Lucrezio: una scuola filosofica in forma di poesia
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Con il De rerum natura Lucrezio introduce nella letteratura latina il primo esempio di poesia didascalica, volta a trasmettere la sua originale visione del mondo, in netto contrasto con il pensiero tradizionale, attraverso il piacere della lettura; il messaggio di Lucrezio è fondato sulla dottrina epicurea secondo cui l’obiettivo dell’uomo deve essere la ricerca della felicità attraverso la liberazione dalla paura della morte e la conoscenza della natura.
Parlare della biografia di Tito Lucrezio Caro significa addentrarsi in un quadro labile e incerto, dal momento che la figura del poeta è stata oggetto, fin dal momento della pubblicazione della sua opera, di una congiura del silenzio dovuta alla volontà di gettare nell’oblio un inquietante documento di sublime attacco alle presunte certezze su cui si fondava ampia parte del pensiero filosofico e religioso del mondo antico.
Sulla base di una notizia riportata da San Girolamo, secondo la quale il poeta sarebbe impazzito per gli effetti di un filtro d’amore, e dopo aver composto il suo poema per intervalla insaniae sarebbe arrivato al suicidio (notizia che contribuì non poco alla creazione di una affascinante “leggenda dell’artista” che ha prodotto diverse riscritture moderne della biografia lucreziana), possiamo ipotizzare che l’arco della sua vita si sviluppi negli anni tra il 98 e il 55 a.C. Al velo di oscurità che copre la vicenda umana di Lucrezio fa da contrappunto la chiarezza per certi versi abbagliante che circonda la sua opera: 7415 versi suddivisi in sei libri, a formare il De rerum natura, il primo esperimento a noi noto di poesia didascalica in lingua latina.
Le origini del genere didascalico si possono far risalire almeno al poeta greco Esiodo, autore del poema Le opere e i giorni: a differenza dell’epica di carattere narrativo, la poesia didascalica intende comunicare un insegnamento tentando la strada della difficile mediazione tra sapienza e immaginazione creatrice, tra utilità e piacere. L’autore si rivolge perciò ad un destinatario, che può essere reale o fittizio, e che comunque viene a più riprese evocato all’interno del testo, e interpellato non di rado in seconda persona. Nel caso del De rerum natura, l’interlocutore del poeta è Memmio, forse lo stesso personaggio al cui seguito Catullo si era recato in Bitinia, e che deve essere una sorta di protettore culturale di Lucrezio, almeno fino a quando un processo per corruzione non lo spinge all’esilio ad Atene intorno al 52 a.C.
Ma non è difficile scorgere che, al di là del destinatario specifico, è all’umanità tutta che Lucrezio vuole trasmettere il suo messaggio, attraverso una poesia percorsa da un’ansia di verità e di chiarezza che supera decisamente i confini del genere letterario entro cui comunque si inscrive. Il contenuto dell’insegnamento che il poeta intende diffondere è la dottrina del filosofo ateniese Epicuro, di cui Lucrezio si proclama entusiasta seguace, secondo la quale al centro della vita umana si deve porre la ricerca della felicità attraverso la liberazione dalla paura della morte e alla luce della conoscenza della natura: un messaggio decisamente rivoluzionario, che si traduce in una originale lettura del mondo.
L’opera lucreziana è strutturata secondo un piano volto a condurre per mano il lettore con la forza di una sempre più serrata argomentazione verso la consapevolezza dei meccanismi sottesi ad ogni forma dell’esistenza.
