Lucio Gambi
È davvero difficile, e forse impossibile, trovare, all’interno delle singole vicende disciplinari che hanno segnato nel secolo scorso la vita accademica e culturale del nostro Paese, una figura cui siano state unanimemente attribuite una tale netta e indiscussa primazia e una così indiscutibile autorevolezza pari a quelle riconosciute nel campo della geografia umana, per tutta la seconda metà del Novecento, a Lucio Gambi. Anche se, paradossalmente, Gambi tendeva a considerarsi uno storico, o almeno così amava rappresentarsi nei confronti dei geografi stessi, anzi (ancora più sottilmente) si comportava da storico tra i geografi, e da geografo tra gli storici.
Lucio Gambi nasce a Ravenna il 10 marzo 1920. Segue a Roma l’insegnamento geografico di Roberto Almagià, conseguendo, poco più che trentenne, la cattedra universitaria. Dal 1953 al 1960 insegna a Messina per poi trasferirsi presso la Statale di Milano, che abbandonerà nel 1976 chiamato all’Università di Bologna dove, fino al 1990, esercita il proprio magistero di docente di geografia politica ed economica, e dove sarà per alcuni anni direttore del dipartimento di Discipline storiche. Ma il nudo cursus accademico esprime soltanto un aspetto, sebbene fondamentale, della sua personalità, al cui interno è fin dall’inizio impossibile distinguere l’impegno culturale dalla passione civile. Giovanissimo partecipa alla Resistenza come azionista, scelta culturale e ideologica cui resterà sempre fedele, e poi crea in Romagna una radio popolare per seguire in diretta i processi ai gerarchi fascisti.
Nel novembre del 1966 è in prima fila a Firenze (città dove abita ma di cui mai si sentirà cittadino) nel salvataggio del patrimonio librario della Biblioteca Nazionale minacciato dall’alluvione dell’Arno. Qualche mese dopo è il docente che più si espone, con Marino Berengo e Franco Catalano (1915-1990), nel tentativo di mediare tra le posizioni del Movimento studentesco milanese e la linea di condotta delle autorità universitarie della città, convinto della fondatezza, se non della necessità, della contestazione giovanile. Designato a metà del 1975 dal Consiglio regionale emiliano-romagnolo a coordinare il Consiglio di amministrazione e il Comitato consultivo dell’Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione (noto con l’acronimo IBC, di cui è il primo presidente), si dimette giusto un anno dopo, a motivo della «particolare riluttanza, anzi repulsione e incompatibilità a vedere disgiunti o a concepire isolatamente l’agire scientifico e l’agire politico», ma soprattutto della «pochissima disposizione ai compromessi», come si legge nella Relazione inviata al Presidente della Regione in data 12 luglio 1976, ancora consultabile sul sito dell’IBC (http://ibc.regione.emilia-romagna.it/parliamo-di/ lucio-gambi/scritti-di-lucio-gambi). Va ricordato, per una migliore comprensione, che l’IBC nasceva in un momento di straordinaria congiuntura favorevole, segnato proprio «dall’incontro fra tradizioni e saperi diversi, riflessione scientifica e esperienze operativo-applicative», vale a dire fiduciose circa «la confluenza di un doppio impegno intellettuale, da una parte la missione di conoscenza, il discorso scientifico applicato al reale, dall’altra il compito di provvedere idee per un nuovo governo e nuove ragioni di sviluppo» (Raimondi, in La cognizione del paesaggio, 2008, p. 39).
Tramontata tale illusione, Gambi inizia a radunare intorno a sé, sotto l’insegna di Geografia democratica, un battagliero drappello di giovani geografi cui si dovrà negli anni Ottanta il rinnovamento del discorso geografico nel nostro Paese, e di cui proprio in quei mesi aveva diretto la prima (e unica) prova collettiva all’interno del grande cantiere dell’einaudiana Storia d’Italia. Socio dell’Accademia dei Lincei dal 1993, Gambi si spegne a Firenze il 20 settembre 2006 continuando fino alla fine la propria instancabile attività di studioso e di generoso promotore di studi altrui che gli era connaturata. La sua biblioteca e i documenti del suo lavoro intellettuale sono conservati presso la Biblioteca Classense di Ravenna (Fondo Gambi-Vergnano).
Per tutta la sua vita Gambi è stato un insegnante la cui lezione si è avvalsa di forme di comunicazione alquanto raffinate e sottili che, anche per tale motivo, hanno inciso e continuano ad agire all’interno della geografia e della storiografia italiane: lezione e stile di comunicazione incomprensibili senza fare riferimento, a dispetto della brillante personale riuscita in termini di promozione accademica, alle condizioni di isolamento, per non dire di autentico ‘accerchiamento’ culturale, in cui, in ambito geografico, fino alla metà degli anni Settanta la sua attività si svolse. Al riguardo, la testimonianza più incisiva è quella del geografo più affine alla sensibilità civile e culturale di Gambi, il coetaneo Giuseppe Barbieri (1923-2004) che, nel ricostruire le condizioni della geografia italiana alla metà del Novecento, ha fatto notare come, se da un lato si imponevano in ogni campo, «insieme alle ritrovate libertà politiche, problemi nuovi e diversi, ripensamenti di formule e contenuti», e «nuove correnti di pensiero, in particolare il movimento neoidealista, avevano posto nuovi interrogativi e nuove visuali che si riflettevano in tutti i campi della cultura», all’opposto «di tali nuovi fermenti i geografi italiani non parevano prendersi molta cura, se non in poche voci isolate, restando preda di un adattamento passivo al sistema dominante e alla chiusura dell’ambiente accademico», ancora saldamente attaccato agli impianti di stampo positivistico che risalivano al secolo passato, «con poca influenza della visuale umanistica e storicistica» (Barbieri, in Nei cantieri della ricerca, 1997, pp. 13-14).
