COLLETTI, Lucio
Nacque a Roma l’8 dicembre 1924. Si laureò in filosofia all’università di Roma col crociano Carlo Antoni, con una tesi sulla logica di Croce. Ma le sue simpatie non andavano certo al filosofo napoletano: infatti la sua tesi di laurea era fortemente critica verso la logica crociana (si veda. L. Colletti, La logica di Croce, Marco editore, Lungro 1993). In politica, poi il giovanissimo Colletti era vicino al Partito d’Azione (aborrito da Croce). Nel 1949 egli aderì al Partito comunista italiano; nei primi anni cinquanta militò in quel partito con molta discrezione (lavorava infatti al Ministero degli Esteri), e pubblicò saggi su “Società” (la rivista storico-filosofica del PCI), firmandosi con le pseudonimo di Giovanni Cherubini. Tali saggi si iscrivevano pienamente nella linea culturale comunista, fortemente ostile agli Stati Uniti e alle espressioni della cultura americana. Così, in uno studio su Dewey, il giovane Colletti asseriva che il “materialismo” di quest’ultimo, quando non era vuota etichetta o soggettivismo idealista, era null’altro che “una schematica e grezza concezione meccanicista”; Dewey aveva abbandonato “il terreno della scienza per quello di un ‘naturalismo’ oscurantista”, privo non solo “di qualsiasi prospettiva storica, ma pericolosamente inclinato verso le pratiche dell’eugenetica e del razzismo”. Questo feroce attacco a Dewey suscitò critiche anche da parte di studiosi marxisti (Vittorio Strada e altri).
Conseguita la libera docenza e avuto un incarico di Filosofia teoretica all’Università di Messina, Colletti fu fortemente influenzato dal pensiero di Galvano della Volpe. Il marxismo di Della Volpe e di Colletti era un marxismo tutt’altro che ‘ortodosso’, in quanto non si ispirava affatto alla linea storicistico-dialettica De Sanctis-Labriola-Croce-Gramsci, che era la linea rivendicata dalla maggior parte dei teorici comunisti e da Togliatti in particolare. Colletti, invece, invocava un “ritorno a Marx”, poiché nel pensiero di Marx (che, a suo avviso, era stato per più versi frainteso e deformato) precipitavano e si rifondevano, egli diceva, duemila anni di cultura: in esso convergevano Aristotele e Galilei, Rousseau e Kant, Smith e Ricardo, Hegel e Feuerbach. Ciò non significava, però, che il marxismo fosse una concezione generale della storia, con un capitolo particolare dedicato alla società borghese moderna a cui seguono altri capitoli dedicati alle precedenti formazioni economico-sociali. Se si voleva intendere la vera natura del marxismo, il suo autentico significato, si doveva rovesciare completamente, diceva Colletti, il rapporto fra analisi del passato e analisi del presente. “Il marxismo – continuava il giovane filosofo romano – non è prima una concezione del mondo e poi una analisi della società borghese; non è prima una filosofia generale e poi, subordinatamente, un’analisi del capitalismo (quasi che quest’ultimo trovi posto in esso solo come un capitolo particolare o come una pura esemplificazione). Ma è, viceversa, una teoria generale della storia, che è nata sulla base e in funzione dell’analisi della società borghese moderna: una teoria che si è estesa e allargata a tutta la storia umana nella misura in cui ha dato, per la prima volta, un’analisi scientifica della formazione economico-sociale capitalistica.
Nella concezione di Colletti, dunque, il marxismo veniva ad assumere un carattere integralmente sociologico-scientifico. Esso era soprattutto una ricostruzione della formazione economico-sociale capitalistica e solo in quanto tale, e a partire da ciò, era anche una ricostruzione delle formazioni economico-sociali preborghesi e quindi una teoria della storia.
