdita nell’ampiezza della gamma dinamica e della resa complessiva del suono. La scelta di tenere bassa la durata delle facciate del disco – anche sotto i venti minuti – segnala ancora una volta un’attenzione per il dato tecnico, materiale, che implica una riflessione e un’attenzione specifica per il medium. Al dato numerico si accompagna la distribuzione dei brani in coppie contrastanti per carattere, stacco metronomico, strumentazione, tema del testo verbale. Vengono in primo piano qui alcune peculiarità fondamentali nella produzione di Battisti: il rapporto con lo studio di registrazione come momento creativo, il desiderio di progettare oggetti fonografici che costituiscono una miscela comunicativa complessa (Marchetti, 2006) a discapito della componente legata all’esibizione dal vivo, la tessitura di una rete di relazioni con colleghi e tecnici con i quali lavorare, la professionalità e la dedizione assoluta al proprio lavoro.
Il passaggio alla Numero Uno vide Battisti lavorare a stretto contatto con la Formula 3 (Alberto Radius, Tony Cicco e Gabriele Lorenzi), l’ultimo dei complessi che segnarono le diverse fasi della sua prima produzione discografica. Con questi musicisti, quasi mai in simultanea ma più spesso affiancandoli ad altri professionisti chiamati a collaborare volta per volta in base alle caratteristiche che Battisti riteneva più adatte alle singole tracce (spiccano tra questi i nomi di Dario Baldan Bembo, Massimo Luca, Angelo Salvador, Mario Lavezzi e soprattutto Gian Piero Reverberi), venne realizzato Umanamente uomo: il sogno (1972). Battisti e Radius si erano incrociati dapprima a Roma nell’ambiente dei night club, in seguito si erano ritrovati a Milano all’epoca della Ricordi quando Radius affiancava I Quelli nelle occasioni in cui Mussida non era disponibile, infine si ricongiunsero poi quando venne formato il gruppo insieme a Cicco – all’epoca con il crooner (cantante ‘confidenziale’ che utilizza tecniche vocali vicine al parlato) Fausto Mola – e Lorenzi, proveniente dal complesso I Samurai. La Formula 3 aveva la particolarità di essere un trio senza basso (sostituito dalla pedaliera dell’organo o da uno dei primi sintetizzatori per chitarra, il Condor della Hammond); fu questo nuovo tipo di formazione a colpire Battisti, che scrisse per loro i pezzi principali per l’esordio discografico su 45 giri (Questo folle sentimento/Avevo una bambola, 1970) e su 33 giri (Dies Irae), oltre a lavorare insieme a loro nel ruolo di produttore esecutivo e artistico. Le testimonianze di chi fu allora coinvolto confermano due aspetti già emersi rispetto al lavoro in studio: la rilevanza della dimensione ritmica, e l’abitudine a costruire gli arrangiamenti dei pezzi attraverso lunghe jam sessions, spesso registrate integralmente e utilizzate poi come materiale grezzo per assemblare la canzone nella sua forma discografica. Con la Formula 3 Battisti affrontò le uniche due tournées della carriera, poco più di una ventina di date in tutt’Italia nelle estati 1969 e 1970 (Ceri, 2008, pp. 347-350).
I tre dischi successivi, Il mio canto libero (1972), Il nostro caro angelo (1973) e Anima latina (1974), confermarono la posizione di assoluta preminenza del cantante nel mondo della canzone italiana. Battisti mise a punto questi album con un nucleo di musicisti che ruotavano intorno a una sezione ritmica formata da Gianni Dall’Aglio e Bob Callero, Gian Piero Reverberi o Claudio Maioli alle tastiere, Massimo Luca e Mario Lavezzi alle chitarre. Nel frattempo, il 25 marzo 1973, nacque Luca Filippo Carlo Battisti alla clinica San Pio X di Milano (Piancatelli, 2008, p. 67), ma il momento felice fu rovinato dal cattivo rapporto con i mezzi di stampa: a fronte del rifiuto di concedere scatti e interviste ai giornalisti si moltiplicarono i tentativi di catturare i momenti privati della famiglia, che fu costretta a cambiare spesso casa (per un periodo nel corso della gravidanza abitarono anche a casa di Radius). L’altro evento