Lucrezio
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel De rerum natura, Lucrezio introduce nel mondo culturale romano idee rivoluzionarie e innovative, improntate a un deciso razionalismo, fortemente in contrasto con la tradizione del mos maiorum che caratterizza la riflessione filosofica romana. Mosso dall’intento di riuscire a liberare l’animo umano dall’assogettamento alla religio, in particolare attraverso la paura della morte, il poeta delinea nel suo capolavoro un nuovo ordine cosmico e morale, riprendendo le idee epicuree e fornendo un’interpretazione razionale del mondo, attraverso una lingua e uno stile nuovi e rinnovati.
Le pochissime informazioni che abbiamo sulla vita di Lucrezio – sulla quale nessun indizio ci soccorre dall’interno degli oltre 7000 versi del De rerum natura – sono quasi esclusivamente affidate a una testimonianza di san Gerolamo: “nell’anno 94 nasce il poeta Tito Lucrezio; questi, divenuto pazzo per un filtro d’amore, dopo aver scritto nei momenti di lucidità diversi libri, in seguito pubblicati da Cicerone, si suicidò all’età di 44 anni”. Notizie scarse e probabilmente anche inesatte (dal momento che la Vita virgiliana del grammatico Donato, anch’essa del IV secolo, induce a collocare la nascita di Lucrezio nel 99/98 a.C.); e anche fragili e sospette per quanto riguarda il riferimento alla pazzia e al suicidio di Lucrezio. Questa versione infatti non trova riscontro altrove e soprattutto mal si accorda col silenzio dei Padri della Chiesa e degli Apologisti, i quali in quella triste fine avrebbero trovato un ottimo argomento di difesa e propaganda antiepicurea. Questo argumentum ex silentio ancor oggi rende i critici più che perplessi e induce a ritenere la notizia del suicidio una falsificazione maliziosa maturata in ambiente cristiano o comunque antiepicureo, e finalizzata a ridurre il materialismo e l’ateismo di Lucrezio a frutto di squilibrio mentale, facendo apparire la sua stessa fine come segno di contraddizione con la materialistica e ottimistica dottrina epicurea.
Nella capitale dello stoicismo – vale a dire della filosofia che teorizza il primato del negotium e la pratica della religio come instrumentum regni – la presenza dell’epicureo Lucrezio, che rivendica l’otium (il lathe biosas, “vivi nascosto”, del maestro epicureo) e stigmatizza la religio come causa di tutti i mali, assume un ruolo dirompente e si configura come un vero e proprio errore anagrafico. Scopo del verbo lucreziano è sradicare dall’animo umano i due peccati originali, le due “ferite della vita” (vulnera vitae): la cupido vitae, che si traduce in malsana passione amorosa, politica, economica (vd. proemio del II e III libro, e finale del III libro) e il timor mortis, che, oltre a suscitare le reazioni più turpi e sanguinarie (vd. proemio del III libro), ricatta l’animo umano con il culto degli dèi e con la paura dell’aldilà.