In tale modo di concepire il marxismo non trovava posto la “dialettica della natura” elaborata da Engels, considerata da tutti i partiti comunisti un caposaldo del cosiddetto “materialismo dialettico”. Contro quest’ultimo Colletti sviluppò il più organico e forte attacco che gli fosse mai stato sferrato nella storia del marxismo. A questo proposito Colletti faceva rilevare che quando Engels, nei suoi saggi più diffusi e più celebri – l’Anti-Duering e il Ludovico Feuerbach, sui quali si erano formate intere generazioni di marxisti – individuava “la maniera metafisica di vedere le cose” nel procedere dell’intelletto o senso comune, il quale, “per quanto sia un compagno tanto rispettabile finché sta nello spazio compreso fra le quattro pareti domestiche, va incontro ad avventure assolutamente sorprendenti appena si arrischia nel vasto mondo dell’indagine scientifica”, perché qui regna la “dialettica”, nel senso che “ogni corpo organico, in ogni istante, è e non è il medesimo” ecc. – quando Engels affermava ciò, identificava la metafisica con il principio di non-contraddizione e la vera scienza con la “dialettica”. Da questa posizione discendeva inevitabilmente che la scienza fisico-naturale dei Galilei e dei Newton era…la metafisica, mentre la filosofia della natura di Hegel era un primo tentativo (per quanto completo e invecchiato) di costruire la vera scienza! Non pago, dunque, dei risultati delle singole scienze empiriche, il materialismo dialettico si proponeva di trattare “dialetticamente” quei risultati, costruendo una nuova filosofia della natura, la quale entrava inevitabilmente in contrasto con gli sviluppi delle singole scienze (come era avvenuto nell’Unione Sovietica e negli altri paesi comunisti, dove importanti indirizzi scientifici erano stati scomunicati).
L’attacco di Colletti al materialismo dialettico suscitò una forte opposizione fra i filosofi comunisti (Cesare Luporini, Valentino Gerratana e altri). Ma questo non fu il solo aspetto che mise Colletti in conflitto con l’ortodossia ideologica del PCI. Egli entrò in contrasto anche con la linea politica del partito, la cosiddetta “via italiana al socialismo”, elaborata da Togliatti a partire dal 1956 (dopo la denuncia dello stalinismo fatta da Krusciov nel “rapporto segreto”, ben presto divulgato in Occidente). La critica di Colletti era una critica ‘da sinistra’, contro le “illusioni” costituzionalistiche e “riformistiche” del PCI: una critica che (insieme alla rivendicazione di una maggiore democrazia all’interno del partito) indusse Colletti a non rinnovare la tessera comunista nel 1964.
Dopo aver collaborato assiduamente alla rivista della sinistra socialista (“Mondo nuovo”), assolutamente contraria alla politica di centro-sinistra portata avanti da Nenni e dalla corrente autonomista del PSI, nel 1966 Colletti fondò una rivista mensile, “La sinistra”, in cui espose con maggiore libertà le proprie tesi politiche. Qui egli condusse una battaglia su due fronti: contro le “illusioni” socialdemocratiche che, a suo avviso, compromettevano ormai la strategia socialista del movimento operaio, e contro il potere burocratico-totalitario che opprimeva le classi lavoratrici nei paesi comunisti.
Nell’editoriale del numero 3 (dicembre 1966) della “Sinistra”, scritto da Colletti, emergeva con grande chiarezza la linea della rivista. L’articolo istituiva una connessione profonda e organica fra la politica e la prassi staliniana nell’URSS e nei paesi comunisti, e la politica togliattiana in Italia. Infatti, diceva Colletti, sia a Est che a Ovest il movimento comunista aveva trascurato ed eluso il problema di indagare in quali peculiari istituti della democrazia socialista si dovesse tradurre ed esprimere, a livello politico, la socializzazione dei mezzi di produzione. In Russia il problema era stato, per così dire, risolto innalzando i dirigenti del partito a dirigenti dello Stato, col risultato che si era costituita una burocrazia onnipotente che aveva espropriato le masse di tutti i diritti e spedito gli oppositori nei campi di concentramento. In Italia, invece, i comunisti avevano posto in primo piano la “contraddizione” tra la costituzione italiana e la pratica dei governi borghesi. Per la prima via, diceva Colletti, andava perduto od oscurato il significato marxista più profondo del processo rivoluzionario, il senso cioè per cui la rivoluzione socialista non segna soltanto la riappropriazione da parte delle masse dei mezzi di produzione, ma anche dei poteri politici di decisione “delegati” al Parlamento e agli altri organi dello Stato (Onde Lenin, per esempio, obiettava a Kautsky che non basta impadronirsi semplicemente della macchina dello Stato per adoperarla poi cosi com’è, ma occorre, al contrario, disarticolarla e trasformarla, trasferendone progressivamente i poteri all’esercizio diretto delle masse); “nel secondo caso – attratti dalle violazioni e inadempienze costituzionali della classe politica democristiana – i comunisti italiani perdevano di vista come, proprio nel quadro della Costituzione democratico-borghese, si stesse compiendo la ricostruzione e lo sviluppo capitalistico in Italia”.