cardine di questo periodo fu il lungo viaggio in Sud America nella seconda metà del 1973, un’esperienza che – a dire di Battisti – modificò profondamente l’idea di musica da lui nutrita fino a quel momento, tanto da dichiarare a Renato Marengo: «Partecipare alla musica (e quindi vivere, ridere, soffrire, esprimersi, pensare), non subirla, è la mia concezione conclusiva, oggi, di fare o ascoltare musica» (Marengo,1974, p. 15). Il risultato si ascolta in Anima latina, probabilmente il più complesso tra gli album del periodo con Mogol, contraddistinto da canzoni dalla struttura molto articolata, da un lungo processo di elaborazione in studio, e dalla ricerca di un risultato finale in cui le componenti musicale e verbale si fondono in modo autenticamente paritario (Mattioli, 2016). È in questo periodo che si diffonde – anche per l’azione della stampa vicina ai movimenti di sinistra e alla cultura underground – quello che Leo Turrini non esita a definire «il mito del Battisti fascista» (2008, pp. 52-67), fondato su una serie di indicazioni che designare indiziarie sarebbe limitativo. Tra queste si possono ricordare il rifiuto di esibirsi alla Festa dell’Unità nazionale del 1970, il riferimento ai «boschi di braccia tese» della Collina dei ciliegi, la diceria che il padre fosse in odore di fascismo, il braccio destro alzato per chiamare il finale di E penso a te nel corso della trasmissione Tutti insieme del 23 settembre 1971, la menzione di un certo «L. Batt.» nelle carte di una sede di Ordine Nuovo a Padova, l’atteggiamento di molti testi di Mogol nei confronti della donna, interpretato come eccessivamente maschilista. Si tratta di circostanze indicative per un verso del grado di polarizzazione della società italiana dell’epoca, e per l’altro della capacità di questo musicista di attirare un pubblico davvero trasversale, che poteva identificarsi nei personaggi e nelle situazioni evocati dalle sue canzoni, a prescindere da appartenenze sociali e politiche.
Fu particolarmente travagliata la lavorazione di Lucio Battisti, la batteria il contrabbasso eccetera (1976), l’ultimo disco della collaborazione con Mogol registrato in Italia e il primo realizzato dopo la definitiva cessione della Numero Uno alla RCA (che divenne di fatto l’unica proprietaria dell’etichetta, anche se quest’ultima manteneva la propria autonomia artistica). Dopo un lungo viaggio negli Stati Uniti con Mogol nella primavera 1975, in luglio furono registrati i primi abbozzi sonori per il disco con i musicisti de Il Volo, il nuovo gruppo di Radius, ma di queste prime sessioni rimangono poche tracce nel prodotto finito, dato che i provini non risultarono del tutto convincenti e in linea con le idee del loro autore (Ceri, 2008, pp. 256-259). La fase risolutiva iniziò solo qualche settimana più tardi, quando al Mulino vennero convocati Claudio Maioli (tastiere), Walter Calloni (batteria), Hugh Bullen (basso) e Ivan Graziani (chitarre). Come ricorda il tecnico Gianni Prudente, con questi ultimi vennero costruiti e incisi i pezzi nella loro versione base. Seguì un lungo lavoro di sovraincisione e produzione, condotto in massima parte dallo stesso Battisti nei mesi successivi, in stretta collaborazione con il tecnico del suono e con la presenza occasionale degli altri musicisti. Il luogo di lavoro, provvisto di stanze per l’alloggio, favoriva lo scambio e lo stabilirsi di un clima informale, mentre la presenza di strumentazione tecnologica d’avanguardia permetteva di sperimentare con le soluzioni tecniche più diverse. Sotto questo profilo è di particolare interesse la genesi della traccia Respirando: arrangiata dapprima per un gruppo d’archi, divenne un vero e proprio caso di composizione in studio, con la sostituzione delle parti originali mediante campionamenti dagli oggetti più disparati (tra di essi anche strumenti giocattolo che già avevano contraddistinto alcune tracce di Anima Latina) e da nuove parti di tutti gli strumenti suonate da Battisti stesso.
