FABERI (Faberio), Lucio
Nacque probabilmente a Sarsina (prov. di Forlì), entro il sesto decennio del sec. XVI, prima che il padre, Giacomo, "scrittore eccellentissimo" (Ghiselli, p. 37), si trasferisse a Bologna con la famiglia. Qui il F. aprì una pubblica scuola, e il 28 giugno 1582, ad istanza del senatore Boncompagni, fratello di papa Gregorio XIII, gli fu assegnata una lettura ad artem scribendi (vale a dire l'insegnamento della calligrafia) presso lo Studio.
Tre anni dopo, nel 1585, è professo nella Compagnia dell'Oratorio di S. Maria della Morte. Il 25 maggio 1587 riceve un sussidio da parte del Senato bolognese, al fine di dotare una delle sei sorelle rimastegli a carico, probabilmente in seguito alla morte del padre, il quale risulta già deceduto il 15 genn. 1588, quando il F. è immatricolato nella Società dei notai di Bologna come "originarius ex forense". Dal 20 dic. 1590 ricopre l'incarico di "regulator librorum ac computorum" della Fabbriceria di S. Petronio.1 nella cui sede continua ad esercitare come notalo pubblico. L'anno seguente è eletto notaio e segretario della congregazione di Gabella grossa (un organismo composto da dodici dottori collegiati dello Studio bolognese, con l'incarico di amministrare i proventi dei dazi sulle merci in entrata e in uscita dalla città e contado, destinati alla retribuzione dei lettori). A partire dal 1596, inoltre, compila annualmente i rotuli dei lettori legisti e artisti dello Studio. Il 3 sett. 1599 sposa Polissena Calvi, che morirà due anni dopo; il 17 ag. 1602 contrae un secondo matrimonio con Maddalena Vernizzi, da cui avrà cinque figli.
Il 20 ott. 1599, intanto, veniva eletto ad unanimità notaio della neoistituita Compagnia dei pittori, come risulta da un estratto dei libri della corporazione - oggi perduti - pubblicato nel 1678 da C. C. Malvasia (Felsina pittrice, a cura di G. P. Zanotti, Bologna 1899, I, p. 240). Di questa sua attività rimane soltanto la "Prima Nota de' Pittori ... doppo che sono stati segregati da' Bombasari", verbale di una importante riunione del consiglio della Compagnia (presieduto da Ludovico Carracci, B. Cesi, E. Lucchini) tenutasi nella sede della Fabbriceria di S. Petronio il 5 dicembre dello stesso anno. Si trattava di un impegno di qualche rilievo, in un momento determinante per la promozione sociale dei pittori a Bologna: il nome del F. non poteva quindi risultare da una scelta casuale. Nel 1603 un testimone contemporaneo, Benedetto Morello, ricordava infatti - non senza amplificazione retorica - che "per l'antico amore che porta ai Carracci e alla pittura s'è compiaciuto d'esser ascritto all'Accademia, anzi di servirla di Segretario": e scorrendo i protocolli notarili riaffiorano alcune maglie di una trama di contatti con l'ambiente artistico cittadino, nel vissuto senz'altro più fitta di quanto non dicano i documenti.
Nell'aprile 1594 Ludovico, "Pictor Excellentissimus" (riconoscimento sociale, prima ancora che giudizio qualitativo), compare fra i testimoni di un atto. Poco più di un mese dopo, acquistata una proprietà nei dintorni, per stendere il rogito il F. si rivolgerà al notaio Marco Antonio Carracci, primo cugino dei Carracci pittori, e più tardi collega in qualità di "causidicus" della congregazione di Gabella grossa. Il 13 giugno è Paolo, fratello di Ludovico, testimone di una stipulazione; ricomparirà nell'ottobre del 1596, questa volta in compagnia di Francesco Albani. Nel maggio 1597 - Annibale era a Roma da tempo, e probabilmente anche Agostino si preparava a partire - Ludovico prende in affitto dalla Fabbriceria di S. Petronio "il partimento di sopra che guarda verso la fabrica" (Beck-Fanti, 1967), esplicitamente ricordato in un documento successivo come "le stantie de li Carazzi pittori" (vale a dire Ludovico, Paolo, e ad intermittenza anche Agostino): il F. doveva dunque incontrarli regolarmente, quanto meno nella prosaica ricorrenza del pagamento degli affitti.