Per liberare gli animi dalla paura della morte e dai nodi della religione (1, 932 = 4, 7 religionum animum nodis exsolvere), Lucrezio – sulla scorta del maestro Epicuro, il quale ha segnato uno spartiacque storico rispetto a tutti i filosofi precedenti – annuncia “un messaggio grandioso” (res magnae) e “rivoluzionario” (res novae) tutto incentrato sul “conoscere le cause delle cose” (rerum conoscere causas). Questi i capisaldi della nuova dottrina epicurea, tributaria dell’atomismo di Democrito e Leucippo, ma estranea tanto alla grande tradizione filosofica platonica e aristotelica quanto alla cultura popolare (vulgus abhorret ab hac): (1) i corpi (corpora) e il vuoto (inane) sono i due principi dell’universo; (2) gli atomi sono le particelle costitutive di tutto il reale; solidi ed eterni, essi garantiscono il duplice principio dell’increazione e dell’indistruttibilità della materia; (3) il clinamen, parola creata da Lucrezio e destinata a rimanere hapax, mai più usata nella classicità, è la “deviazione” infinitesimale (2, 292 exiguum) e indeterminata degli atomi dalla fissità della forza gravitazionale, che consente la creazione dei corpi e interrompe la necessità del fato; (4) l’isonomia (2, 569-580) è la legge fisica originaria ed eterna che, tenendo in equilibrio (aequum certamen) le forze di vita (motus genitales) e le forze di morte (motus exitiales), consente l’alternarsi di impulsi contrari e salvaguarda il cosmo dalla conflagrazione assoluta; (5) mondi infiniti, al di là del nostro mondo, coesistono nell’universo (2, 1074 sgg. necesse est confiteare / esse alios aliis terrarum in partibus orbis). In questi nuovi e infiniti mondi gli dèi non hanno un ruolo attivo ma sono semplici spettatori, e l’uomo non è più al centro ma è solo uno dei tanti momenti e frammenti di questo avvicendamento atomico.
Di qui la negazione della concezione antropocentrica, messa fuori gioco dalla centralità delle leggi di natura e dal primato della fisica che tutto omologa; di qui la voce ratio come parola base del poema (più di 150 occorrenze) nei diversi significati di “ragione”, “metodo”, “spiegazione”, “scuola filosofica”, “dottrina epicurea”; di qui l’elogio di Epicuro, paragonato a un dio (deus fuit ille, deus), il quale, dopo aver varcato “le mura fiammeggianti mura del mondo e percorso con la mente l’intero universo […] ha abbattuto la religione” (1, 72 sgg.), “ha posto la parola fine al desiderio e alla paura” (6, 25) e “ha cacciato dall’animo umano i mostri non con le armi (arma) ma con le parole” (dicta) (5, 54). Di qui l’esclusione degli dèi dall’origine e dal governo dell’universo (2, 180 sgg. “non per volere divino è stata per noi generata / la natura del mondo”) e l’annuncio di una nuova pietas, laica e razionalistica, alternativa alla vecchia religio (5, 1198-1203): “non v’è alcuna devozione nel mostrarsi spesso con il capo velato, / nel rivolgersi a una statua di pietra e visitare tutti i templi, / nel gettarsi prosternati in terra e nel tendere le palme / davanti ai templi degli dèi, nel cospargere le are / di molto sangue di animali, nel reiterare offerte votive: / devozione è piuttosto poter guardare tutto con mente serena” (pacata posse omnia mente tueri); di qui la rimozione del pensiero e della figura di Lucrezio a cominciare dai suoi contemporanei – una vera e propria “congiura del silenzio” – per aver propagandato a Roma idee rivoluzionarie e scandalose. Res novae appunto, come lui stesso le aveva definite, che andavano in collisione con quel mos maiorum che a Roma era il valore supremo.
La critica nelle sue direttrici fondamentali e vulgate ha privilegiato decisamente alcune componenti letterarie e concettuali del De rerum natura, polarizzandosi in valutazioni contrapposte: irrazionalismo e razionalismo, negativismo e positivismo, pessimismo e ottimismo.
Da un lato ha messo in risalto la personalità forte del poeta, analizzato in una prospettiva individualistica se non psicanalitica, compiacente con il topos del poeta solitario e angosciato e con la notizia geronimiana del suicidio filtrata attraverso il moderno esistenzialismo, e ha collocato Lucrezio nella galleria dei grandi poeti maledetti. Questo codice interpretativo è stato adottato da psichiatri (Logre, L’anxiété de Lucrèce), storici della letteratura (Perelli, Lucrezio poeta dell’angoscia), scrittori (Schwob, Les vies imaginaires). Questa stessa interpretazione suggestionerà in modo sorprendente autori quali Moravia (Antico furore) e ancor prima Carducci (sua la definizione di Leopardi quale “il Lucrezio del pensiero italiano”).
