MURATORI, Ludovico Antonio
– Nacque a Vignola (Modena) il 21 ottobre 1672, da Francesco Antonio e da Giovanna Altimanni.
Il padre, artigiano di qualche benessere, lo mandò a Modena nel 1685 presso i gesuiti per avviarlo alla professione forense. Nel 1688 ricevette gli ordini minori e l’anno successivo si iscrisse all’università, discutendo nel 1692 le tesi di filosofia; nel 1694 fu diacono e si laureò inutroque iure con il giurisdizionalista Gerolamo Ponziani ma presto abbandonò la professione. Fin dal 1691 aveva fatto il precettore ad Antonio Vecchi ed era entrato nelle ‘conversazioni’ modenesi.
Presso il marchese Giovanni Rangoni conobbe il letterato bolognese Giuseppe Orsi, del quale condivise la polemica con il gesuita Dominique Bouhours e scrisse la Vita (1735). Partecipò alle riunioni organizzate al monastero benedettino di S. Pietro dall’abate Benedetto Bacchini, che lo guidò nell’erudizione ecclesiastica, insegnandoli il valore della diplomatica di Jean Mabillon e degli Acta sanctorum; editore del Giornale dei letterati, lo mise in contatto con intellettuali italiani e stranieri e gli svelò il gusto dell’enciclopedismo scientifico, scandito da Cartesio e Leibniz, Marcello Malpighi e Galileo Galilei, del quale forte era la tradizione in Emilia. La dissertazione De barometridepressione (1694) ne fu un’espressione giovanile; Muratori si interessò poi alla biologia e all’elettricità. Nell’apprendistato con Bacchini, la vocazione religiosa prese forma agostiniana e giansenista. Condivise l’idea di Blaise Pascal di combattere i nemici del cristianesimo non sul loro piano – come volevano i gesuiti – ma tornando alla tradizione evangelica e della Chiesa primitiva: la dissertazione De primis Christianorum ecclesiis (1694), dedicata ad Antonio Felice Marsigli, che aveva progettato un’accademia di fisica e di storia ecclesiastica, fu rivolta, come disse nella dedica, contro gli eretici e gli «impietatis fautores».
Già noto a Giberto Borromeo – cui aveva dedicato il De graecae linguae usu et praestantia (1693, ma pubblicato postumo in Opere, 1771, XII), dove invocava il ritorno allo studio del greco – su segnalazione ai Borromeo da parte degli amici Orsi e Antonio Felice Marsigli, fu chiamato a Milano come bibliotecario dell’Ambrosiana. Vi arrivò il 1° febbraio 1695 e vi approfondì gli studi sulla prima età cristiana e sulla storia milanese anteriore al secolo XI anche per consiglio di Alessandro Cacciatore, erudito agostiniano scalzo e consultore del S. Uffizio.
In entrambi gli ambiti Muratori combatté le credenze false. Aveva acquisito la convinzione dei maurini che la superstizione fosse estranea al cristianesimo. Il libertinismo erudito si capovolse in fideismo erudito. Nel 1697 pubblicò il primo di quattro volumi di Anecdota latina (Padova), cui ne aggiunse uno in greco. Vi apparve l’edizione di quattro poëmata inediti di s. Paolino da Nola, che giudicò poi insoddisfacente: ma ebbe sempre il gusto, se non l’ansia dell’inedito. Nel 1698 pubblicò i Notula oleorum (Milano) inviati da Gregorio Magno a Teodolinda – un papiro visto da Mabillon nel 1685 –, e la dissertazione Disquisitio de reliquiis, in cui affrontò il tema delle reliquie e del culto loro, trattato da Mabillon nel De cultu sanctorum ignotorum, pure del 1698, forse letto da Muratori manoscritto. Muratori esitava a ridurre il numero dei martiri, ma deprecava siffatte venerazioni popolari. Analogo l’atteggiamento nel Commentario sulla Corona ferrea (in Anecdota latina, cit., II, 1698), che si diceva contenesse uno dei chiodi della santa Croce. Ridicolizzò infatti la leggenda e dimostrò che la corona era stata cinta da Ottone III, che erano stati i sovrani franchi a valersi di tale diritto e che l’invenzione del chiodo sacro risaliva al XVI secolo. Fu un magistrale esempio di applicazione del metodo maurino. L’arrivo di Bernard de Montfaucon a Milano nel luglio 1699 suggellò questo legame. Dieci anni dopo, confutò la replica di Giusto Fontanini nell’Epistola ad Menckenium in Dissertationem fontaninianam.