Secondo il direttore della “Sinistra”, la Dichiarazione programmatica approvata dal PCI nel 1956 (imperniata sulla “via italiana al socialismo”), se aveva il merito di prendere le distanze dal sistema sovietico per l’Occidente, era tuttavia un concentrato di illusioni democratico-borghesi. Da un lato, infatti, essa sviluppava una concezione interclassista dello Stato costituzionale come espressione dell’interesse “generale”, al di sopra delle differenze di classe; dall’altro lato, considerava la Costituzione e il regime dell’eguaglianza giuridico-politica come elementi oggettivamente in contraddizione con lo sfruttamento capitalistico, quasi che quest’ultimo fosse una “illegalità” o una violazione dei “diritti civili” dell’operaio, anziché il presupposto e la base stessa della sua dissociazione in lavoratore salariato e cittadino: cioè in elemento subordinato al capitale e, insieme, in persona giuridicamente libera. Il risultato di tutto ciò era, secondo Colletti, non solo il progressivo attenuarsi e venir meno della critica comunista alla concezione socialdemocratica dello Stato e del potere, ma addirittura l’adozione di una tesi socialdemocratica di fondo, sviluppata in un famoso libro del laburista inglese John Strachey (Contemporary Capitalism, Londra 1956): e cioè che esisteva un contrasto nelle società capitalistiche occidentali tra politica ed economia, ovvero tra governo democratico-parlamentare (espressione della volontà della maggioranza) e un assetto economico capitalistico (controllato da ristrette oligarchie).
Contro queste concezioni – che costituivano, a suo avviso, un misto di “statalismo” alla Kautsky e di “opportunismo” alla Bernstein – Colletti rivendicava un ritorno alle analisi di Marx e di Lenin: il Marx dello scritto sulla Comune di Parigi e il Lenin di Stato e rivoluzione. Operavano, insomma, in Colletti e nei suoi collaboratori, due salde convinzioni: che la democrazia solo politica fosse la manifestazione organica di una società fondata sullo “sfruttamento” capitalistico e che una moderna società industriale (quale avrebbe dovuto essere anche la società socialista) potesse essere regolata con la “democrazia diretta” e il cosiddetto “autogoverno dei produttori”.
Colletti abbandonò la direzione della “Sinistra” all’inizio del 1968, l’anno del movimento studentesco (che era iniziato negli ultimi mesi del 1967). Un movimento al quale egli aveva guardato inizialmente con simpatia, ma che, nel suo svolgersi, suscitò in lui perplessità sempre più gravi. Infatti, tanto nella fase calda ed ‘eroica’ del movimento, quanto e ancor più nella sua fase discendente, le assemblee studentesche – che si presentavano come manifestazioni di “democrazia diretta”, in contrapposizione alla “democrazia delegata” o parlamentare, separata dalle “masse” – furono dominate da gruppi organizzati e spesso violenti, e da capi ‘carismatici’, in una sorta di democrazia ‘peronistica’, che tanto più alzava il tiro delle proprie richieste quanto più queste, per il loro irrealismo e per il loro carattere utopistico e ‘totale’, erano destinate a non avere alcuna incidenza sulla realtà, ovvero a essere completamente e irrimediabilmente sconfitte.