Proprio verso l’affermazione di tale visuale si indirizza e si svolge invece, in condizioni pionieristiche se rapportate al discorso geografico generalmente condiviso, l’attività di Gambi, sull’arco di un amplissimo orizzonte di temi e problematiche. La cui eresia in ambito geografico consisteva anzitutto nel rifiuto dell’ingenua, ma allora generale credenza nella possibilità di un’oggettiva descrizione del mondo, di una descrizione cioè che, per il solo fatto di essere geografica, vale a dire fondata sull’esattezza e la scientificità della mappa (l’unica versione del mondo in grado di «raddrizzare le nozioni false» come aveva sancito all’inizio del Novecento Paul Vidal de La Blache, l’inventore della geografia umana), fosse dispensata da qualsivoglia problematica epistemologica. Gambi, invece, lavora sulle rappresentazioni e con le rappresentazioni. È proprio tale diversità l’origine della cortesia con cui si rivolge al lettore, e della distanza che lo separa dai colleghi. Ma proprio tale diversità lo riassegna prepotentemente, al contempo, alla grande tradizione della geografia prepositivistica.
Sotto tale profilo Gambi è stato l’ultimo erede, in assoluto, della geografia critica borghese (o civile se si preferisce) riassunta nel termine Erdkunde che, all’inizio dell’Ottocento, Alexander von Humboldt traduceva come «teoria critica della Terra»: un sapere che non si poneva come semplice conoscenza (Kenntniss) ma come ri-conoscimento (Erkenntniss), perciò fondato sulla coscienza della dipendenza di ogni posizione scientifica da una preliminare scelta di natura etico-politica, maturata nel vivo delle lotte tra gli uomini. La lotta che la storia aveva riservato al giovane Gambi era quella della liberazione del nostro Paese dall’oppressione nazifascista, dalla quale si aveva l’impressione che egli sino alla fine dei suoi giorni non si fosse mai sentito davvero e del tutto sollevato. Difficile comprendere la stessa scelta dei suoi primi (ma dunque anche ultimi) argomenti d’indagine senza far riferimento, oltre alla robusta vena della cultura politica emiliano-romagnola, all’esperienza della collettiva lotta di popolo che vide insieme la partecipazione dei più umili e dei più colti: le bonifiche, la vita dei pastori, le sedi rurali, le forme dei campi, insomma la faccia della Terra intesa come gigantesco repertorio di segni dalla cui comprensione risalire a quella dei processi storici e sociali di cui erano il portato.
Nei confronti di tali segni, l’analisi di Gambi risultava dirompente proprio perché essa restava esattamente quella della geografia civile allo stato nascente, un «discorso troppo complicato per poter essere ricompreso da una qualsivoglia cartografia», secondo la definizione che nel 1849 ne dava Johann Gottfried Lüdde: discorso da rivolgere, esattamente come allora, anzitutto alla stessa rappresentazione geografica, in maniera da annullare quella che Carl Ritter (l’altro grande Erdkunder insieme con Humboldt) aveva chiamato «la dittatura cartografica», il silenzioso potere delle mappe sulla nostra capacità di scendere a patti cognitivi con il mondo. Anche quando descrive, all’inizio, le forme prodotte, ad es., dal lavoro dei contadini dell’alto Trigno, Gambi invita il lettore, prima di ogni altra cosa, a farsi un’immagine mentale di ciò cui si riferisce e si adopera coscienziosamente alla costruzione di tale immagine. «Si pensi» ama premettere, seguito dal doppio punto: il discorso si svolge soltanto in virtù dell’evocazione della presenza di un interlocutore e in seguito all’appello alle sue facoltà d’immaginazione, senza la quale non può darsi comprensione, e si svolge secondo il modulo della civile conversazione. Ancora e proprio il raisonnement con cui all’inizio del’Ottocento Humboldt era riuscito a trasformare in sapere scientifico il «rozzo ammasso di dogmi fisici» della «mezza cultura» aristocratico-feudale.
In altri termini: per Gambi (sebbene il suo linguaggio non sia questo) la questione consiste nella distinzione tra il mondo e la mente, tra la cosa e il segno, tra ciò che è passibile di percezione e la sua cognizione. Mettere a frutto attraverso il gioco della mediazione linguistica la loro confusione era stata, nel Settecento, la strategia della geografia impegnata a svincolarsi, senza poterlo dire, dalla sudditanza nei confronti della geografia di Stato. Ammaestrata dall’insuccesso di tale tentativo, nell’Ottocento la geografia critica civile tenterà, riuscendovi, l’operazione inversa rispetto a quella fino allora praticata: non più sforzarsi (invano) di convertire gli accidenti del significato in fenomeni naturali, ma, al contrario, partire da questi ultimi assumendoli intenzionalmente come rappresentazioni estetiche, come quadri, lavorando sul progressivo e soggettivo carico di coscienza e conoscenza dell’‘uomo morale’, vale a dire responsabilmente e politicamente impegnato. Di qui, e soltanto di qui, l’invenzione della strategia fondata sul concetto di paesaggio (Ansichten der Natur è il titolo della prima opera importante di Humboldt del 1807, che Renato Biasutti, cui Gambi deve qualcosa, traduce appunto come «Quadri della Natura»). Ed è appunto da tale tradizione che, dopo la sua brusca interruzione alla metà dell’Ottocento, di nuovo Gambi muove, risultando tanto all’avanguardia da essere assolutamente solitario nel panorama della geografia europea del dopoguerra. Non potendo direttamente cambiare il mondo, vale a dire il segno del dominio politico sul mondo, la geografia civile (perfettamente consapevole di abitare l’«epoca dell’immagine del mondo» per dirla con Martin Heidegger) si era applicata alla lenta, ma nervosissima elaborazione di un’immagine, dunque di un mondo, più o meno mediatamente funzionale a tale cambiamento. Il positivismo mise definitivamente fine a tale processo, reintroducendo (proprio come ai tempi della settecentesca geografia dell’antico regime), del sapere della «corte della vecchia verità», l’immagine cartografica come indiscutibile sostituto del mondo, quest’ultimo inteso come complesso di rappresentazioni interessate dal punto di vista politico. Proprio e soltanto come reazione a tale reazione l’energica attività di Gambi può essere, nel suo complesso, compresa, al punto che esattamente come già per Ritter le sue armi geografiche sono «la filosofia, la storia e il linguaggio».
