TORELLI, Ludovica
Nacque a Guastalla il 26 settembre 1499, primogenita e unica erede del conte Achille e di Veronica Pallavicino.
Dopo aver ricevuto un’educazione di stampo umanistico, nel 1516 fu concessa in sposa per volere del duca di Milano, Massimiliano Sforza – da cui dipendeva il piccolo feudo di Guastalla – al nobile cremonese Ludovico Stanghi, dal quale ebbe un figlio. Nel torno di quattro anni (1521-24), Ludovica fu colpita da una serie impressionante di lutti che la privarono del figlio, dei genitori e del marito. Rimasta sola, riuscì solo grazie all’appoggio del duca di Milano e di altre influenti amicizie milanesi a conservare la guida del feudo di Guastalla, senza cedere alle minacce dei parenti che la volevano estromettere dalla successione, attentando perfino alla sua vita. Risposatasi nel 1525 con il conte bresciano Antonio Martinengo, dopo la morte violenta di questi nel 1528, decise di abbandonare la vita di corte, imprimendo una svolta radicale alla propria esistenza.
A introdurre la giovane vedova a una vita di devozione fu la cugina Chiara Pallavicino, la quale le fece conoscere il domenicano fra Battista da Crema, già direttore spirituale di Gaetano da Thiene. Fra Battista instaurò sul finire degli anni '20 un profondo legame spirituale con la contessa, recandosi più volte a Guastalla e seguendola nei suoi spostamenti, non senza attirare su di sé i sospetti degli ambienti domenicani e della Curia romana per la sua condotta irrispettosa dei vincoli conventuali e per le sue teorie che sfioravano l’eresia. Il pensiero di fra Battista influenzò sia la Torelli sia il sacerdote cremonese Antonio Maria Zaccaria, dal 1530 cappellano e collaboratore di Ludovica.
Nel 1530, convertita a nuova vita, la contessa assunse il nome di Paola Maria e si trasferì a vivere stabilmente a Milano in una casa acquistata vicino S. Ambrogio per avviare un’opera di apostolato nella città. Con l’aiuto di Zaccaria, la Torelli stabilì il primo nucleo delle angeliche, accogliendo nella propria casa alcune fanciulle appartenenti alla congregazione dell’Eterna Sapienza.
In quegli anni si venne delineando un progetto unitario che univa sotto la denominazione di paolini tre diversi gruppi: i figlioli di San Paolo (o barnabiti), le figliole di San Paolo (o angeliche) e i maritati devoti di San Paolo (o coniugati), tutti accomunati dall’eredità spirituale di fra Battista e dalla vocazione a un apostolato attivo.
Nel 1535 la Torelli ottenne l’autorizzazione papale per l’erezione in porta Romana del monastero di S. Paolo sotto le regole di s. Agostino. Esentate dalla clausura, le angeliche non erano monache tradizionali ma «una congregazione femminile, creata essenzialmente per la vita attiva e, per di più, in stretta collaborazione con i ministeri ordinanti» (Michelini, 1983, p. 70). Accanto a una severa disciplina penitenziale interna, le angeliche praticarono all’esterno un apostolato d’urto a stretto contatto con i barnabiti, atto a coinvolgere – attraverso dure processioni e mortificazioni pubbliche – il popolo e le élites di Milano nel rinnovamento spirituale. Sebbene la Torelli avesse scritto delle Regolette per la congregazione, l’organizzazione interna rimase molto fluida, «caratterizzata da un rapido avvicendamento nelle cariche e da un’intensificazione dei momenti di deliberazione comuni aperti a tutti, professi e non» (Bonora, 1998, p. 208), in un regime capitolare a carattere fortemente democratico.
Tra gli anni ’30 e ’40 del Cinquecento, le angeliche della Torelli si dedicarono alla riforma dei monasteri femminili, all’assistenza negli ospedali e all’istituzione di luoghi pii per convertite sia a Milano sia in molti centri della Repubblica di Venezia, grazie alle frequenti 'missioni' venete della contessa, sostenute dalle sue accresciute disponibilità finanziarie dopo la vendita nel 1539 del proprio feudo di Guastalla a Ferrante Gonzaga. Sotto l’influsso della Torelli, le angeliche, pur non escludendo la dimensione contemplativa, incarnarono quell’ideale di religiosità attiva che costituì il trait d’union di molte esperienze coeve del rinnovamento cattolico, a cominciare dalle orsoline e dai nuovi ordini regolari maschili. Le angeliche furono inoltre aperte al laicato femminile, rendendo fluida la distinzione tra laiche e religiose: la stessa Torelli non assunse mai l’abito religioso, mantenendo quello vedovile, scelta condivisa da altre donne che gravitavano attorno al monastero, «acciò potessero disponer delle loro facoltà liberamente […] che non avrebbero potuto usare sotto il legame della religione» (Roma, Archivio generalizio dei Barnabiti, L.c.7, c. 53).