Il poema si apre col grandioso Inno a Venere, forza cosmica della generazione degli esseri e figura del piacere (voluptas) epicureo, colei che infonde il desiderio della vita e spinge ogni specie a propagarsi nell’esistenza, contro la guerra e la morte simboleggiati da Marte. Segue poi la trattazione sugli atomi, al tempo di Lucrezio considerati i primordia rerum, cioè gli elementi primi costitutivi della materia. Prima di addentrarsi nella trattazione, il poeta celebra la figura di Epicuro, con toni e accenti che dicono tutta la sua entusiastica adesione alla dottrina del maestro. E fa seguire un atto di consapevolezza sulla difficoltà di comunicare tale dottrina nelle forme della poesia: se Epicuro ha ritenuto la poesia stessa incapace di avvicinare l’uomo alla verità, anzi piuttosto un artificio destinato ad oscurarla, Lucrezio fa suo il compito di addolcire “col fascino delle Muse” (museo lepore) le dure verità che intende trasmettere al lettore, proprio come il medico spalma di miele l’orlo del bicchiere perché il bambino possa bere tranquillo la medicina che gli viene somministrata (I, 935 ss. e IV, 11 ss.).
Se dunque la poesia, in una lingua che soffre di egestas, di inadeguatezza e povertà in ambito filosofico, si pone l’obiettivo di illuminare complesse verità scientifiche, deve ricorrere, per attrarre il lettore, alla dolce forza del mito, del linguaggio immaginifico che non esita ad avvalersi di similitudini e metafore che possano rendere concreto ciò che è altrimenti invisibile. Il contenuto dottrinale del I e del II libro si può così sintetizzare: nulla nasce dal nulla né dall’opera degli dèi, e nulla va incontro a completa distruzione, dal momento che gli atomi sono immortali e danno origine a infinite forme di esistenza attraverso la loro aggregazione. Da tali infinite combinazioni derivano le sensazioni, che costituiscono il principio fondante dell’esistenza: piacere e dolore dipendono dalla disposizione più o meno ordinata degli atomi stessi.
Il III e il IV libro contengono la trattazione relativa alle componenti biologiche e psicologiche dell’organismo umano, e quindi la dimostrazione scientifica dell’inconsistenza del timore della morte, dal momento che quest’ultima opera la separazione tra il corpo e il principio vitale che lo anima, e nulla noi saremo una volta avvenuto questo discidium. Piuttosto, occorre comprendere i motivi di questa paura, e farlo alla luce – ancora una volta – dell’illuminata dottrina epicurea, secondo la quale “la morte non è nulla per noi”. Mentre si scongiura il pericolo derivante da false rappresentazioni dell’aldilà, l’argomentazione si allarga anche su tutte le illusorie percezioni che colpiscono i sensi, e che sono determinate dai simulacra rerum, immagini costituite da strati superficiali di atomi, che ricoprono i corpi come membrane e se ne staccano determinando i più disparati effetti sensoriali: la vista, l’udito, il gusto, l’odorato e perfino il sogno. Analizzando la tipologia del sogno generato da impulso sessuale, si passa a trattare il tema dell’attrazione fra corpi e ai suoi effetti sul comportamento umano. Confondere l’attrazione sessuale con l’amore significa ancora una volta condannarsi alla prigione che lega a una persona precisa la soddisfazione del proprio istinto. Gli ultimi due libri del poema trattano della nascita del mondo, considerato un organismo al pari degli altri corpi viventi e quindi sottoposto ad un processo di crescita, decadenza e morte, in cui non c’è posto alcuno per le divinità che – mai negate nella loro esistenza dal pensiero epicureo e lucreziano – sono pensate come completamente distanti dalla realtà umana, e dimoranti in quegli “inframondi” (intermundia) dove godono perfettissima quiete. Viene narrata quindi la storia del genere umano in termini rigorosamente materialistici: e lo sguardo di Lucrezio si sofferma sul percorso straziante, irto di difficoltà e di disagi, che l’uomo ha dovuto compiere dalla natura alla cultura.