Così, nella reiterata affermazione di essere storico e non geografo, con la quale egli amava scandalizzare i suoi colleghi, vanno rintracciate almeno tre intenzioni, tutte però interne a un unico disegno. La prima, di natura per così dire tattico-difensiva, coerente con l’affermazione dei filosofi di Francoforte per i quali l’unico modo di difendere una tradizione era quello di voltarle decisamente, ma allo stesso tempo soltanto apparentemente, le spalle. La seconda, propositiva, ma anch’essa tattica se non strumentale, era volta all’introduzione di tematiche e argomenti geografici all’interno del discorso storico e storiografico italiano, sulla scorta della grande lezione delle «Annales». Va in merito rammentato che nel dopoguerra la geografia italiana era ancora ferma alla comoda sistemazione dovuta all’inizio del Novecento a Otto Schlüter, per il quale esistevano soltanto due opposti tipi di scienze: il primo considerava i fenomeni secondo il loro divenire temporale, e si trattava delle scienze storiche; il secondo, invece, li considerava secondo il loro essere, dunque come semplici oggetti, ed era a questo tipo di sapere che la geografia apparteneva.
In ogni caso tra storia e geografia, secondo la vulgata cara ai tardivi positivisti nostrani, non era concepibile, prima di Gambi, nessun rapporto che non fosse fondato sulla separazione e anzi sull’opposizione: il che, per dirla ancora con i filosofi francofortesi, si risolveva nell’agevolissima situazione di esimere i geografi da ogni lavoro del concetto, a essi appunto bastando l’aproblematica e semplicistica assunzione della rappresentazione cartografica come inquestionabile immagine del mondo. Anche Gambi, come tutti i geografi, ricorreva nelle proprie ricerche al costante ausilio dell’immagine cartografica, non di rado personalmente costruendola quando essa non era immediatamente e adeguatamente disponibile. Ma allo stesso tempo egli avviò alla critica del documento cartografico intere generazioni di geografi, insegnando a contestualizzarne in senso storico (la terza intenzione) la forma, la natura e il sistema simbolico di significazione. E ciò in un’epoca in cui nelle nostre università ancora si apprendeva la storia della cartografia secondo un andamento lineare che dalla massima approssimazione delle immagini geografiche più antiche metteva capo all’ottocentesca carta topografica, considerata come il definitivo compimento del percorso.
Quanto al linguaggio di Gambi basta leggere una qualsiasi delle sue pagine, cesellate e battute da grande artigiano della parola per rendersene conto: un nitore esemplare e al tempo stesso una formidabile sprezzatura linguistica, in un italiano che discendeva direttamente dai classici, sul filo di una scrittura screziata e prensile, sostenuta e versicolore, aulica e piana al tempo stesso.
Si deve a Teresa Isenburg l’immagine più precisa e insieme suggestiva del metodo di Gambi, una sorta di «operazione musiva, quasi la restituzione delle visioni ravennati della prima, e primissima, giovinezza», nel senso che nella sua quotidiana attività di ricerca e orientamento (rivolta agli studenti, ma anche ai docenti e agli operatori della pubblica amministrazione) egli «estrae tessere che ricompone e collega in disegni inaspettati che acquistano un senso diverso dalle parti singole». E questo all’interno di un ciclo evolutivo che muove nella seconda metà degli anni Quaranta dai primi studi d’interesse romagnolo, cresce tra gli anni Cinquanta e la prima metà degli anni Sessanta con le ricerche dedicate al Mezzogiorno (Sicilia e soprattutto Calabria) in cui s’innestano gli scritti epistemologici, per culminare successivamente nel tentativo di una lettura organica e coerente dell’intero nostro Paese, sempre però sulla base di analisi circostanziate, al cui interno le singole realtà regionali e le singole tematiche sono indagate «per leggere l’Italia» e la sua storia complessiva (Isenburg 2009, pp. 16-17). Nel fare questo Gambi è stato di fatto l’unico geografo italiano del Novecento ad avere anticipato, con le sue riflessioni, tendenze e modelli che soltanto in seguito si sarebbero affermati nella geografia europea e internazionale sotto l’etichetta di geografia umanistica, e che egli ha perseguito in solitario e da pioniere, arrivandovi attraverso personalissimi percorsi che nessun geografo del tempo, né italiano né straniero, avrebbe potuto praticare.
Quattro almeno sono i nuclei tematici o meglio ancora problematici intorno ai quali si raccoglie la sua infaticabile produzione, al cui interno minute e circoscritte analisi documentali e territoriali si alternano a saggi di vasto respiro storiografico e teorico: la natura del sapere geografico e la storia del pensiero geografico e della cartografia; la geografia dell’insediamento e del fenomeno urbano e urbanistico; la valorizzazione antropica dei quadri ambientali e la loro partizione politico-amministrativa; il concetto di paesaggio e le sue possibili declinazioni dal punto di vista analitico e operativo.
La posizione di partenza è fin dall’inizio netta e oggettivamente polemica nei confronti della versione dominante, quella per cui la geografia, ancora concepita come scienza ‘integrale’, vale a dire relativa allo stesso tempo ai fatti fisici e a quelli umani, pretendeva per ciò stesso di svolgere una funzione coordinatrice nei riguardi delle altre scienze. A tale visione, che per Gambi aveva invece perso ogni validità scientifica già all’inizio del secolo scorso, egli oppone una tripartizione del sapere geografico in geografia fisica (che riguarda i fenomeni naturali della Terra), ecologia (l’esame dell’ambientazione sopra la Terra degli esseri dotati di organismo) e geografia umana (la storia della conquista conoscitiva e dell’organizzazione economica della Terra da parte degli uomini): tre discipline autonome e di chiara individualità, ognuna dotata di relazioni ben più forti con le altre discipline (nel caso dell’ultima, ad es., con la storia sociale e la storia economica) piuttosto che reciproche. E la ragione di tale soluzione consiste nella necessità di porre fine all’applicazione ai fatti umani degli stessi schemi validi per l’esplicazione di quelli fisici: una critica alla persistenza dei moduli positivistici in geografia che precede di un ventennio almeno la sua formulazione in ambito anglosassone e perciò internazionale.
È ancora il suo saggio sulla Critica ai concetti geografici di paesaggio umano (stampato in proprio la prima volta nel 1961 in forma di opuscolo presso i Fratelli Lega di Faenza, come parecchi suoi altri antagonistici contributi della seconda metà degli anni Cinquanta e della prima degli anni Sessanta) a inaugurare nella geografia europea la riflessione circa l’insufficienza di un modello (comunque destinato da allora in poi a un grande avvenire) che ambiva alla spiegazione in termini totalizzanti della realtà.