Opposta a questa lettura “romantica” – o meglio ad essa complementare, perché parimenti animata dalla preoccupazione idealistica di attualizzare il poema e di separare poesia e filosofia – si è affermata l’altra lettura ideologica che, muovendo dal pensiero forte del poema, attribuisce a Lucrezio un prioritario interesse sociale e un impegno politico volto a emancipare il popolo dall’alienazione politica e religiosa. Ne risulta un Lucrezio marxista ante litteram caro a un filone critico fortemente ideologizzato (Nizan, Les matérialistes de l’antiquité. Démocrite, Epicure, Lucrèce; Farrington, Scienza e politica nel mondo antico; Lavoro intellettuale e lavoro manuale nell’antica Grecia; Canali, Lucrezio poeta della ragione). In questo contesto gioverà anche ricordare il rilievo accordato a Lucrezio nell’ex URSS in occasione del presunto bimillenario della morte. In questo identikit di Lucrezio un ruolo l’avrà giocato anche la tesi di laurea di Marx sulla Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e di Epicuro.
Intenzionato a delineare un nuovo ordine, sia cosmico che morale, Lucrezio si affida a una nuova lingua e a un nuovo lessico (nova verba): una scelta alla quale lo obbligano la rivoluzionarietà del messaggio epicureo (novitas rerum) e la povertà della lingua latina (egestas linguae).
In effetti ciò che sorprende, e che va individuato e compreso, non è solo il logos ma anche il rhythmos del De rerum natura, vale a dire l’organicità e “la mostruosa regolarità” della scrittura lucreziana: dall’iterazione di suoni (allitterazioni, rime, omeoteleuti, paronomasie) a quella di parole (figure etimologiche, pleonasmi), di iuncturae, di emistichi, di versi, di intere sezioni, fino alla corrispondenza tra i proemi e i finali. Ne deriva una struttura non solo fonica ma anche visiva, perché Lucrezio rappresenta iconicamente ciò che dice; per cui del De rerum natura si potrebbe dire come della Commedia di Dante: “non è che una sola strofa, una struttura cristallina, un solido […], lo sviluppo per monosillabi del cristallo tematico […], poliedro di tredicimila facce, mostruoso nella sua regolarità […]: una collezione di minerali sarebbe un commento perfetto” (Mandel’stam).
Gli stessi autori classici, mentre rimuovevano la novitas ideologica, non poterono fare a meno di rilevare la novitas linguistica e stilistica del poema: provvisto di multa ars secondo Cicerone (Ad Quint. fr. 2, 9, 3), giudicato sublimis da Ovidio (Am. 1, 15, 22) e Frontone (Epist. ad M. Anton. p. 131, 14 v. den Hout), doctus da Stazio (Sil. 2, 7, 76), elegans e difficilis da Quintiliano (Inst. 10, 1, 87), definito éuphonos (“risonante”) e hadròs (“gagliardo”) da Marco Aurelio (testimoniato da Frontone, Epist. ad M. Anton. p.109, 16 v. den Hout). Decisivi per la comprensione di tale scrittura sono due passi del poema: 1, 820 sgg. namque eadem caelum mare terras flumina solem / constituunt, eadem fruges, arbusta, animantis (infatti “i medesimi atomi formano il cielo, il mare, le terre, i fiumi, il sole, / i medesimi atomi le messi, gli alberi, i viventi”) e 2, 2015 sgg. namque eadem caelum mare terras flumina solem / significant, eadem fruges arbusta animantis (“infatti le medesime lettere significano le parole cielo, mare, terre, fiumi, sole, / le medesime parole le messi, gli alberi, i viventi”). I due passi – nei quali si enuncia implicitamente ma indiscutibilmente il principio della corrispondenza tra formazione dei corpi e formazione delle parole – sono identici, se si eccettua la coppia antitetica constituunt / significant. Nel primo caso infatti si parla dei “principi fisici primi”, cioè gli atomi (i primordia, sinonimo poetico e metrico di elementa) che “formano” (constituunt) i corpi; nel secondo si parla di “principi primi grafici”, cioè “le lettere dell’alfabeto” che “significano” (significant), vale a dire “verbalizzano” quei corpi. Alla corrispondenza tra res e verba si aggiunge il principio della loro reversibilità. Infatti, riprendendo e perfezionando la teoria degli atomisti Leucippo e Democrito (vd Arist. Metaphys. 985b 13 ssg.), Lucrezio individua (2, 1021), come leggi regolatrici della struttura atomica, cinque fattori che sono anche parole tecniche della grammatica e retorica classica: concursus (sygkrousis o symploké, “incontro”, “combinazione”), motus (kìnesis, “movimento”, “flessione”), ordo (tàxis, “ordine”), positura (thésis, “posizione”), figura (schêma, “forma”).