La critica alla superstizione lo spinse a indagare cosa fosse la religione. Evitò di discutere la critica spinoziana e lockiana alla fede, che per lui era mezzo sicuro di conoscenza. La sua teodicea si basava sull’accettazione delle cause finali. Contro il materialismo, seguì Nicolas Malebranche. Se le idee di David Hume sui miracoli e le credenze gli furono estranee, tuttavia era entrato nell’area della crisi della coscienza europea. Per lui, da un lato si collocavano la filosofia postcartesiana, il materialismo di Thomas Hobbes, l’empirismo inglese, la critica storica protestante e il radical Enlightenment di Baruch Spinoza, tutti esiti che condannò sempre come scetticismo. Dall’altro lato stava la decadenza italiana. Muratori collegò i due lati. Per uscire dalla decadenza l’Italia doveva guardare alle nuove prospettive europee, ma nella storia culturale italiana c’erano aspetti che potevano correggere quella cultura. In primo luogo, la tradizione della Chiesa. L’«età muratoriana» (Rosa, 1969) fu dunque una delle vie di uscita dalla crisi della coscienza europea, che non condusse all’Illuminismo, ma permise un ampio confronto tra le esigenze di rinnovamento del mondo cristiano.
A Milano Muratori strinse relazioni con molti ambienti. Frequentò le accademie e ne fondò una di erudizione ecclesiastica, di breve vita. Conobbe e ammirò Carlo Maria Maggi. Discusse anche con lui delle critiche del gesuita Bouhours alla letteratura italiana e della Querelle des anciens et des modernes. Rifiutò il barocchismo, senza rigettare la tradizione poetica che si era imposta in Italia, sicché nella sua adesione all’Arcadia (col nome di Leucoto Gateate) cercò di liberarsi del marinismo e di non aderire toto corde al razionalismo. Alla morte dell’amico (1700), si procurò l’edizione delle Rime varie sacre, morali, eroiche e la Vita di Carlo Maria Maggi.
Dopo aver trovato a Milano condizioni di lavoro ideali e il prestigio dello status di ‘letterato’, gli rincrebbe l’invito del duca Rinaldo I di rientrare a Modena per divenirvi bibliotecario. Ubbidì al suo sovrano «naturale» (Lettera a Porcìa, in Opere, 1964, p. 20), ma negoziò le condizioni del ritorno. Ottenuti sei mesi di proroga, fu a Modena nell’agosto 1700, per non allontanarsene più, salvo che in occasioni sporadiche. Senza divenire un cortigiano, fu l’intellettuale di fiducia del suo principe. Il Ducato godeva di una sovranità mediata, che gli garantiva autonomia nel sistema imperiale. Fedeltà al duca significò per Muratori fedeltà all’Impero e partecipazione alla legittimazione e gestione del potere. In questa condizione maturarono il ghibellinismo e il suo sentimento di identità italiana, che ebbe valore culturale e ideologico (o religioso). Il breve scritto Il principe (in Scritti autobiografici, a cura di T. Sorbelli, Vignola 1950, pp. 129-135), ispirato da Rinaldo I, mostra che il rapporto con il duca fu il ressort della riflessione politica di Muratori, avverso alla ragion di Stato (Salvatorelli, 1935) e ispirato a un assolutismo che trovò formulazione nel Codice carolino (1726, in Donati, 1935) e nella Pubblica felicità (s.l. s.d. [ma Modena 1749]). La critica alla ragion di Stato fu svolta in nome dei diritti naturali individuali e a questo giusnaturalismo cattolicamente ortodosso Muratori si tenne sempre fedele (Garin, 1966, p. 906), ravvisandovi i rapporti di mutua fiducia tra sudditi e potere e la capacità dello Stato di fare opera di civiltà.