È però all’inizio degli anni Settanta che Gambi inizia a concentrare e raccogliere, in ogni senso, il frutto del suo minuto lavoro analitico e il senso della sua riflessione metodologica. Appaiono riuniti in nuova forma e articolazione i suoi saggi polemico-teorici già radunati una prima volta una decina d’anni prima, e i risultati delle grandi monografie d’ambito regionale del suo primo ventennio d’attività trovano luogo di sistemazione e condensazione, a partire dal 1972, all’interno della Storia d’Italia pubblicata dall’editore Einaudi, il cui primo volume si apre con un suo saggio e si chiude con un ultimo volume, l’Atlante, curato da Gambi. Ancora in quegli anni, anche in relazione alla sua esperienza dai risvolti politico-operativi con l’IBC, s’intensifica la sua riflessione sulla natura, l’origine e la logica della regione e della trama territoriale delle regioni italiane, del loro ritaglio istituzionale: campo di studi impossibile a praticarsi senza il ricorso al documento cartografico e alla sua interpretazione, che fin dall’inizio Gambi intraprende e che porta a compimento alla metà degli anni Novanta curando, insieme con Antonio Pinelli, i tre volumi dedicati alla Galleria delle Carte geografiche in Vaticano. Si tratta dell’ultima sua impresa di largo respiro, che non per caso è un lavoro collettaneo e non per caso riguarda il tema di fondo, il motivo conduttore dell’intera sua opera, e che già una dozzina d’anni prima aveva raggiunto un momento d’alta sistemazione, metodologicamente esemplare, nel volume che ricostruisce la storia urbana e urbanistica di Milano, scritto insieme con Maria Cristina Gozzoli.
L’insediamento umano nella regione della bonifica romagnola, Roma 1949.
La casa rurale nella Romagna, Firenze 1950.
La media e alta val Trigno: studio antropogeografico, Roma 1951.
Geografia delle piante da zucchero in Italia, Napoli 1955.
Questioni di geografia, Napoli 1964.
Calabria, Torino 1965.
I valori storici dei quadri ambientali, in Storia d’Italia, coord. da R. Romano, C. Vivanti, 1° vol., I caratteri originali, Torino 1972, pp. 3-60.
Da città ad area metropolitana, in Storia d’Italia, coord. da R. Romano, C. Vivanti, 5° vol., I documenti, Torino 1973, t. 1, pp. 368-424.
Una geografia per la storia, Torino 1973.
Storia d’Italia, coord. da R. Romano, C. Vivanti, 6° vol., Atlante, a cura di L. Gambi, Torino 1976.
L. Gambi, M.C. Gozzoli, Le città nella storia d’Italia: Milano, Bari 1982.
Geografia e imperialismo in Italia, Bologna 1992.
La Galleria delle Carte geografiche in Vaticano, a cura di L. Gambi, A. Pinelli, 3 voll., Modena 1993-1994.
Nei cantieri della ricerca: incontri con Lucio Gambi, a cura di F. Cazzola, Bologna 1997 (in partic. G. Barbieri, Un geografo scomodo: le questioni di geografia di Lucio Gambi, pp. 13-22).
A. Tanter-Toubon, Régionalisme et régionalisation dans l’œuvre du géographe italien Lucio Gambi, «Revue d’histoire des sciences humaines», 2003, 9, pp. 103-40.
La cognizione del paesaggio. Scritti di Lucio Gambi sull’Emilia Romagna e dintorni, a cura di M.P. Guermandi, G. Tonet, Bologna 2008 (in partic. V. Errani, Prefazione, pp. 11-14; M.P. Guermandi, G. Tonet, Uomo che fa di scienza e di politica, pp. 15-38; E. Raimondi, L’avventura del geografo, pp. 39-46; F. Farinelli, Il maestro di ogni difficoltà, pp. 47-52; M. Foschi, S. Venturi, Un paesaggio di pensieri, pp. 53-61).
«Quaderni storici», 2008, 127, nr. monografico: Una geografia per la storia. Dopo Lucio Gambi, a cura di M. Quaini.
T. Isenburg, Presentazione, in Gli anni milanesi di Lucio Gambi, «Storia in Lombardia», 2009, 1-2, nr. monografico, pp. 9-21.
F. Micelli, Lucio Gambi e la Romagna: tracce topografiche e ragioni storiche, prefazione a L. Gambi, L’insediamento umano nella regione della bonifica romagnola, rist. anast., Bologna 2011, pp. 5-21.
F. Micelli, Un testo rivoluzionario nel rispetto della tradizione, prefazione a L. Gambi, La casa rurale nella Romagna, rist. anast., Sala Bolognese 2011, pp. V-XVI.
Nel sito dell’Istituto per i beni artistici culturali e naturali (IBC) della Regione Emilia-Romagna è presente un catalogo che contiene un’ampia selezione degli scritti di Lucio Gambi, una raccolta iconografica su soggetti ricollegabili ai temi da lui esplorati, e materiali e documenti sulla sua figura: http:// ibc.regione.emilia-romagna.it/parliamo-di/lucio-gambi (21 luglio 2013).
Insigne orientalista di fama internazionale, scopritore della civiltà fenicia e punica, ha fondato in Italia, a livello istituzionale, gli studi sul Vicino Oriente antico, con la creazione di nuove discipline e di nuove strutture di ricerca, la formazione di una scuola e la proiezione di tutte le attività scientifiche in ambito internazionale. L’amplissima produzione (più di 600 titoli) ha una continuità estrinseca, segno di un’applicazione ininterrotta: nulla dies sine linea. Il suo compito nella ricerca scientifica è stato sempre chiaro e unico: «fare del nuovo», appoggiando anche progetti lontani dai suoi interessi per amore obiettivo di scienza. La sua instancabile attività di promotore e organizzatore degli studi (dalla formazione semitistica, della quale gli iniziali studi arabistici costituirono la base, fino alla ‘vena’ fenicia) evidenzia il valore della sua opera di storico, di archeologo del Mediterraneo antico, da Oriente a Occidente, in una prospettiva non solamente classica, e al contempo documenta il grande apporto innovativo da lui dato alla ricerca e al mondo della cultura.