L’autunno 1976 fu caratterizzato da due eventi di segno opposto: il 3 settembre il matrimonio civile celebrato dall’assessore socialista Paolo Malena nella Villa Comunale a Milano con Grazia Letizia Veronese (Piancatelli, 2008, p. 70); e in ottobre l’alluvione che distrusse completamente le attrezzature dello studio Il Mulino, che non venne più ricostruito (Marchetti. 2006, pp. 110-115). Nel frattempo i progetti di Battisti si spostarono verso il mercato internazionale: oltre a lavorare al nuovo LP (Io tu noi tutti, 1977), che venne inciso negli Stati Uniti, prese corpo l’intenzione di un album in inglese (Images, 1977), che includeva alcuni pezzi inediti e nuovi arrangiamenti dei brani Il mio canto libero e La canzone del sole. Fu un progetto particolarmente ostico e poco soddisfacente in termini di risultati, segnato da un lato dalla difficoltà di tradurre i testi di Mogol in un’altra lingua, dall’altro dall’accoglienza piuttosto fredda che al disco riservò la stampa musicale anglo-americana (Ceri, 2008, p. 270). Dopo aver passato quasi un anno a Los Angeles per la realizzazione dei due dischi, nel 1978 Battisti si stabilì con la famiglia nella casa in cui rimase fino alla fine, la villa al Dosso di Coroldo (frazione di Molteno in Brianza), anche se fino all’inizio degli anni Ottanta furono frequenti i viaggi in Inghilterra (dove nel 1978 registrò Una donna per amico e nel 1980 Una giornata uggiosa) e a Roma, dove acquistò un appartamento sulla Cassia nel 1979. In questo periodo rilasciò anche l’ultima intervista radiofonica, a Giorgio Fieschi della Radiotelevisione della Svizzera Italiana, il 18 maggio 1979, per poi ritirarsi definitivamente dalla scena pubblica, ricomparendo solamente con la pubblicazione dei suoi dischi.
Le nuove canzoni segnalano un cambiamento soprattutto nella dimensione formale, con tutta probabilità anche propiziato dall’influsso degli stili della disco music coeva. A una netta divisione in sezioni (strofa, ritornello, bridge ecc.) si sostituisce o si affianca una logica di tipo modulare: le singole idee musicali sono altrettanti tasselli di strutture costruite per ripetizione e variazione, piuttosto che per discontinuità e contrasto. Ne consegue un’architettura musicale più uniforme, in cui risulta particolarmente valorizzato l’elemento metrico quale garante della coesione formale, tanto da permettere un grado di scollamento inedito tra struttura musicale e testo verbale, in netto contrasto con l’atteggiamento che fino ad allora aveva caratterizzato la produzione del musicista (Bratus, 2007, p. 122). Come si osserva soprattutto negli anni successivi, sembrò che si dovesse affermare allora un’idea di canzone in cui parole e musica fossero componenti indipendenti, in vicendevole frizione, tanto da far esplodere il potenziale comunicativo della loro unione proprio movendo da una fondamentale eterogeneità di connotazioni e intenti. Sebbene questi dischi rientrino ancora in una concezione formale e sonora del tutto assimilabile a quella del pop italiano e internazionale, la scelta di Battisti di delegare in toto arrangiamenti e produzione del disco a un professionista di caratura internazionale come Geoff Westley, intervenendo solamente in veste di interprete (Liperi, 1999, p. 325), può aver contribuito a determinare qualche primo sintomo di distonia tra i livelli musicale e verbale delle canzoni.
A partire dai primi anni Ottanta la fine della collaborazione con Mogol – la causa scatenante fu il mancato accordo sulla divisione dei diritti d’autore tra paroliere e musicista – ebbe come conseguenza la transizione di Battisti verso una nuova fase artistica e un rinnovamento stilistico radicale. Il fulcro di tale processo può essere ricercato in una delle figure che diedero continuità alla sua vicenda professionale, Greg Walsh, tecnico del suono per gli ultimi due dischi firmati insieme a Rapetti e produttore dei successivi, E già (1982), Don Giovanni (1986) e La sposa occidentale (1990). La discontinuità più evidente si riscontra nelle scelte che governano suono e forma delle nuove canzoni: se da un lato si avvicinavano al sound elettronico che andava diffondendosi nei repertori internazionali, dall’altro si allontanavano dalle consuetudini del pop per diventare aggregati fluidi di immagini, idee musicali, impressioni sonore, pur rimanendo ancora formalmente inserite entro un’idea di formato discografico coerente con le coordinate già delineate in precedenza.
Per i testi della sua nuova fase Battisti si affidò in un primo tempo alla moglie, Grazia Letizia Veronese, che nelle note di copertina del disco compare, sotto lo pseudonimo Velezia, anche come coautrice delle musiche. Nell’album E già colpisce la mutazione della sonorità generale, interamente affidata a strumenti digitali, programmati da Battisti insieme a Walsh sulla base di una serie di provini, elaborati dapprima nello studio casalingo del cantante, indi semplicemente replicati con una strumentazione più professionale, senza un vero lavoro ulteriore di produzione e arrangiamento (Mirenzi, 1998, p. 238). Pur nella netta discontinuità rispetto allo stile musicale e alle abitudini degli anni precedenti in termini di produzione, il disco ottenne immediatamente un buon riscontro di pubblico: di fatto Battisti si collocò all’avanguardia di tendenze nella produzione sonora che poi si affermarono negli anni a venire non solo nel pop internazionale, ma anche nella produzione italiana mainstream. La fiducia del pubblico fornì l’impulso per riprendere l’attività di produttore, in particolare per l’amico Adriano Pappalardo, uno dei colleghi che più gli furono vicini in questi anni, a livello professionale e umano. I due erano molto legati fin dall’inizio degli anni Settanta, quando era stato proprio il sostegno di Battisti a decidere l’esito positivo del provino di Pappalardo alla Numero Uno, a fronte della perplessità di Mogol e Daldello (Ceri, 2008, p. 202).