Ma l’antropologia lucreziana, che rifiuta di fondarsi sui confortanti miti delle origini e su presunte età dell’oro cui guardare con nostalgia, mostra un volto originale: la natura, come in ogni teoria evoluzionistica, si configura come un presupposto della cultura, che può essere a sua volta realtà positiva come fonte di mali. Il cammino umano, scandito nelle sue prime fasi dall’ignoranza di ogni legge, dall’attitudine predatoria verso gli animali e verso i propri simili, era allora anche – paradossalmente – estraneo alle forme istituzionalizzate della guerra, sarcasticamente ricordata come colei che “offre alla morte migliaia di uomini condotti dietro un’insegna”. Ed è con la descrizione delle cause che danno origine ai fenomeni della natura più spaventosi per gli uomini (tuoni, fulmini, terremoti, eruzioni vulcaniche), nonché con la descrizione di alcune malattie letali (c’è un sublime tremendo nel “trionfo della morte” costituito dal ricordo della peste di Atene del 430 a.C.) che il poema si chiude o, più probabilmente, si interrompe.
Uno degli obiettivi principali dello sforzo razionalistico di Lucrezio è – come già si è detto – la lotta contro quell’atteggiamento di sottomesso e superstizioso timore nei confronti del soprannaturale, che si definiva religio, ed esalta in Epicuro colui che è stato in grado di abbatterlo dalle fondamenta alla luce della ragione.
Come Esiodo, Empedocle e Pindaro, Epicuro era stato per la Grecia un autentico “maestro di verità”, e spesso all’interno del suo poema Lucrezio ne sottolinea il carattere di tedoforo, di dissipatore di tenebre. Il contrasto fra tenebre dell’ignoranza dovuta alle false paure sull’aldilà e la luce irradiata dalla speculazione di un uomo che per primo osò fissare lo sguardo contro la religio è infatti molto spiccato in tutto il poema.
Ci si trova, così, di fronte ad una felice contraddizione: se da un lato l’insegnamento epicureo, con il suo invito ad accettare il limite della mortalità e a considerare gli dèi come esseri non interessati alle vicende umane, sembrava scevro da ogni aspirazione trascendente, dall’altro esso diventa lo strumento stesso grazie al quale la personalità del maestro acquista i tratti di una irripetibile esemplarità, come solo a un dio può accadere. Nella percezione lucreziana della forza salvifica del modello epicureo si percepisce la meraviglia di colui al quale è stato consegnato un poderoso strumento intellettuale per esplorare le zone buie della natura e della vita, la forza nascosta (vis abdita quaedam, V, 1233) che governa il mondo.
L’immagine del contrasto fra luce e tenebre, che apparteneva già alla sfera dell’iniziazione e dei culti misterici, trova un parallelismo anche nell’opposizione chiuso/aperto che si propone a più riprese nell’ambito del poema: che costituisce esso stesso una sfida intellettuale, nel quale il lettore è chiamato a comprendere la sublime necessità di contrastare il mondo chiuso e soffocante, oltre che ammantato di mistero, di una natura non ancora disvelata dalla forza della ragione. Una sfida – è bene ribadirlo – che a lanciare per primo fu proprio il maestro Epicuro il quale, in una significativa climax, viene definito inizialmente homo (I, 66), poi pater (III, 9) e infine addirittura deus (V, 8). Non sembra improprio parlare quindi di un processo di re-mitizzazione che pervade l’intero De rerum natura: un processo attraverso il quale Lucrezio giunge a dimostrare come il filosofo abbia soppiantato gli dèi della religione tradizionale attivando però a sua volta il paradosso secondo il quale la sua negazione dell’intervento degli dèi nelle vicende del mondo starebbe a fondamento della sua “divinità”. Ecco che la figura di Epicuro viene risemantizzata proprio dal punto di vista mitologico-religioso, secondo modalità simboliche di utilizzazione del patrimonio mitico che Lucrezio aveva a disposizione. Se il libro che il poeta leggeva, raccogliendo un’eredità di secoli, era quello della Natura, il libro che scriveva era quello di un racconto da consegnare alla memoria, che ancora a distanza di secoli può inebriarsi di questi squarci di infinito in versi.