Come bibliotecario e archivista ducale, prese il posto di Bacchini. Il duca d’Este aveva deciso di riordinare l’archivio di famiglia e di Stato su sollecitazione della casata di Brunswick, che aveva chiesto nel 1685 a Leibniz una completa ricostruzione genealogica. Ma scoppiata la guerra di successione spagnola, Modena fu occupata dai francesi (1702-07), il duca andò in esilio, l’archivio fu spostato e a Muratori rimasto a Modena mancarono «parecchi libri, spettanti all’erudizione sacra, né quello era il tempo da tali spese: perciò non sapendo io stare colle mani alla cintola presi a trattare della Perfetta poesia italiana» (Opere, 1964, p. 21). Apparvero i Primi disegni della repubblica letteraria d’Italia (Napoli 1703), La perfetta poesia italiana spiegata e dimostrata con varie osservazioni e con vari giudizi sopra alcuni componimenti altrui (1706), le Riflessioni sopra il buon gusto intorno le scienze e le arti (Venezia 1708 - Napoli 1715), la Vita di Francesco de Lemene, stampata tra le Vite degli Arcadi illustri (Roma 1708). Ribadì la sua posizione sulla polemica Bouhours-Orsi nella Lettera in difesa di Lucano al marchese Orsi (1707) e fu editore de Le rime di Petrarca riscontrate coi testi a penna della libreria Estense e coi frammenti dell’originale di esso poeta (Modena 1711).
I Primi disegni apparvero con lo pseudonimo di Lamindo Pritaneo, anagramma di Antonio Lampridio (pseudonimo utilizzato anche quando non lo mascherò più). Muratori, che presentò poi questo progetto come un divertissement, guardava all’accademia come modello di vita culturale. Le molte accademie italiane erano guaste dal cattivo gusto barocco, sintomo e effetto della decadenza, non provocata da guerre civili e invasioni, ma «l’ozio solo per avventura fu quel mostro, che a poco a poco avvelenò le menti e le distolse dal faticoso cammino della virtù» (Opere, 1964, p. 180). Questo «sonno primiero» era infine cessato e si poteva accelerare il moto che conducesse al «primo splendore» e «alla gloria della nostra Italia» (ibid., p. 181). Muratori proponeva una sorta di meta-accademia, che avrebbe perfezionato «le arti e scienze col mostrarne, correggerne gli abusi e coll’insegnarne l’uso vero» (ibid., p. 181). Ma troppo disuguale era il livello delle istituzioni italiane e ripiegò su un’altra soluzione, «una lega di tutti i più riguardevoli letterati d’Italia, di qualunque condizione e grado e professori di qual si voglia arte liberale o scienza, il cui oggetto fosse la riformazione e l’accrescimento d’esse arti e scienze per benefizio della cattolica religione, per gloria d’Italia, per profitto pubblico e privato» (ibid., p. 182). I compiti consistevano nello studio delle lingue classiche, compresa l’ebraica; dell’italiano, da usarsi nella comunicazione scientifica; della filosofia naturale, dove era necessaria una severa «purgazione» (ibid., p. 187) delle scuole filosofiche logiche e metafisiche, a vantaggio della «filosofia che appelliamo sperimentale» (ibid., p. 188); delle scienze, specie della medicina e delle matematiche pratiche. C’era bisogno nella filosofia di una innovativa capacità di analisi (Muratori ammirava il moralismo francese), e nella giurisprudenza di «legisti» capaci di emendare i «mille difetti» (ibid., p. 189) che la sana dottrina incontrava nella pratica. Questa «repubblica letteraria» (ibid., p. 181) stava tra la settecentesca république des lettres e l’erasmiana literaria respublica. Della prima prefigurava l’esigenza di comunicare con un pubblico che si sapeva numeroso. Della seconda ereditava il senso cristiano dell’humanitas. La respublica di Muratori inclinava quindi più verso una dimensione confessionale, che verso l’idea illuminista di opinione pubblica. Di rincalzo, pubblicò una serie di lettere fittizie, che provocarono polemiche. Del resto, non vi fu quasi opera di Muratori che non avesse causa o effetto polemici. In una lettera del 1703 immaginò i suggerimenti di Clemente XI a lui (tra i quali, quello di «una gran raccolta di storici dei tempi di mezzo» [ibid., p. 201] e di manoscritti inediti: è il primo riferimento ai Rerum Italicarum Scriptores [= RIS]); in un’altra indirizzata a Scipione Maffei, ma che circolò, scrisse che Francesco Bianchini era stato invitato a essere «depositario» (Muratori, 1901, II, epist. n. 675, p. 739) della nuova accademia. Bianchini bocciò risentito l’iniziativa, di cui era all’oscuro, come nazionalista. Postuma fu pubblicata la Lettera esortatoria ai capi, maestri ed altri ministri degli ordini religiosi d’Italia, ispirata dal Traité des études monastiques di Mabillon. «Letteratura e pietà» (Opere, 1964, p. 202) erano i due compiti della vita monastica. Muratori proponeva un metodo di apprendimento, che fosse quello della «critica e del suddetto universale buon gusto» (ibid., p. 217) ed esigeva di leggere criticamente i filosofi, non sterilizzarsi sulla teologia scolastica, articolare gli studi in retorica, filosofia, teologia dogmatica e morale.