A porre fine a questa stagione fu il bando del 1551 di espulsione di barnabiti e angeliche dai territori veneti. La decisione delle autorità della Serenissima fu dettata non solo dalla diffidenza verso l’eccessivo coinvolgimento del patriziato locale in congregazioni sospette a Roma, ma soprattutto dal timore politico che queste congregazioni costituissero la longa manus degli spagnoli, dati i legami della Torelli con le massime cariche del governo spagnolo. Anche le autorità romane aprirono un processo contro i paolini, conclusosi nel 1552 con la condanna della dottrina di Battista da Crema, la separazione di barnabiti e angeliche e l’imposizione della clausura a queste ultime. I provvedimenti crearono profonde spaccature all’interno del gruppo: i barnabiti riformati pretesero di vincolare la Torelli (e le sue entrate) al monastero claustrale, considerando come professione solenne la promessa religiosa emessa anni prima nelle mani di Paola Antonia Negri, sebbene la Torelli avesse dichiarato di averlo fatto con «ferma intentione de non mai esser monica né obligata ad alchuna religione ma così de mia simplicità et voluntà de servire a Dio in l’habito mio seculare» (Toffolo, 2012, p. 442). Nonostante la professione venisse riconosciuta dal delegato apostolico come simplicia vota, la Torelli il 15 dicembre 1554 decise di fuggire per sempre dal monastero di S. Paolo.
Tra il 1554 e il 1557 la sua vita fu segnata da «una fase di forte riprogettazione della sua esperienza religiosa» (p. 444) che ebbe come esito la fondazione del collegio della Beata Maria Vergine o della Guastalla, inaugurato il 1° novembre 1557 negli edifici vicino la chiesa di S. Barnaba. Fatto tesoro delle passate esperienze, la Torelli non volle fondare un monastero sotto la giurisdizione ecclesiastica ma un collegio femminile laico (pium et seculare collegium) sotto la protezione del re Filippo II – ottenuta nel 1559 –, del governatore e del Senato di Milano. L’organizzazione interna dell’istituto, definita dalla Torelli nel 1565 e poi nei Codicilli del 1569, si basava su due piani. Da una parte, vi erano alcune fanciulle «milanesi, nobili, ben educate, ma povere», le quali, insieme ad altre dozzinanti paganti, venivano educate gratuitamente nell’istituto dai dieci fino ai ventidue anni per scegliere poi liberamente se maritarsi, monacarsi o rimanere a vita nell’istituto. Dall’altra, vi era una congregazione semireligiosa di donne vedove o nubili – le governatrici – le quali, prive di voti solenni e clausura, professavano un voto semplice di castità e di stabilimento a vita nel collegio con l’intento di dedicarsi al governo e all’istruzione delle fanciulle e, allo stesso tempo, a una vita religiosa, perfezionandosi attraverso pratiche spirituali ed educative. Così facendo, la Torelli ripropose di fatto il modello di vita religiosa attiva sperimentato con le angeliche, sebbene l’apostolato delle governatrici – in linea con la spiritualità postridentina – fosse prettamente educativo.
Morì a Milano il 28 ottobre 1569 e fu sepolta nella chiesa di S. Fedele.
Nei Codicilli dell’ottobre 1569, scritti poco prima della morte, la Torelli affidò la guida spirituale dell’istituto alla Compagnia di Gesù di Milano, a cui si era avvicinata negli ultimi anni di vita. Sostenitore delle sue ultime volontà fu Carlo Borromeo, il quale, dopo un colloquio personale con Ludovica, scrisse al generale dei gesuiti, Francesco Borgia, per convincerlo ad assumere la guida spirituale dell’istituto. Nonostante Borgia – su consiglio di Pedro de Ribadeneira – avesse concesso solo la cura spirituale straordinaria del collegio, le guastalline, al pari delle altre laiche, si recarono quotidianamente nella chiesa di S. Fedele, venendo stabilmente guidate dai gesuiti. L’esempio del laicale collegio della Guastalla trovò larga eco nell’Italia postridentina nell’esperienza di altre congregazioni semireligiose femminili, chiamate anche gesuitesse.
Roma, Archivio generalizio dei Barnabiti, L.c.7: P.A. Sfondrati, Historia delle Angeliche di San Paolo (1584-85; copia del 1748); Archivum Historicum Societatis Iesu, Ital. 68, cc. 52v-54v; lettere e testamenti della Torelli sono conservati in Monza, Archivio storico del collegio della Guastalla, in partic. Origine, prerogative, dotazioni, b. 1. P. Morigia, Conversione, vita essemplare, e beato fine dell’ill. Lodovica Torella contessa di Guastalla, fondatrice del monasterio delle monache di S. Paolo, Bergamo, Comin Ventura, 1592; C.G. Rosignoli, Vita e virtù della contessa di Guastalla Lodovica Torella…, Milano 1686; Raccolta di notizie e documenti sulla fondazione, sul patrimonio e sviluppo e sulle riforme del R. Collegio della Guastalla in Milano, Milano 1881; O. Premoli, Storia dei Barnabiti nel Cinquecento, Roma 1913, ad ind.; V. Michelini, I Barnabiti: chierici regolari di S. Paolo alle radici della congregazione, 1533-1983, Milano 1983, passim; A. Zagni, La contessa di Guastalla, Reggiolo 1987; E. Bonora, I conflitti della Controriforma, Firenze 1998, ad ind.; R. Baernstein, A convent tale: a century of sisterhood in Spanish Milan, New York-London 2002, ad ind.; A. Toffolo, «Servire a Dio in l’habito mio seculare»: L. T. e l’esperienza religiosa dei primi barnabiti, in Rivista di storia della Chiesa in Italia, 2012, n. 2, pp. 431-465.