Questi fattori, applicati agli atomi e alla struttura della materia, determinano la corresponsione e solidarietà tra gli elementa vocis e gli elementa mundi, per cui il poema si configura come una esecuzione grammaticale del cosmo. Come a dire che in principio era la grammatica.
In questa direzione andava anche la lettura lucreziana di Calvino: “per Lucrezio le lettere erano atomi in continuo movimento che con le loro permutazioni creavano le parole e i suoni più diversi; idea […] per cui i segreti del mondo erano contenuti nella combinatoria dei segni della scrittura […] La scrittura modello d’ogni processo di realtà”.
Se il mondo è scritto in caratteri grammaticali, ne consegue che esso è leggibile e che quindi contiene un messaggio “ordinato” e perciò rasserenante: tutto il contrario di quanto affermato da quella critica ossessionata dal fantasma di un Lucrezio contraddittorio, pessimista e disperato.
L’autore del De rerum natura tenta, ai margini della crisi del mondo antico, una sintesi nuova, costruendo una parola orientata in direzione razionale e positiva verso quella organizzazione del pensiero che corrisponde alla stessa organizzazione del reale; una parola dura e naturale come un minerale, una “struttura cristallina”.
Sostanzialmente censurato dai suoi, Lucrezio sarà contemporaneamente demonizzato (poeta insanissimus) e strumentalizzato dagli apologeti cristiani, in particolare Arnobio e Lattanzio, in funzione della loro polemica contro gli dèi falsi e bugiardi dei pagani. Dimenticato di nuovo nel Medioevo, per il quale non sarà più che un nome, e omesso anche da Dante, che pure parla nel X canto dell’Inferno di Epicuro e dei suoi seguaci, a mala pena nominato da Petrarca e Boccaccio, conoscerà una stagione di grande fortuna dopo la scoperta vicino a Costanza di un manoscritto, oggi perduto, da parte di Poggio Bracciolini (1418), e l’editio princeps del 1473. Come poeta, e non come filosofo, interesserà agli umanisti neoplatonici, in particolare lasciando sicure tracce in Pontano, Marullo, Poliziano, Giordano Bruno e quindi in Tasso, che col suo Mondo creato intendeva proporsi come il “Lucrezio cattolico” (Petrocchi).
Ma la vera stagione lucreziana sarà nel Seicento, Settecento e Ottocento: i secoli della scienza, dell’illuminismo e del positivismo, i quali non solo riscopriranno e troveranno particolarmente congeniale l’atomismo e il razionalismo lucreziano, ma ci consegneranno una moltitudine di traduzioni poetiche in endecasillabi del De rerum natura consone alla poetica e all’ideologia del tempo. Tra queste, oltre a quella parziale del Foscolo (1802-1803 per un totale di 289 versi), andranno ricordate la traduzione-rifacimento del matematico e fisico Alessandro Marchetti, ispirata al pensiero di Gassendi e alla esuberante poetica barocca (ben 10.324 versi rispetto agli oltre 7000 dell’originale); la traduzione di Giuliano Vanzolini, un volgarizzamento tutto tramato di parole e immagini dantesche ed eseguito “con fedeltà non servile, con severa eleganza” (Carducci); la traduzione-calco del positivista Mario Rapisardi, fedele nello spirito e nel dettato al verbo darwiniano.