Per gli ultimi cinque album di Battisti, Don Giovanni (1986), L’apparenza (1988), La sposa occidentale (1990), Cosa succederà alla ragazza (1992) e Hegel (1994), il ruolo di paroliere fu affidato a Pasquale Panella, poeta dall’approccio notevolmente diverso da quello di Mogol nei confronti della forma canzone e delle sue convenzioni. Battisti passò dalla lineare semplicità – magari impreziosita da ricercatezze – dei testi di Mogol ai flussi di parole di Panella, carichi di assonanze, figure retoriche, nonsense, rime incrociate, incatenate e derivative. Il primo contatto avvenne durante la produzione del disco di Pappalardo Oh! Era ora (1983), un progetto in cui Battisti era coinvolto come produttore e musicista: fu lui l’autore delle versioni grezze delle canzoni, suonate con la chitarra, oltre che responsabile della programmazione di alcuni parti di tastiera presenti nel disco. Panella aveva un passato di scrittore per il teatro sperimentale e una certa esperienza nel mondo della canzone, guadagnata collaborando soprattutto con l’ambiente della RCA e in particolare con Enzo Carella, con il quale guadagnò un secondo posto al Festival di Sanremo del 1979 con la canzone Barbara. Ma fu soprattutto il lato più sperimentale e surreale della sua produzione – provocatoriamente lontano dalle convenzioni e dai clichés della cultura pop proprio nel momento in cui andava a costruire un prodotto destinato alle masse – ad attrarre Lucio Battisti, ancora una volta in cerca di nuovi stimoli creativi dal punto di vista della scrittura e del lavoro sul testo verbale delle proprie canzoni.
Il lavoro insieme a Panella testimonia anche un graduale mutamento nel processo creativo: se finora la prassi era sempre consistita nello scrivere dapprima le musiche e trovare poi dei testi adatti a valorizzarle, almeno da L’apparenza (1988) in avanti la successione nella stesura delle due componenti si invertì. Quelle che il poeta stesso definì «strutture assolutamente improprie alla canzone, direi inorganiche alla canzone» (Mirenzi, 1998, p. 252) offrirono lo spunto per costrutti musicali che sembrano svuotare dall’interno la logica della ripetizione di strofe, ritornelli, refrains e versi, dando forma a un continuum in costante divenire. Le canzoni divennero così dei testi complessi, di tenore quasi dadaista, rispetto alle quali le possibili interpretazioni si moltiplicano; l’attrito tra musica e parola diventa manifesta, fino a negare all’ascoltatore la soddisfazione di scorgere un senso univoco o una narrazione. Con l’uscita di Hegel – album che annovera in alcuni testi richiami alla vita e al pensiero del filosofo – si chiuse la vicenda discografica di Battisti.
Morì il 9 settembre 1998 al San Paolo di Milano, dov’era stato ricoverato il 27 agosto in un quadro clinico che il comunicato stampa dell’ospedale definì «severo fin dall’esordio» (Mirenzi, 1998, p. 267). Gli venne diagnosticato un linfoma non-Hodgkin che nel giro di pochi giorni lo portò a un aggravamento tale da richiedere l’entrata in terapia intensiva dal 7 settembre (Salvatore, 2000, pp. 242 s.). Nell’ultimo periodo Battisti aveva condotto una routine quotidiana contraddistinta da un isolamento quasi totale nella villa di Molteno, riducendo al minimo i contatti anche con gli amici e i colleghi di più antica data. Solo dopo la metà degli anni Novanta mise in atto un progetto di ampliamento della propria casa (che avrebbe dovuto includere anche un nuovo studio di registrazione) e il restauro dell’antica casa dei genitori a Poggio Bustone. I funerali – l’accesso venne riservato ai familiari più stretti – si tennero il 12 settembre a Molteno.