Era naturale che in un quadro di questo genere alcuni teorici marxisti (e fra questi Colletti) che, con il loro marxismo estremistico, avevano in qualche modo preparato il movimento e che in un primo tempo lo avevano appoggiato, fossero destinati a ritrarsene con delusione e spavento. Infatti, la critica della divisione del lavoro trapassò assai presto nella pretesa di sopprimere tale divisione dall’oggi al domani, e poi nel rifiuto del lavoro; la critica dello “sfruttamento” capitalistico (che, secondo il dogma marxista, si realizzava nella fabbrica) trapassò assai presto nel rifiuto della fabbrica e più in generale dell’organizzazione industriale del mondo moderno; la critica della subordinazione della scienza alle esigenze del capitalismo trapassò assai presto nel rifiuto della scienza e delle sue applicazioni industriali (di qui il grande successo che le opere della Scuola di Francoforte ebbero nel ’68).
Tutti questi sviluppi generarono in Colletti una profonda diffidenza verso quella “democrazia diretta” che un tempo egli aveva esaltato e che ora gli appariva in una nuova luce: come un’arena in cui i dissenzienti non avevano nessuna garanzia e in cui era possibile qualunque sopraffazione. Inoltre, il quadro del mondo comunista peggiorava sempre più: la destituzione di Krusciov (1964), avvenuta in circostanze oscure e drammatiche, e che mise la sordina alla critica dello stalinismo iniziata nell’URSS dallo stesso Krusciov; la “primavera” di Praga (1967-68), che tante speranze aveva suscitato nei partiti comunisti, bruscamente e brutalmente stroncata dai carri armati sovietici; le crisi ricorrenti in Polonia, dove gli operai dovevano affrontare il fuoco delle mitragliatrici per ottenere un miglioramento delle loro misere condizioni di vita e il riconoscimento dei più elementari diritti civili; il conflitto ideologico-politico russo cinese, iniziato nei primi anni Sessanta: tutti questi sviluppi e il fatto che il marxismo non produceva più da alcuni decenni opere importanti di analisi economico-sociale, non potevano non indurre i marxisti più aperti e meno compromessi con la forma mentis dogmatica formatasi in lunghi decenni a porsi gravi interrogativi circa i fondamenti stessi della dottrina. Si incominciò a parlare di “crisi del marxismo”, nonostante l’egemonia massiccia che esso conservava in Italia nelle università, negli istituti di cultura, nelle case editrici, nelle riviste ecc.
Una manifestazione importante di questa crisi fu la Intervista politico-filosofica che Colletti pubblicò (presso l’editore Laterza) nel 1974, e che suscitò una vasta eco. In questa Intervista (che comprendeva anche un saggio sulla dialettica), Colletti partiva da un’importante ammissione, che metteva in crisi tutto il suo anteriore credo filosofico: il materialismo, egli diceva, presuppone la non-contraddizione, senonché, “rileggendo Marx, mi sono reso conto che per lui le contraddizioni capitalistiche sono innegabilmente delle contraddizioni dialettiche”. Infatti nell’opera di Marx le coppie lavoro concreto/lavoro astratto, lavoro privato/lavoro sociale, valore d’uso/valore di scambio, merce/denaro, lavoro salariato/capitale, non erano (come invece aveva ritenuto Della Volpe e, sulla scia di quest’ultimo, lo stesso Colletti) semplici opposizioni reali senza contraddizione, bensì erano opposizioni contraddittorie. Tutte le contraddizioni capitalistiche erano infatti per Marx lo sviluppo della contraddizione interna alla merce tra valore d’uso e valore di scambio, tra lavoro utile o individuale e lavoro astratto. La contraddizione interna alla merce si estrinsecava nella contraddizione tra merce e denaro, la contraddizione tra merce e denaro si sviluppava