Cincinnato, Lucio Quinzio
, Personaggio di grande rilievo nella galleria esemplare delle virtù repubblicane, è celebrato dalla tradizione come il " triumphalis agricola " (Floro I v 14, ediz. Ial), modello di schiva grandezza, che nonostante i suoi meriti di cittadino eminente coltiva da solo il campicello di quattro iugeri cui ritorna dopo aver deposto spontaneamente la dittatura.
La vicenda di C. è interpretata dagli scrittori secondo una duplice prospettiva moralistica. Livio evoca soprattutto il momento in cui i legati che gli annunciano la nomina a dittatore sorprendono l'eroe al lavoro nel suo campo; ciò che, secondo lo storico, suona ammonimento per quanti " omnia prae divitiis humana spernunt neque honori magno locum neque virtuti putant esse, nisi ubi effuse affluant opes " (III XXVI 7). Fissata in tal senso la significazione morale dell'episodio, non ha particolare rilievo il ritorno di C. alla vita semplice; che difatti, accennato appena da Livio con le parole " dictatura in sex menses accepta se abdicavit " (III XXIX 7), è taciuto affatto da altre fonti (per es. Cicerone Fin. II IV 12 e Senect. XVI 56; Persio Sat. I 73 ss.). Presso altri storici, generalmente più tardi, questo motivo accessorio acquista uno sviluppo maggiore e C. vive il suo atto esemplare piuttosto quando rinuncia al potere assoluto e ritorna ai buoi e all'aratro (Floro I V 14; Agost. Civ. V 18; Orosio Hist. II XII 8). Le due linee interpretative si riflettono nei ricordi danteschi del personaggio.
Più generica è l'allusione alla vittoria di C. sugli Equi e sui Volsci di Pd VI 46-47, dove è da notare la perifrasi Quinzio, che dal cirro / negletto fu nomato (il Mariotti ha notato che cincinnatus vale semplicemente " ricciuto " e che D. si avvicina a Uguccione, il quale spiega cincinnus come " crinis qui prolixe dependet "). In Pd XV 129, invece, l'accenno a C., pur rapidissimo, adduce accanto a Cornelia l'eroe nella pienezza della sua esemplarità di cittadino all'antica, semplice e grande, contrapposto al moderno faccendiere Lapo Saltarelli, e sottintende l'ammonimento liviano riferito più sopra.
In Cv IV V 15 e in Mn Il V 9 prevale l'exemplum libere deponendi dignitatem. L'utilizzazione contestuale dell'exemplum è peraltro alquanto diversa nei due luoghi. Nel primo, probabilmente in antitesi alla severa visione agostiniana della storia nei tempi pagani, C. appare tra gli eccellentissimi che, operando non sanza alcuna luce de la divina bontade furono strumenti con li quali procedette la divina provedenza ne lo romano imperio (§ 17); nel secondo si tratta piuttosto di rilevare un atto eccezionale di onestà civile volto a quel bene comune che è il fine del diritto, per argomentarne la legittimità dell'Impero romano. Nell'un caso e nell'altro il particolare del ritorno all'aratro ha fatto supporre che D., pur citando nel passo della Monarchia Livio e Cicerone (che non ne fanno parola), seguisse piuttosto il racconto di Floro; sempre che non attingesse invece, come pensa il Vinay (comm. alla Monarchia, p. 137) a remote e generiche reminiscenze scolastiche.
Bibl. - E. Moore, Studies in D., I, Oxford 1896, 276; P. Toynbee, D. Studies and Researches, Londra 1902,126; S. Mariotti, Il c. VI del Paradiso, in Nuove letture dant. v.