Ancora oggi, a quasi vent’anni dalla scomparsa di Lucio Battisti, ripercorrere la sua vicenda artistica e personale significa rivisitare un settore rilevante della storia della canzone italiana, in particolare quella di area milanese che il musicista frequentò più assiduamente e di cui fu per molto tempo una figura centrale. Certo, si trattò di una Milano assai diversa da quella di Enzo Jannacci o Giorgio Gaber, la metropoli che poté fungere da trampolino di lancio per il musicista grazie alla sua preminenza nel sistema produttivo della canzone italiana e alla concentrazione di musicisti con i quali Battisti stabilì legami saldi e duraturi, basati sulla stima professionale e sulla dedizione al lavoro caratteristici della sua vicenda artistica. Sotto questo profilo la ricostruzione della rete di relazioni proposta nel presente profilo biografico ha portato alla luce una serie di figure che hanno fornito un impulso fondamentale per il cambiamento e la trasformazione della canzone e dell’industria discografica italiana, contribuendo al suo avanzamento tecnologico, produttivo e stilistico. A ragione si può sostenere che l’influenza di Lucio Battisti sulla popular music italiana, e più in generale sulla cultura del Paese, è ancora viva a tutti i livelli, grazie a intuizioni che precorrevano i tempi e sono rimaste a indicare uno standard qualitativo poi raramente eguagliato. Si ha notizia ancora di qualche inedito e provino custodito da colleghi e amici (Salvatore, 2000, pp. 248-251), mentre poco o nulla si sa dell’archivio personale del musicista e dell’eventuale presenza di ulteriori canzoni inedite risalenti all’ultimo periodo.
Fondamentali per avviare la riflessione su Battisti sono state le testimonianze di prima mano di Tony Cicco, Detto Mariano, Carlo Martenet, Natale Massara, Walter Patergnani, Gianni Prudente, Alberto Radius, che qui si ringraziano; P. Cucco, L’autobiografia di L. B., in Sogno, 50 (12 dicembre 1970), pp. 8-11; 51 (19 dicembre 1970), pp. 10-13; 52 (26 dicembre 1970), pp. 44 s.; R. Marengo, L. B. intervista esclusiva. Visioni di paesi lontani, in Ciao 2001, 4 (1 dicembre 1974), pp. 14 s.; T. Lauro - L. Turrini, Emozioni. L. B. vita mito note, Milano 1995; G. Salvatore, Mogol-B.: l’alchimia del verso cantato. Arte e linguaggio nella canzone moderna, Roma 1997; F. Mirenzi, B. Talk. La vita attraverso le sue parole: interviste, dichiarazioni, pensieri, Roma 1998; F. Liperi, Storia della canzone italiana, Roma 1999, ad ind.; G. Salvatore, L’arcobaleno. Storia vera di L. B. vissuta da Mogol e dagli altri che c’erano, Firenze 2000; F. Marchetti, Dieci canzoni per te. Raccontare L. B., Civitella Val di Chiana (AR) 2006; A. Bratus, “Anima Latina” e “Sì, viaggiare” di L. B. e Mogol: una proposta analitica, in Rivista di Analisi e Teoria Musicale, XIII/1 (2007), pp. 103-123; I. Rebustini, Specchi opposti. L. B. Gli anni con Panella, Roma 2007; L. Ceri, Pensieri e parole. L. B.: una discografia commentata, Roma 20082; F. Di Cioccio - R. Bertoncelli, Sulle corde di Lucio. Indagini battistiane, Firenze 2008; O. Julien, Sgt. Pepper’s and The Beatles. It Was Forty Years Ago, Aldershot 2008, pp. 147-169; U. Piancatelli, La vera storia di L. B., Siena 2008; M. Rossi, B.-Mogol. Tradizione spirituale ed esoterismo, Empoli 2008; L. Turrini, B. La vita, le canzoni, il mistero, Milano 2008; M. Neri (con F. Sanna e A. Cangemi), L. B.: discografia mondiale. Tutte le canzoni, le produzioni, le collaborazioni, Roma 2010; P. Ortoleva, Il secolo dei media. Riti, abitudini, tecnologie, Milano 2009, p. 308; D. Zoppo, Amore, libertà e censura. Il 1971 di L. B., Genova 2011; L. Manconi, La musica è leggera, Milano 2012, pp. 263-279; J. Conti, You can call them, if you like, emotions: the (un)orthodox songs of L. B., in F. Fabbri - G. Plastino (eds.), Made in Italy. Studies in Popular Music, New York 2014, pp. 110-122; R. Marengo, Parole di Lucio, Genova 2016; V. Mattioli, Superonda. Storia segreta della musica italiana, Milano 2016, pp. 609-626.