a sua volta nella contraddizione tra capitale e lavoro salariato, ecc. Lo stesso Marx, del resto, aveva avvertito che merce e denaro, pur essendo “esteriormente indipendenti”, “internamente non sono indipendenti perché si integrano reciprocamente”; e che, quando la loro indipendenza si spinge oltre un certo punto, “l’unità si fa valere con la violenza, attraverso una crisi”. La possibilità della crisi era dunque da cercare nel fatto (sono ancora parole di Marx) “che momenti che sono connessi, che sono inseparabili, si separino, e quindi vengano riuniti violentemente, che la loro connessione finisca col prevalere della violenza che viene fatta alla loro indipendenza reciproca”. Quella che Marx aveva delineato come cuore e molla centrale del sistema capitalistico era dunque una vera e propria contraddizione dialettica, i cui due termini – nati dalla scissione di una unità originaria (il lavoro umano divisosi in lavoro concreto e lavoro astratto, e il prodotto del lavoro in valore d’uso e valore di scambio, merce e denaro) – non potevano stare l’uno senza l’altro: l’uno rinviava all’altro e al tempo stesso era la negazione dell’altro. Come faceva notare Colletti: “I poli della contraddizione qui sono, sì, indipendenti, separati – e tuttavia sono inseparabili, untrennbar. In quanto si sono separati, essi hanno preso realtà; ma in quanto sono inseparabili, essi sono divenuti reali, indipendenti l’uno dall’altro, pur non essendolo veramente. Si sono fatti reali come cose, pur non essendo cose. Sono, in breve, un prodotto dell’alienazione, sono entità di per sé irreali seppur reificate”. La società capitalistica era dunque per Marx una società alienata, capovolta, o “a testa in giù”. La conclusione alla quale Colletti giugeva era la stessa indicata tanti anni prima da Hans Kelsen: e cioè che, condizionato dalle premesse logico-filosofiche di Hegel, Marx aveva assunto come momento centrale della propria indagine sul capitalismo il concetto “assurdo” di una realtà autocontraddittoria. “Sotto la guida della logica dialettica di Hegel – aveva detto Kelsen – Marx trasferisce le contraddizioni dal pensare all’essere”, sicché “forze opposte nella natura o nella società vengono interpretate come contraddizioni logiche”. Senonché, se ciò poteva avere un senso nella filosofia idealistica di Hegel, dove pensiero ed essere sono identificati, non poteva avere alcun senso nella concezione materialistica di Marx.
Oltre a questa critica di carattere epistemologico al marxismo – in quanto esso aveva trasformato una opposizione o diversità di interessi (fra borghesia e proletariato) in una contraddizione logico-dialettica, che doveva risolversi con il superamento dei due termini che la costituivano – Colletti sottolineava anche che le grandi previsioni di Marx si erano dimostrate errate: “Non solo non si è avuta una verifica empirica della caduta del saggio di profitto, ma non si è neanche realizzato ciò che costituisce la verifica decisiva del Capitale: una rivoluzione socialista in Occidente”. Ma, una volta ammesso che i capisaldi della dottrina marxista erano stati smentiti dalla storia, cambiava tutto l’atteggiamento di Colletti verso il marxismo. Nell’ Intervista egli diceva infatti: “Mi sento straordinariamente lontano dalle cose che ho scritto. Nel migliore dei casi […] non mi sembrano niente di più che un richiamo ai princìpi contro la realtà. Ma da un punto di vista marxista la storia non può mai aver torto: in altri termini non si possono mai opporre dei puri e semplici assiomi a priori all’evidenza dello sviluppo storico effettivo. Il vero compito sta nello studiare perché la storia ha preso una strada diversa da quella prevista dal Capitale”.