Sabatino Moscati, nato a Roma il 24 novembre 1922, nel 1939 si iscrisse alla facoltà orientalistica del Pontificio istituto biblico, ove seguì i corsi di accadico, ebraico, siriaco etiopico e arabo, conseguendo la licenza nel 1943. Nel 1945 si laureò in arabistica all’Università di Roma; nello stesso ateneo divenne assistente alla cattedra di ebraico e lingue semitiche comparate e successivamente a quella di storia e istituzioni musulmane; come professore incaricato vi insegnò epigrafia e antichità semitiche (1946-51); ebraico e lingue semitiche comparate (1951-54), disciplina di cui tenne i corsi anche presso l’Università di Firenze (1951-52), ove aveva già l’incarico di storia delle religioni (1950-51). A Napoli fu professore incaricato di filologia camito-semitica tra il 1953 e il 1958.
Nel dicembre del 1954, a soli trentadue anni, a seguito di concorso, fu nominato professore nell’Università di Roma di ebraico e lingue semitiche comparate, disciplina modificata poi in filologia semitica, che continuò a insegnare fino al 1982.
Diresse l’Istituto di studi del Vicino Oriente, da lui fondato, la Scuola orientale, la «Rivista di studi orientali» e la serie Studi semitici, promuovendo al contempo una serie di missioni archeologiche nei Paesi dell’area mediterranea al fine di spostare l’orientalistica italiana sul piano dell’archeologia, così da porre in luce le origini della civiltà storica, che è la nostra stessa civiltà. Per trasferimento, nel 1982 passò alla cattedra di ebraico e lingue semitiche comparate presso la nuova Università di Roma Tor Vergata, appena istituita, che poteva offrire possibilità di sviluppo per la ricerca e di carriera per gli studiosi con insegnamenti nuovi come quello di antichità puniche, poi trasformato in archeologia fenicio-punica – affidato a Giovanna Pisano, insieme alla quale Moscati fondò la collana di pubblicazioni Studia punica, destinata ad accogliere le nuove ricerche scaturite dalle scoperte sulla presenza fenicia e punica in Italia, che hanno modificato le conoscenze in un settore di primaria importanza della storia antica.
Dal 1959 fu socio corrispondente dell’Accademia nazionale dei Lincei e dal 1968 socio nazionale, membro del Consiglio di presidenza dal 1982. Ricoprì molti incarichi di prestigio tra i quali: presidente dell’Unione accademica nazionale e dell’ISMEO (Istituto per il Medio ed Estremo Oriente), vicepresidente (1991) e presidente dell’Accademia nazionale dei Lincei (1994). Fu inoltre presidente del Centro di studio per la civiltà fenicia e punica, divenuto in seguito Istituto, fondatore e direttore della «Rivista degli studi fenici» presso il CNR (Centro Nazionale delle Ricerche), ove sviluppò numerose missioni archeologiche in Italia, nei Paesi del Mediterraneo orientale e occidentale. Membro del Consiglio direttivo dell’Istituto della Enciclopedia Italiana, è stato condirettore dell’Enciclopedia del Novecento e direttore dell’Enciclopedia archeologica. Organizzatore e direttore di mostre internazionali, tra cui quelle sui Fenici (1988) e sui Celti (1991) a Venezia, fu membro effettivo o onorario di molte accademie italiane, accademico di Francia, Spagna e di altre istituzioni accademiche straniere.
In riconoscimento della sua attività scientifica gli vennero conferiti il premio nazionale del presidente della Repubblica per le scienze morali, storiche e filologiche dell’Accademia nazionale dei Lincei, il premio internazionale Roma, il premio internazionale Europa, il premio internazionale I cavalli d’oro di San Marco, nonché diversi premi letterari, per ricordare solo alcuni dei suoi importanti titoli. Morì a Roma l’8 settembre 1997.
La prima stagione dei suoi studi, che occupa un ampio arco di tempo compreso tra gli anni Quaranta e Sessanta, è dedicata a diversi ambiti che spaziano dall’arabistica alla semitistica e alla cultura ebraica, con particolare riguardo all’epigrafia, dagli studi storici e storico-artistici del Vicino Oriente preislamico a quelli linguistici. L’articolazione in successione per blocchi tematici dipese dalle circostanze nelle quali si trovò a operare:
Lo stesso impegno allo studio ha fatto sì che lo legassi indissolubilmente alle circostanze; e quanto tali circostanze mutavano, tanto mutavano (o piuttosto, s’integravano) gli interessi nella ricerca. Forse una vocazione non condizionata è quella iniziale, al mondo arabo e alla sua storia. Chi osservi la fine quasi improvvisa, e comunque totale […] può attribuirla alla circostanza dell’insegnamento di semitistica che mi fu affidato nell’Università; e non nego che essa abbia avuto una parte.
Dopo la laurea con una tesi sul califfato di al-Mahdī (775-785 d.C.) sotto la guida di Francesco Gabrieli, nell’età giovanile (1945-55) proseguì i suoi studi di arabista: lavori sulla storia del califfato tra gli Omayyadi e gli Abbasidi, articoli, numerose note, molte voci di enciclopedie, tra le quali la Encyclopédie de l’Islam, recensioni. I lavori sui califfati di al-Mahdī (Studi storici sul califfato di al-Mahdī, «Orientalia» 1945, 14, pp. 300-44; Nuovi studi storici sul califfato di al-Mahdī, «Orientalia», 1946, 15, pp. 155-79) e al-Hādī, i successivi sulla propaganda e la rivoluzione abbasside (Studi su Abū Muslim. I. Abū Muslim e gli ‛Abbāsidi, «Rendiconti dell’Accademia dei Lincei», s. VIII, 1949, 4, pp. 323-35; Studi su Abū Muslim. II. Propaganda e politica religiosa di Abū Muslim, «Rendiconti dell’Accademia dei Lincei», s. VIII, 1949, 4, pp. 474-95; Studi su Abū Muslim. III. La fine di Abū Muslim, «Rendiconti dell’Accademia dei Lincei», s. VIII, 1950, 5, pp. 89-105; Le massacre des Umayyades dans l’histoire et dans les fragments poétiques, «Archiv Orientální», 1950, 18, 4, pp. 88-115) secondo il giudizio di Gabrieli, maestro dell’arabistica italiana,
mostrano il Moscati ugualmente esperto nel trattare di storia politica e religiosa, preciso e sagace nella valutazione e utilizzazione delle fonti, prudente nelle ipotesi e penetrante nei giudizi onde è da rimpiangere, dal punto di vista della storia arabo-islamica, che dopo appena un decennio questa così promettente energia si sia per intero dedicata a un diverso settore degli studi orientali (La storiografia arabo-islamica in Italia, 1975, p. 84).