La conoscenza di Agostino avrebbe inoltre potuto consolidarsi per il tramite di Melchiorre Zoppi, lettore di filosofia morale nello Studio e cofondatore dell'Accademia dei Gelati. Con quest'ultimo il F. era infatti in buoni rapporti: gli aveva prestato del denaro, e nella sua biblioteca aveva la Medea esule (Bologna 1602), "tragedia del Caliginoso Gelato": lo Zoppi, appunto. A lui probabilmente doveva l'ammissione all'esclusiva accademia (se dobbiamo credere a quanto egli dichiara, non senza ostentazione, in testa all'elogio funebre per Agostino), alla quale, secondo una tradizione seicentesca piuttosto tarda, ripresa dal Malvasia, anche il Carracci apparteneva (ma solo come accademico "di secondo ordine"), per aver intagliato - proprio su richiesta dello Zoppi - il frontespizio e alcune "imprese" per le raccolte di rime dei Gelati (Bologna 1590 e 1597; più recentemente, l'appartenenza di Agostino Carracci all'Accademia dei Gelatì è stata tuttavia messa in dubbio con fondati argomenti da Zapperi, 1989, pp. 31-32, 42-43, note 17 e 23). Per Melchiorre Zoppi egli dipingerà anche il ritratto postumo della moglie, Olimpia Luna, che il F. ricorda nell'orazione con particolare rilievo (e che recentemente si è voluto identificare con una bellissima tela ricomparsa sul mercato londinese: ma si vedano le motivate perplessità di D. Benati, nel catalogo della mostra Nell'età di Correggio e dei Carracci, Bologna 1986, p. 258).
Non è da escludere inoltre che il F. venisse avviato dallo stesso Agostino Carracci alla pratica del disegno, in modo funzionale al suo mestiere di calligrafo (una manualità, tra l'altro, non dissimile a quella delle tecniche incisorie): e in questo senso si può forse intendere un passo dell'orazione stessa ("troppo grave è stata la perdita fatta da me d'un precettor sì grande"). Sulle grandi pergamene dei rotuli occorreva infatti miniare semplici decorazioni; per le più complesse si richiedevano talvolta disegni e modelli ai pittori, che non di rado eseguivano personalmente i capilettera e le figurazioni di maggior prestigio iconografico (e non a caso sarà Giovan Luigi Valesio - calligrafo, incisore, pittore - a subentrare al F. proprio in questo incarico).
Alla luce di questi rapporti possiamo intendere meglio un nodo cruciale della vita artistica bolognese di primo Seicento. Al nome del F. è infatti legata la prima biografia di Agostino Carracci, l'orazione funebre recitata al termine delle solenni esequie celebrate a Bologna il 18 genn. 1603, nella chiesa dell'ospedale di S. Maria della Morte, concessa per l'occasione dai membri della confraternita (e il F., per inciso, era affiliato proprio alla Compagnia dell'Oratorio superiore). Un avvenimento di grande rilievo anche dal punto di vista sociale, che costituiva il primo riconoscimento pubblico - a pochi mesi dal breve viaggio romano di Ludovico e dal suo fallito tentativo di trasformare la corporazione dei pittori in accademia, sul modello di quella romana di S. Luca - del ruolo storico di primo piano ormai assunto dalla scuola pittorica bolognese nell'ambito dei movimenti di riforma pittorica di fine Cinquecento. Il sontuoso apparato, coralmente allestito dal cugino Ludovico e dai giovani "Incaminati Academici del Disegno", si richiamava infatti in modo non casuale al precedente illustre della cerimonia organizzata in onore di Michelangelo dall'Accademia fiorentina del disegno nel 1564. L'ambizioso programma iconografico celebrava Agostino nel ruolo di riformatore della pittura - a Bologna, Roma e Parma - e marginalmente anche come scultore, esaltando al contempo la sua eccellenza intellettuale nell'arte sorella della poesia, mentre l'orazione conclusiva, ad opera del F., sigillava in crescendo questo ritratto artistico e umano esemplare.
Insieme con una dettagliata relazione indirizzata al cardinale Odoardo Farnese a cura di Benedetto Morello, un canonico bolognese della collegiata di S. Maria Maggiore, il verboso testo del F. fu stampato in un elegante libretto corredato da piccole acqueforti attribuite a Francesco Brizio e Guido Reni, su disegni di Ludovico Carracci, che uscì a Bologna nello stesso anno. In appendice figurava una selezione di componimenti poetici d'occasione, tra cui un sonetto dello stesso F. (Il funerale d'Agostin Carraccio fatto in Bologna sua patria da gl'Incaminati Academici del Disegno scritto all'ill.mo et r.mo sig.r cardinal Farnese, in Bologna, presso Vittorio Benacci, 1603).