È chiaro che, a questo punto, Colletti si sentiva ormai fuori del marxismo. E infatti negli anni immediatamente successivi all’ Intervista egli spinse sempre più a fondo la propria critica all’opera di Marx, nonché al pensiero e all’azione di Lenin. Nel febbraio del 1976, su una rivista comunista (“Nuova generazione”), Colletti rilevò che nel marxismo non c’è una “scienza della politica”, perché la teoria marxista della politica e dello Stato è la teoria dell’estinzione della politica e dello Stato. “In altre parole, non c’è scienza della politica, perché ciò che il marxismo ha elaborato al riguardo è esattamente l’opposto: il venir meno della sfera della politica e dello Stato, l’abolizione (sia pure graduale) della distinzione tra governanti e governati. Ciò è confermato dal fatto che quel che il marxismo ha originalmente prodotto in questo campo è, appunto, una teoria delle condizioni economico-sociali del sorgere e del tramontare dello Stato”. Ma perché il superamento del capitalismo si era prospettato a Marx come fine della politica e dello Stato? Perché, rispondeva Colletti, Marx aveva considerato l’abolizione della proprietà privata, la socializzazione dei mezzi di produzione, come il fondamento di una società assolutamente omogenea, concorde, solidale, senza nessuna forma più di contrasti di interessi; perché aveva ritenuto che l’unica base per una distinzione e differenziazione degli interessi (dei fini) fosse costituita dal regime della proprietà privata. In altre parole Marx aveva pensato che l’abolizione della proprietà privata portasse con sé, automaticamente, la scomparsa di qualunque differenza o alternativa nei fini. Abolita la proprietà privata, la società nuova doveva caratterizzarsi, per Marx, nel naturale affermarsi di un interesse unico, comune a tutti. “Su questa base la politica si estingueva, perché, essendo l’interesse sociale unico, veniva meno qualsiasi problema di mediazione degli interessi, di contemperamento di fini alternativi: veniva meno, appunto, il compito della politica. Nelle nuove condizioni sarebbero rimasti in piedi solo problemi tecnici, alternative sui ‘mezzi’ per raggiungere e tradurre in pratica il fine unico, non alternative di fini. Le alternative sui ‘mezzi’ sarebbero state risolubili solo tecnicamente, scientificamente, in base alle competenze. Da qui la formula – derivata dall’utopista Saint-Simon e poi passata in Engels e Lenin – della fine della politica e della sua trasformazione in ‘amministrazione delle cose’”.
Ora Colletti riconosceva che tutto ciò era altamente utopistico poiché, anche se venisse abolita la proprietà privata dei mezzi di produzione, rimarrebbero e anzi si svilupperebbero nuove differenziazioni di interessi, nuove alternative nei fini, che richiederebbero lo sviluppo di opportuni istituti di mediazione politica. “Vi sono momenti che non hanno nulla a che fare con la sfera economica – diceva Colletti, riprendendo Kelsen – e che tuttavia sono capaci di dividere gli uomini e di accendere, tra loro, conflitti. Anche ammesso, e non concesso, che, in assenza della proprietà privata, non possano più sorgere fini o interessi alternativi nella sfera della produzione, restano pur sempre i conflitti di idee, i contrasti religiosi, le diverse concezioni del mondo (per non chiamare in causa i rapporti sessuali, l’amore, la gelosia, l’ambizione e tutto il resto) che sono già motivi più che sufficienti a provocare divisioni e lotte”. In realtà, la concezione marxiana che il superamento della proprietà privata avrebbe di per sé determinato una società assolutamente compatta, omogenea, senza alternative di fini; ovvero che, sparita la divisione in classi, sarebbe sparita con essa qualsiasi possibilità di diversificazione degli interessi e dei fini, era una concezione indotta in Marx dalla filosofia della storia di Hegel e dalla cultura romantica tedesca. Con questa ammissione Colletti – abbandonata ormai la tesi, da lui sostenuta nei suoi primi lavori, secondo la quale l’opera di Marx era caratterizzata da un radicale antihegelismo – riconosceva invece che le categorie centrali in Hegel (unità originaria, scissione e alienazione, recupero dell’unità a un livello superiore) avevano influenzato massicciamente il pensiero di Marx.
Ma Colletti non si limitò a fare i conti con le grandi aporie del pensatore di Treviri. Egli sottopose anche il leninismo a una profonda critica. Era questo un punto molto delicato, di forte impatto politico. Infatti il segretario del PCI Enrico Berlinguer, pur promuovendo l’”eurocomunismo” e pur prendendo le distanze dal modello sovietico, ribadiva (in polemica con il segretario del PSI Bettino Craxi) il carattere non solo marxista ma anche leninista del PCI. Era, del resto, pienamente coerente col leninismo l’intransigente rifiuto che Berlinguer opponeva alle socialdemocrazie europee, le quali, egli diceva, non si erano mai posto il problema della “fuoriuscita” dal capitalismo e, quando erano state al governo, si erano limitate a gestire la società capitalistica. In questa posizione si manifestava però, diceva Colletti, una gravissima contraddizione della politica di Berlinguer, il quale da un lato (con l’eurocomunismo) invocava una società socialista che riconoscesse e garantisse pienamente il pluralismo, e dall’altro lato, condannando i movimenti socialisti—socialdemocratici, proclamava che solo i partiti comunisti si ponevano il giusto problema di una trasformazione profonda della società borghese e del suo passaggio in una società diversa. Senonché, questa posizione di Berlinguer risaliva appunto a Lenin.