Al 1955 risale l’ultimo lavoro di contenuto arabo-islamico (Per una storia dell’antica šī‛a, «Rivista degli studi orientali, 30, pp. 251-67), con dense e acute note, testimonianza delle sue eccezionali capacità critiche, applicate all’antica eresiografia musulmana. Tale attività scientifica, che costituisce il notevole contributo di Moscati alla storia araba e del primo islam, è confluita nel volume del 1992, che si apre con il saggio La crisi dell’impero arabo (pubblicato nel volume Oriente in nuova luce, 1954) nel quale analizza, con le sue non comuni doti di studioso di storia, le vicende che furono all’origine, nel 132 dell’egira, 750 dell’era cristiana, dell’istituzione del califfato abbaside in Kūfa «determinante per la storia universale», in quanto avvenimento che segnò il passaggio
dallo Stato arabo all’Impero Islamico, cioè da una dimensione nazionale ad una dimensione internazionale, che avrebbe avuto conseguenze rivoluzionarie nelle vicende di tre continenti, dall’Asia all’Africa e all’Europa (Dal regno arabo all’impero musulmano, 1992, p. 14).
L’incontro con il grande arabista e semitista Giorgio Levi Della Vida (1886-1967), suo maestro, cui poi si aggiunse la circostanza dell’insegnamento, determinò l’ampliamento dei suoi interessi scientifici alle lingue e alle culture dei Semiti, documentato da numerosi contributi, articoli e libri su diversi argomenti che costituirono in ordine di tempo il secondo blocco tematico.
Alcuni saggi tra gli anni 1947 e 1954, tra i quali il fondamentale Il biconsonantismo nelle lingue semitiche («Biblica», 1947, 28, pp. 113-35) e Preistoria e storia del consonantismo ebraico antico («Memorie dell’Accademia dei Lincei», s. VIII, 1954, pp. 385-445), anticiparono i successivi studi (degli anni tra il 1955 e il 1964) di linguistica sul semitico nord-occidentale e su specifici problemi dell’ugaritico e dell’aramaico.
Le Lezioni di linguistica semitica (1960) costituirono, invece, la premessa per il volume fondamentale di sintesi sul semitico comparato, realizzato in collaborazione con insigni specialisti negli studi arabi, etiopici e assiriologici (An introduction to the comparative grammar of the Semitic languages, 1964), ancora oggi punto di riferimento per i semitisti. I suoi interessi storici, oltre che linguistici, per i Semiti furono alla base del lavoro magistrale sulle culture semitiche: Storia e civiltà dei Semiti (1949). Non ancora trentenne, si dimostrò capace di sintesi e, sua precipua capacità, di focalizzare immediatamente i problemi, di assimilarli e presentarli con chiarezza espositiva, caratteristiche che costantemente contrassegnarono tutta la sua vastissima produzione. Il grande successo del libro, documentato dalle numerose traduzioni in più lingue, traeva origine dalla valutazione d’assieme, fino allora inesistente, della storia e della cultura delle antiche genti semitiche e dalla necessità di raccogliere in sintesi i risultati sempre crescenti, anche se dispersi, delle scoperte archeologiche in corso nel Vicino Oriente. Il rifacimento successivo (Le antiche civiltà semitiche, 1958, 19612), anch’esso realizzato in varie edizioni straniere e rivolto a un pubblico colto, rappresentava il superamento di una storiografia semplicemente classicistica, «una sintesi di caratteri e valori, portando sul piano del più generale e quindi del più fondamentale significato i risultati sia degli studi analitici sia del nuovo materiale ancora disperso» sulle grandi civiltà di lingua semitica che erano fiorite nel bacino orientale del Mediterraneo per oltre duemila anni prima dell’affermazione della cultura greca e della religione cristiana.
Gli altri studi apparsi negli anni tra il 1956 e il 1963 sulle origini e l’identità dei Semiti (I predecessori d’Israele. Studi sulle più antiche genti semitiche in Siria e Palestina, 1956; Chi furono i Semiti, «Memorie dell’Accademia dei Lincei», s. VIII, 1957, 8, pp. 1-51; The Semites in ancient history. An inquiry into the settlement of the beduin and their political establishment, 1959) – la cui unità semitica Moscati aveva individuato tra i nomadi del deserto arabo e attribuito al loro processo di diffusione e sedentarizzazione per fronti diversi, «risultato di una pacifica filtrazione stagionale» più che di invasioni violente, l’intera impostazione delle civiltà derivanti dal ceppo comune – lo confermarono validissimo storico nella sua prospettiva unitaria, nello sforzo di intendere e valutare il mondo dell’Oriente antico come un complesso organico, nella naturale varietà delle componenti, attraverso l’evoluzione degli studi e delle scoperte. Scoperte fondamentali che consentirono risultati sul piano comparativo e d’insieme.
Da qui derivò, quale naturale continuazione, l’opera del 1976, L’alba delle civiltà, rivolta agli studiosi del mondo antico nella sua unità e realizzata sotto la sua direzione con l’intervento di più autori, come l’allargarsi delle prospettive richiedeva: la dimensione etnica, cioè la trattazione per popoli, appare superata da quella per temi e problematiche, l’indagine si accosta ormai alle esperienze dell’antropologia culturale, che sempre più legittimamente investono non solo le civiltà «primitive», ma anche quelle sviluppatesi nella luce della storia e il titolo stesso specifica che si tratta «dell’alba della civiltà nostra e cioè mediterranea» (L’alba delle civiltà, cit., pp. 1-17).
La medesima impostazione storica si riflette anche nei saggi storico-artistici (Le origini della narrativa storica nell’arte del Vicino Oriente antico, «Memorie dell’Accademia nazionale dei Lincei», s. VIII, 1961, 10, pp. 4-100), che ebbero il merito di evidenziare – attraverso «un’analisi ammodernata del fatto artistico», derivata dall’applicazione di metodologie moderne ad ambiti di studio nei quali non si era prima effettuata – come nel vasto complesso storico e culturale dell’Oriente antico l’arte
appare profondamente integrata, espressione voluta e programmata della società in cui vive e per essa delle forze che la governano (Apparenza e realtà. Arte figurativa nell’antico Oriente, 1976, p. 10).