Il Della perfetta poesia italiana apparve a Modena nel 1706. Per cogliere la verità della poesia Muratori propose non esempi ma «difetti» da evitare (I, 2); insofferente per il gretto purismo e attento alla lingua come fenomeno dinamico, polemizzava contro la rigidità del classicismo arcade e contro i trattati rinascimentali e del marinismo. Nell’arte risplende un aspetto della verità del mondo (I, 5), dal quale deriva una nuova percezione della realtà (I, 6), che il poeta deve «perfezionare» (I, 8), e le azioni umane vi hanno così senso universale (I, 8-12). Contro il razionalismo cartesiano e la tesi del rispecchiamento, trovò la radice della poesia nell’espressione di uno stato d’animo da parte del «furore poetico», secondo l’espressione largamente usata. Il libro II studia l’ingegno e il giudizio. Vi prevale il compromesso arcadico. L’ingegno produce le metafore e la poesia; il giudizio circoscrive il bello e produce la prosa. Il III libro analizza l’arte non come diletto, ma come utile (III, 7 e 1) e come «soggetta alla politica, come parte o ministra della filosofia de’ costumi» (III, 1; Opere, 1964, p. 149).
Le Riflessioni sopra il buon gusto nelle scienze e nelle arti, di cui la prima parte apparve a Venezia nel 1708, la seconda a Napoli nel 1715 rappresentano la sintesi del pensiero di Muratori. Attraverso la mediazione tra ragione e esperienza definisce il metodo per discernere il vero dal falso (I, 7) e per arrivare al «solo universale buon gusto» e alla logica del «bene pensare». «Chi possiede questa e ci aggiunge ancora la metafisica sa penetrare dentro le cose … e sa difendere il vero, siccome ancora sa schivare le apparenze del vero, gli equivoci e insieme le ragioni del falso» (Opere, 1964, pp. 243 s.). Si muove nella logica di Port-Royal del vero-verosimile-falso-probabile (ma si tiene lontano dalla teoria lockiana del probabile e dal suo rifiuto della sostanza metafisica in nome della teoria della funzione) e presenta una nuova teoria della storia, nella quale grande rilievo hanno le scienze ausiliarie, sicché erudizione e storia sembrano farsi più vicine, come si sarebbe visto nelle opere storiche. Articola lo spirito in intelletto, memoria e volontà. Mostra le loro potenzialità e gli ostacoli che si frappongono al raggiungimento del vero creando il pregiudizio, che è una categoria cui Muratori attribuisce grande importanza, ma che analizza in maniera poco originale (I, 5). Tra i pregiudizi, ci sono le superstizioni, le imposture (anche in buona fede), la magia, le false credenze. La ragione deve controllare tali facoltà, senza cedere né alla tradizione, né alla critica (I, 6).
Con questi strumenti Muratori analizzò il fatto religioso. Ne espose, più che la natura, i modi di una fruizione moderata e ne tracciò la storia, aggirando il problema dell’esegesi biblica, nel De ingeniorum moderatione in religionis negotio (pensato nel 1707, ma apparso a Parigi nel 1714, con interpolazioni poi sconfessate da Muratori), in cui la confutazione delle critiche di Jean le Clerc ad Agostino è relegata al III libro, mentre i primi due definiscono la fede in equilibrio con la ragione.