Infatti, secondo Lenin – sottolineava Colletti, richiamando L’imperialismo fase suprema del capitalismo – la socialdemocrazia non faceva parte del movimento operaio; era, al contrario, un agente della borghesia. Segnava la penetrazione del nemico di classe all’interno del movimento operaio; era uno strumento al servizio della classe capitalistica. Benchè, negli anni in cui Lenin scriveva, la socialdemocrazia annoverasse ancora nel suo seno le figure più eminenti del pensiero marxista – da Kautsky a Plechanov, da Martov a Hilferding, da Otto Bauer a Max Adler – Lenin non esitava a escluderla dal movimento operaio. Diceva Colletti: “Emerge qui, con chiarezza, uno dei caratteri più caratteristici del leninismo: l’idea che il partito della classe operaia è uno e uno soltanto: il partito bolscevico, il partito comunista. Radicalmente estranea al leninismo è l’idea che il movimeto operaio possa articolarsi in una pluralità di linee, di tendenze, di movimenti e di partiti”. Il PCI di Berlinguer deprecava ormai la teoria del “social-fascismo”, proclamata dal VI Congresso dell’Internazionale comunista, e ne addossava interamente la responsabilità a Stalin. In realtà, diceva Colletti, quella teoria era organica al leninismo. E, nella misura in cui il PCI rimaneva leninista, esso conservava quel giudizio. Come si vedeva, appunto, nella valutazione della socialdemocrazia come forza politica “borghese”, incapace di correggere e di modificare il sistema capitalistico. L’unico partito in grado di porsi il problema di una trasformazione radicale era, per Berlinguer, il Partito comunista. La posizione ideologico-politica di Berlinguer mostrava dunque, secondo Colletti, che se ci si voleva collocare sul terreno della democrazia pluralistica, bisognava uscire non solo dal marxismo ma anche dal leninismo.
Queste posizioni allontanarono sempre più Colletti dalla sinistra di ispirazione marxista. Nella seconda metà degli anni Settanta e Ottanta egli appoggiò la linea politica del Partito socialista, di cui Bettino Craxi era diventato segretario. Nel 1996 Colletti accettò la candidatura al Parlamento offertagli da Silvio Berlusconi, e fu deputato per Forza Italia dal 1996 al 2001.
Morì il 3 novembre 2001 a Venturina.
Il marxismo e Hegel, Introduzione ai Quaderni filosofici di Lenin, Feltrinelli, Milano 1958.
Il marxismo e Hegel, Laterza, Bari 1969.
Ideologia e società, Laterza, Bari 1969
Il futuro del capitalismo. Crollo o sviluppo? (in collab. con C. Napoleoni), Laterza, Bari 1970.
Intervista politico-filosofica, con un saggio su Marxismo e dialettica, Laterza, Bari 1974.
Tra marxismo e no, Laterza, Roma-Bari 1979.
Tramonto dell’ideologia, Laterza, Roma-Bari 1980.
Pagine di filosofia e politica, Rizzoli, Milano 1989.
La logica di Benedetto Croce, Marco editore, Lungro 1992.
Fine della filosofia e altri saggi, Ideazione, Roma 1996.
O. Tambosi, Perché il marxismo ha fallito. Lucio Colletti e la storia di una grande illusione, Mondadori, Milano 2001.
P. Bongiorno e A. G. Ricci, Lucio Colletti. Scienza e libertà, Ideazione, Roma 2004.
G. Bedeschi, Lucio Colletti, in “Rivista di politica”, 2016, n. 1