Il terzo, più lungo e più importante blocco di studi viene dalle prime ricerche in Israele a Ramàt Rahèl (1958) e ad Akziv (1960), dalle missioni archeologiche italiane in Siria, in Africa, a Malta (impiantate in modo diverso da quello allora dominante: imprese non avulse dai Paesi nei quali venivano effettuate, ma a essi fortemente collegate in una sinergia finalizzata a riscoprire in primo luogo quelle stesse civiltà più che la nostra), e infine in Sardegna e in Sicilia, con la riscoperta delle testimonianze fenicie e puniche che ha caratterizzato l’ultimo trentennio del Novecento. Il motivo dell’esaurimento del filone degli studi della semitistica si deve anche ravvisare nell’impegno come direttore dell’Istituto di studi del Vicino Oriente nell’Università di Roma, che Moscati riuscì a portare dalla pressoché totale carenza organizzativa al livello di funzionale struttura autonoma, con la costituzione di altri insegnamenti sul Vicino Oriente antico e di alcune serie di pubblicazioni nelle quali s’inserivano e si rendevano noti con tempestività i risultati delle ricerche.
Fin dall’inizio l’idea dominante dei progetti di ricerca fu di spostare l’orientalistica italiana sul piano dell’archeologia e di organizzare una serie di missioni nei Paesi dell’area mediterranea al fine di porre in luce le origini della civiltà storica. Nel 1963 il saggio La questione fenicia, che segnava l’inizio degli scritti fenicio-punici, primo di una serie di studi di carattere storico e metodologico, delineava lo sviluppo della questione fenicia dai tempi antichi a quelli moderni, focalizzando l’essenza del problema: riesaminare la questione «al fine non di tracciare un quadro storico e culturale ma di porre in luce le premesse e le condizioni di tale quadro». Attraverso un’analisi puntuale e sistematica dei principali aspetti (etnici, storici, religiosi, artistici, linguistici) individuava la natura e i termini effettivi del problema storico e culturale dei Fenici, nei quali riconosceva i continuatori, pur con sviluppi e innovazioni, della civiltà siro-palestinese dell’Età del Bronzo, protesi verso Occidente mediante un’intensa attività di colonizzazione e destinati a perdere l’autonomia culturale in Oriente con l’avvento dell’ellenismo e in Occidente, nelle colonie, con le conquiste di Roma. Moscati riusciva ad anticipare al contempo, proprio per la sua straordinaria perspicacia nel prefigurare i successivi itinerari di ricerca, le linee e gli sviluppi futuri degli studi fenici, grazie all’esame del complesso culturale delle colonie, alla capacità di far emergere progressivamente una distinzione tra eredità della madrepatria e i mutamenti per evoluzione, innovazione, differenziazione su influsso di sostrato e adstrato. Di tali studi, dopo un decennio di ricerche promosse direttamente, presentava gli esiti emersi proprio dall’evoluzione di tali ricerche, che si andavano definendo verso un’organica autonomia (Problematica della civiltà fenicia, 1974).
La sua opera fondamentale è la prima vera sintesi sulla civiltà fenicia e punica (Il mondo dei Fenici, 1966) del secolo scorso, tradotta in sette lingue europee e aggiornata nel 1979 a seguito del continuo divenire delle conoscenze: ancora un punto di riferimento per l’esame complessivo delle testimonianze antiche in madrepatria e nelle colonie e per lo straordinario sviluppo di ricerche e studi che ne è seguito.
Il successivo lavoro (I Fenici e Cartagine, 1972), altra pietra miliare, realizzato in collaborazione con giovani studiosi usciti dalla sua scuola, presentava una visione d’insieme, nuova nell’impostazione, delle conoscenze sui vari aspetti della vita sociale privata e pubblica dei Fenici, d’Oriente e d’Occidente. Gli scritti di carattere generale avevano, infatti, per Moscati la loro genesi e il loro interesse «solo nella continua dialettica tra le novità recate dalle ricerche analitiche e il loro impatto sulle valutazioni sintetiche». Ne sono testimonianza, sul finire degli anni Sessanta, gli studi storici sulla base della documentazione offerta dalle regioni italiane, Sardegna in particolare (Fenici e Cartaginesi in Sardegna, 1968) e Sicilia (Sulla più antica storia dei Fenici in Sicilia, «Oriens antiquus», 1968, 7, pp. 185-93; la valutazione generale, sul piano storico, dei risultati raggiunti dopo dieci campagne di scavo a Mozia è in Fenici e Cartaginesi in Sicilia, «Kokalos», 1972-1973, pubblicato nel 1975, 18-19, pp. 23-31), grazie all’incessante programma di ricerche archeologiche ivi promosse da Moscati stesso.
Anche nelle raccolte documentarie e negli studi del materiale nuovo scoperto via via negli scavi o nei musei, nonché nel riferimento ai contesti storico-culturali nei quali questo si collocava sono evidenti i tratti distintivi della sua metodologia storica: l’immediata acquisizione dei nuovi dati ai fini di una valutazione aggiornata e una loro utilizzazione dal punto di vista dell’arte e della cultura; l’approfondimento e la revisione critica degli aspetti caratterizzanti la civiltà fenicia, valutata, quale parte integrante, in una prospettiva mediterranea. Sono state queste le tre direttrici di ricerca che ha sempre perseguito parallelamente nella sua inesausta operosità scientifica: «la scoperta e la pubblicazione dei nuovi dati; la ricostruzione sintetica della storia e della cultura; la valutazione problematica delle maggiori questioni emergenti», direttrice quest’ultima di scarso interesse fino al progressivo e sempre più consapevole sviluppo degli studi fenici, che, in modo diverso da area ad area, ha determinato un rinnovamento delle prospettive storiche e una riconsiderazione dei giudizi: «È un privilegio irrinunziabile, infatti, quello di rivedere le proprie idee senza aggrapparsi a esse» (L’enigma dei Fenici, 1982).