Lucrezio
Epicuro salvatore dalla turpis religio
De rerum natura, Libro I, vv. 62-79
Mentre la vita umana giaceva sulla terra,
turpe spettacolo, oppressa dal grave peso della religione,
che mostrava il suo capo dalle regioni celesti con orribile
aspetto incombendo dall’alto sugli uomini,
per primo un uomo di Grecia ardì sollevare gli occhi
mortali a sfidarla, e per primo drizzarlesi contro:
non lo domarono le leggende degli dèi, né il fulmine né il minaccioso
brontolio del cielo; anzi tanto più ne stimolarono
il fiero valore dell’animo, che così volle
infrangere per primo e porte sbarrate dell’universo.
E dunque trionfò la vivida forza del suo animo
e si spinse lontano, oltre le mura fiammeggianti del mondo
e percorse con il cuore e la mente l’immenso universo,
da cui riporta a noi vittorioso quel che può nascere,
quel che non può, e infine per quale ragione ogni cosa
ha un potere definito e un termine profondamente connaturato.
Perciò a sua volta abbattuta sotto i piedi la religione
è calpestata, mentre la vittoria ci eguaglia al cielo.
Testo originale:
Humana ante oculos foede cum vita iaceret
in terris oppressa gravi sub religione
quae caput a caeli regionibus ostendebat
horribili super aspectu mortalibus instans,
primum Graius homo mortalis tendere contra
est oculos ausus primusque obsistere contra,
quem neque fama deum nec fulmina nec minitanti
murmure compressit caelum, sed eo magis acrem
irritat animi virtutem, effringere ut arta
naturae primis portarum claustra cupiret.
Ergo vivida vis animi pervicit, et extra
processit longe flammantia moenia mundi
atque omne immensum peragravit mente animoque,
unde refert nobis victor quid possit oriri,
quid nequeat, finita potestas denique cuique
quanam sit ratione atque alte terminus haerens.
Quare religio pedibus subiecta vicissim
obteritur, nos exaequat victoria caelo
Tito Lucrezio Caro, La natura delle cose, trad. it. di L. Canali, Milano, Rizzoli-Bur, 2000
Lucrezio
L’isonomia
De rerum natura, Libro II, vv. 569-580
Così i moti rovinosi non possono prevalere
per sempre e seppellire in eterno la possibilità di esistenza,
né i moti che generano e producono l’accrescersi delle cose
possono conservare in perpetuo ciò che hanno creato.
Si svolge così con incerta contesa di elementi
primordiali una guerra ingaggiata da tempo infinito.
In luoghi e in momenti diversi trionfano i germi vitali dei corpi,
e vicenda soccombono. Si mischiano pianti di morte
e vagiti levati da fanciulli che vedono le rive della luce;
una notte non segue a un giorno, né un’alba a una notte,
che non abbia ascoltato, confusi con tristi vagiti,
lamenti compagni di morte e di funebri esequie
Testo originale:
Nec superare queunt motus itaque exitiales
perpetuo neque in aeternum sepelire salutem,
nec porro rerum genitales auctificique
motus perpetuo possunt servare creata.
Sic aequo geritur certamine principiorum
ex infinito contractum tempore bellum.
Nunc hic nunc illic superant vitalia rerum
et superantur item. Miscetur funere vagor
quem pueri tollunt visentes luminis oras;
nec nox ulla diem neque noctem aurora secutast
quae non audierit mixtos vagitibus aegris
ploratus mortis comites et funeris atri.
Tito Lucrezio Caro, La natura delle cose, trad. it. L. Canali, Milano, Rizzoli-Bur, 2000