L'agile pubblicazione godette di una certa notorietá per tutto il sec. XVII e comparve nelle brevi bibliografie di libri d'arte incluse da R. du Fresne nella sua edizione del trattato della pittura di Leonardo (Parigi 1651) e da L. Scaramuccia ne Le finezze de' pennelli italiani (Pavia 1674). Nel 1672 G. P. Bellori ripropose la relazione di B. Morello, insieme con tre dei componimenti, in calce alla vita di Agostino Carracci, omettendo tuttavia l'orazione, di cui si era peraltro avvalso ampiamente, come dimostrano le citazioni letterali affioranti più volte nel testo (Vite de' pittori, scultori e architettimoderni, Roma 1672, pp. 119-132). Pochi anni dopo, secondo un procedimento storiografico a lui consueto, Malvasia ripubblicava integralmente (1678) il libretto nel corpo della sua biografia dei Carracci, selezionando a sua volta tre dei componimenti celebrativi (Felsina pittrice, I, pp. 409-433).
Acquisita in questa forma alla storiografia successiva, l'orazione si trovò a costituire il nucleo generatore (accanto al sonetto di Agostino reso noto dal Malvasia, vero "manifesto" del presunto programma), di quella "leggenda eclettica" che doveva segnare a lungo il destino critico della pittura dei Carracci nell'età dell'idealismo tardoromantico e del rifiuto delle accademie.
Solo verso la metà del nostro secolo infatti, nel quadro di un approfondito riesame del processo di costruzione e radicamento di questa tenace formula interpretativa condotto in vari interventi a partire dagli Studies del 1947, D. Malion avviava la prima rilettura critica del testo, riconoscendo in due passi cardinali dell'orazione puntuali riprese dal tardomanieristico Trattato dell'arte della pittura, scoltura, et architettura di G. P. Lomazzo (Milano 1585). A derivazioni accertate, l'argomentazione di Mahon si risolveva tuttavia in un'autorevole mozione di sfiducia storiografica: invece di dare parola a idee realmente professate nell'ambito carraccesco, il F. replicava soltanto un topos encorniastico già collaudato, costruzione retorica del tutto priva di rispondenza nella prassi concreta degli artisti. Questo parere, ribadito con decisione - in forma ridotta ma tanto più assimilabile - nel contributo al catalogo della mostra bolognese del 1956, ha costituito il principale punto di riferimento per gli studi successivi. In sé, tuttavia, i due episodi sono usuali nella pratica retorica - in senso tecnico, non connotato - del tempo, tanto più da parte di un notaio con soltanto occasionali velleità letterarie, e andranno invece interpretati nel contesto del dibattito, di ascendenza umanistica, sull'imitazione letteraria e pittorica: come ha indicato la critica più recente, che proprio in questi ultimi tempi - almeno a partire da Ch. Dempsey (1977) - ha avviato una decisa riconsiderazione dell'attendibilità storiografica del Faberi.
In conformità al codice del genere letterario cui appartiene, l'orazione doveva infatti rispondere - con quella "copia, ed eloquenza" che vi percepiva G. B. Agucchi - all'orizzonte d'attesa del suo pubblico, un uditorio di sicura competenza, direttamente apostrofato e chiamato a testimone della veridicità del testo: Ludovico Carracci e i giovani Incamminati al completo, accanto ai committenti bolognesi del tempo.
L'identità storica del F., inoltre, sfugge al cliché del letterato rinchiuso nella sua biblioteca. Dalla frequentazione diretta dell'ambiente degli artisti - Ludovico Carracci, in primo luogo- egli poteva attingere invece informazioni di primissima mano, cui non avrebbe potuto avere accesso altrimenti. È il caso delle notizie sulla giovinezza e i primi studi di Agostino, sulla fondazione dell'accademia, sulla sua attività pittorica: e per lo meno relativamente a quest'ultima, si tratta di indicazioni confermate dalla convergenza di altre serie documentarie. Tutte le opere riferite ad Agostino nell'orazione, compreso l'intervento nella galleria Farnese, gli sono infatti concordemente riconosciute dalla filologia attributiva, e per due di quelle non rintracciate - i ritratti del duca Ranuccio - esistono i riferimenti ad annum nei mastri farnesiani. E al suo informatore - quasi certamente Ludovico, che forse integrava confidenze ormai lontane da parte di Agostino stesso - il F. dovette anche chiedere in prestito il Trattato di G. P. Lomazzo: che non figura, accanto ai classici latini e volgari e ad "un libro chiamato i dieci libri dell'architettura di Leone Batista degli Alberti fiorentino", sugli scaffali della sua biblioteca.
Se questi elementi depongono quindi a favore della piena attendibilità del F., fonte primaria e di stretto ambito carraccesco, si impone tuttavia un confronto tra le appassionate dichiarazioni di fedeltà al naturale consegnate dai tre artisti bolognesi ai loro dipinti e disegni - ma non solo - a partire dagli anni Ottanta del secolo precedente, e queste del 1603, che in alcuni punti sembrano già le idee di un Agucchi e un Bellori: e le aporie che sorgono da una verifica sulle "postille" al terzo tomo delle Vite del Vasari sono ancora quanto mai reali.