In tal senso cadeva definitivamente l’ipotesi di una colonizzazione fenicia precedente di alcuni secoli quella greca, con la conseguenza di un’impostazione del tutto nuova del rapporto tra Fenici e Greci nel Mediterraneo. Mentre la distinzione tra fase fenicia e fase punica spiegava molte situazioni locali, risultava invece più sottile, e a volte non risolvibile, l’alternativa tra punico e cartaginese. Questo solo per citare alcuni dei temi e problemi nuovi, o visti in una nuova prospettiva, presi in esame con la chiarezza e il rigore metodologico che contraddistinguevano Moscati (Tra Tiro e Cadice. Temi e problemi degli studi fenici, 1989). La sua inesausta capacità produttiva, esito della continuità d’impegno, andava dall’individuazione delle componenti più significative della civiltà fenicia alla disamina dei processi di evoluzione e trasformazione da Oriente a Occidente, alla definizione delle testimonianze letterarie antiche, parte integrante dei dati da lui utilizzati, specie per quel che concerne la natura dei riti che si svolgevano nel tofet.
Fondamentali le ricerche storiche finalizzate a mettere in evidenza le interrelazioni culturali all’interno del mondo fenicio-punico, il ruolo di Cartagine in rapporto alle altre aree puniche, all’ambiente etrusco e al mondo greco, ponendo a confronto due grandi fenomeni di espansione dall’Africa alla Sicilia, ossia i Fenici e i Cartaginesi nell’antichità, gli Arabi nel Medioevo, di cui egli mostrò l’affinità nell’ambito di quella che ha chiamato «l’altra faccia della storia, la storia che non va da noi agli altri ma dagli altri a noi» (L’enigma dei Fenici, cit.). Nella straordinaria evoluzione degli interessi scientifici di Moscati, progressivamente indirizzati all’ambito fenicio-punico, la linea conduttrice delle ricerche e degli studi condotti da Oriente a Occidente è stato il mare Mediterraneo, il fenomeno della formazione della civiltà mediterranea, la storia a dimensione mediterranea (Civiltà del mare. I fondamenti della Storia mediterranea, 2001).
Risulta difficile selezionare le opere principali in una bibliografia che comprende più di seicento titoli tra cui monografie corpose, grandi lavori di sintesi linguistica, storica, archeologica, raccolte sistematiche di monumenti, indagini specifiche, dissertazioni di problemi filologici, storici o storico-artistici, articoli e note pubblicati su riviste nazionali e internazionali specializzate, opere di alta divulgazione scientifica storica e archeologica, oltre a moltissimi articoli di giornali.
Tra gli studi, in particolare si vedano:
Civiltà e lingue semitiche, Roma 1947, 19482.
Storia e civiltà dei Semiti, Bari 1949 (ed. francese: Paris 1955; ed. inglesi: London 1957; New York 1958; ed. tedesche: Stuttgart 1953, 1955, 1961, Zurich 1961; ed. svedese: Stockholm 1958; ed. spagnola: Barcelona 1960; ed. polacca: Warszava 1963; ed. ceca: Praha 1969; ed. giapponese: Tokyo 1970; ed. rumena: Bucureṣti 1975).
Le origini della narrativa storica nell’arte del Vicino Oriente antico, «Memorie dell’Accademia Nazionale dei Lincei», s. VIII, 1961, 10, pp. 4-100.
Antichi imperi d’Oriente, Milano 1963, Roma 19782.
An introduction to the comparative grammar of the Semitic languages, Wiesbaden 1964.
Il mondo dei Fenici, Milano 1966.
Fenici e Cartaginesi in Sardegna, Milano 1968.
I Fenici e Cartagine, Torino 1972.
Problematica della civiltà fenicia, Roma 1974.
L’alba delle civiltà, 3 voll., Torino 1976.
Apparenza e realtà. Arte figurativa nell’antico Oriente, Milano 1976.
I Cartaginesi in Italia, Milano 1977.
Il volto del potere. Arte imperialistica nell’antichità, Roma 1978.
La civiltà mediterranea. Dalle origini della storia all’avvento dell’ellenismo, Milano 1980.
L’enigma dei Fenici, Milano 1982.
Nel cuore del Mediterraneo. Un’altra faccia della storia, Milano 1982.
Scritti fenici minori, Roma 1988.
Le civiltà periferiche del Vicino Oriente antico. Mondo anatolico e mondo siriano, Torino 1989.
Tra Tiro e Cadice. Temi e problemi degli studi fenici, Roma 1989.
Gli adoratori di Moloch. Indagine su un celebre rito cartaginese, Milano 1991.
Dal regno arabo all’impero musulmano, Napoli-Milano 1992.
Introduzione alle guerre puniche. Origine e sviluppo dell’impero di Cartagine, Roma 1994.
Luci sul Mediterraneo. Dai manoscritti del Mar Morto ai Cartaginesi in Italia: tre millenni di vicende storiche, di concezioni religiose, di creazioni artistiche alla luce dell’archeologia, 2 voll., Roma 1995.
Bibliografia degli scritti sul mondo fenicio e punico, «Rivista di studi fenici», 1997, 25, pp. 121-37.
Storia degli Italiani. Dalle origini all’età di Augusto, Roma 1999.
Civiltà del mare. I fondamenti della storia mediterranea, Napoli 2001.
G. Garbini, prefazione a S. Moscati, Bibliografia degli scritti 1943-1991, Pisa 1992, pp. 1-9.
Omaggio a Sabatino Moscati. Testimonianze di allievi e amici, a cura di G. Pisano, Roma 1992.
G. Gnoli, Presentazione a S. Moscati, Luci sul Mediterraneo, 2 voll., Roma 1995, pp. XIII- XVII.
B. Brizzi, Sabatino Moscati e l’epilogo della storia punica, «Rivista storica dell’antichità», 1997, 27, pp. 215-22.
G. Gnoli, Sabatino Moscati, 1922-1997, «East and West», 1997, 46, pp. 428-33.
G. Garbini, Ricordo di Sabatino Moscati già presidente dell’Accademia (Roma, 8 maggio 1998), «Atti della Accademia nazionale dei Lincei. Classe di Scienze morali, storiche e filologiche. Rendiconti», s. IX, 1998, 9, pp. 775-79.
F. Tessitore, Presentazione a S. Moscati, Civiltà del mare. I fondamenti della storia mediterranea, Napoli 2001, pp. 1-5.
Incontro di studio in ricordo di Sabatino Moscati (Roma, 7-8 novembre 2007), «Atti dei Convegni Lincei», 2009, 224 (in partic. G. Gnoli, Sabatino Moscati orientalista, pp. 13-20).
M. Barbanera, Moscati Sabatino, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 77° vol., Roma 2012, ad vocem.