Il F. proseguiva intanto il suo cursus honorum: sul finire del 1606, in occasione dell'aggiunta di oltre 200 "luoghi" da parte di papa Paolo V, è designato'notaio campioniere del Monte giustiniano, uno dei monti di pubbliche prestanze eretto sulle entrate della Gabella grossa; il 18 nov. 1608 un "partito" del Senato bolognese registra la concessione, per breve papale, dell'ufficio di notaio ai dazi per Bologna e contado. Nell'aprile dello stesso anno aveva inoltre preso in appalto dalla Camera apostolica, per 4.000 scudi l'anno, l'ufficio di mastro delle Poste del papa. La pressione degli incarichi pubblici segnò forse un diradarsi dei rapporti con gli amici pittori: e dal 1605 non era già più il notaio della compagnia. Il 25 nov. 1610 fece testamento, morendo di lì a poco a Bologna il 15 dicembre, nella parrocchia di S. Michele del Mercato di Mezzo.
Fonti e Bibl.: Per la biografia e i rapporti con i Carracci, si veda Bologna, Bibl. univ., ms. 770: A. F. Ghiselli, Mem. ant. mss., vol. XXII, p. 37, con errore di patronimico, ripetuto Ibid., ms.
4207: L. Montefani Caprara, Fam. bol., vol. XXXI, cc. 172-174; corretto in Bologna, Bibl. com. dell'Archiginnasio, ms. 13.725: B. Carrati, Geneal. bol., p. 100; Arch. di Stato di Bologna, Senato. Partiti, vol. 10, c. 196v, e Riformatori dello Studio. Quartironi dei lettori, bb. V e VI, anni 1582-1610; I rotuli dei lettori legisti e artisti dello Studio bolognese, a cura di U. Dallari, II, Bologna 1889, ad Indicem; L. Simeoni, Storia dell'Univ. di Bologna, II, L'età moderna, Bologna 1947, p. 259; Bologna, Bibl. com. dell'Archiginnasio, Fondo Ospedali, n. 52, c. 26v; Arch. di Stato di Bologna, Senato. Partiti, vol. II, c. 187v, e Società dei notai. Matricola (1533-1633), c. 33r (copia in Capitano del Popolo. Liber Matr. Soc. Art., n. 4, c. 127r); Bologna, Arch. della Fabbriceria di S. Petronio, Atti, vol. 22, c. 63v, e Mandati, b. 611, anni 1591-1610; Arch. di Stato di Bologna, Congr. di Gabella Grossa, Libri segreti I/1, c. 233v; I/2, c. 142v; I/3, C. 38v; Bologna, Bibl. com. dell'archiginnasio, B. Carrati, Matrim. di Bologna, ms. B. 900, p. 101, e ms. B. 901, p. 67; Id., Necrol. di Bologna, ms. B. 910, p. 6, e ms. B. 916, p. 82; Id., Nasc. e batt., ms. B. 862, pp. 124, 210; F. Malaguzzi Valeri, L'arte dei pitt. a Bologna, in Arch. stor. dell'arte, s. 2, III (1897), pp. 312 s.; Arch. di Stato di Bologna, Notarile, ser. Favari (sic) Lucio, prott. 1588-97, 1597-1604, 1605-1609, passim; e Notarile, ser. Marc. Ant. Carracci, prot. C, cc. 144v-147r; J. Beck-M. Fanti, La sede dell'Accademia dei Carracci, in Strenna storica bolognese, XVII (1967), pp. 51-56; Arch. di Stato di Bologna, Senato. Partiti, vol. 14, c. 104r, e Notarile, ser. Giov. Lodov. Calvi, prot. 1610-11, cc. 44r-47v, 75r-83r, 189v-193r, 195r-197r.
Per il dibattito critico e la fortuna, si veda D. Mahon, Studies in Seicento art and theory, London 1947, pp. 135-138, 200, nota 7, 205 (ma vedi la recensione di R. W. Lee, in The Art Bull., XXIII [1951], p. 211); Id., Art theory and artistic practice in the early Seicento: some clarifications, in The Art Bull., XXV (1953), pp. 229-231; Id., Ecletticism and the Carracci: further reflections on the validity of a label, in Journ. of the Warburg and Courtauld Inst., XVI (1953), pp. 306-308; Id., I Carracci e la teoria artistica, in I Carracci (catal.), Bologna 1956, pp. 49-63; C. Dempsey, Annibale Carracci and the beginnings of Baroque style, Ghickstadt 1977, pp. 54-5; R. Zapperi, Annibale Carracci. Ritr. di artista da giovane, Torino 1989, pp. 12-4, 31-32, 42-43, note 17 e 23. Il giudìzio di G. B. Agucchi compare in una lettera pubblicata da A. W. A. Boschloo, Due lettere inedite di mons. G. B. Agucchi..., in L'Arte, XIV (1971), pp. 69 s.