Contro i sociniani Muratori afferma che la tradizione è costitutiva della fede perché la rivelazione è necessaria per corroborare verità che la ragione non può dimostrare (I, 7-11). L’equilibrio tra ragione e fede si riflette in quello tra la storia ecclesiastica (con reliquie, miracoli, santi) e la verità della tradizione. Il libro II sviluppa il tema del libero esame, legittimo nelle materie profane, pericoloso in quelle sacre.
Fu questione dove Muratori oscillò. Qui accettò la necessità della confutazione, condanna e correzione dell’eresia, ma ne propose un’interpretazione ristretta; 30 anni dopo, negli Annali d’Italia, lodò Luigi XIV per la revoca dell’editto di Nantes. Condannò con forza le superstizioni e tra queste indicava il voto sanguinario, che lo trascinò in polemiche assai accese per il resto della vita: non negava il dogma dell’Immacolata Concezione, ma il voto di difenderlo con il sangue. Sostenne (VI, 2) che molti culti pseudoreligiosi sorgevano al di fuori d’ogni tradizione e perciò non potevano pretendere un riconoscimento. Ebbe in Sicilia i primi oppositori, con il gesuita Francesco Burgi (1729); poi il fronte si allargò e comprese il gesuita Francesco Antonio Zaccaria, il cui astio per lui fu inestinguibile. Muratori replicò con fermezza nel De superstitione vitanda (Milano-Venezia 1740), dove ribadì il bisogno di controllare la spontaneità delle credenze, e nelle successive Epistolae (1743), apparse con lo pseudonimo di Ferdinando Valdesio.
Nel 1708 esplose la polemica su Ferrara, che fin dal suo incameramento romano nel 1598 aveva contrapposto il papato agli Este e all’Impero. L’imperatore Giuseppe I occupò Comacchio appena Modena fu abbandonata dai francesi. Il papa affidò la condanna dell’azione a Giusto Fontanini, che pubblicò la Letterasu Il dominio temporale della Sede apostolica sopra la città di Comacchio per lo spazio continuato di dieci secoli (1708). Muratori rispose nello stesso anno con le Osservazioni sulla lettera e nel 1712 con la straordinaria Piena esposizione dei diritti imperiali ed estensi in proposito delle controversie di Comacchio. L’erudito era divenuto storico medievista. Importante per Muratori fu la collaborazione con Leibniz (Bertelli, 1960, pp. 174-258, 483-505), che aveva arricchito la filologia diplomatica della capacità giuridica e storica di interrogare i documenti, e aveva collegato storia sacra e profana. La Piena esposizione ricostruì un millennio di storia con padronanza delle questioni politiche, sociali e ideologiche della storia medievale. Tale autentico «lavoro di critica storica» (ibid., p. 161) diede voce al suo giurisdizionalismo, che però si restrinse al problema politico, senza investire il campo religioso, come invece fecero Alberto Radicati e Pietro Giannone nel Triregno. L’idea che la pubblica felicità fosse compatibile con la Chiesa e con il potere assoluto del sovrano – l’ideale politico muratoriano – nacque in tale polemica.
Muratori, non lontano dalle tesi dell’Histoire de l’origine et du progrès des revenus ecclésiastiques di Richard Simon (ibid., p. 143), dimostrò che mai l’Impero aveva rinunciato alla propria sovranità sui territori della Chiesa, che Comacchio fu sempre feudo imperiale, che l’investitura di tale feudo era stata data agli Estensi dall’imperatore e che la ricerca di ricchezze e potere era stata la causa del declino del papato e del contrasto rovinoso con l’Impero. La sua ricostruzione del Medioevo confermava l’indipendenza del potere politico dal papato. Il giurisdizionalismo si opponeva al potere spirituale pontificio e alla sua pretesa di indirizzare la vita politica degli stati. Il papa era eguale agli altri sovrani nella sfera politica e il suo potere spirituale non vincolava quelli temporali. Muratori si chiedeva quale fossero le autonome funzioni di civiltà dello Stato e della Chiesa. Il diritto del principe non veniva immediate da Dio, come Paolo Sarpi aveva sostenuto contro Roberto Bellarmino, perché adesso la tradizione anticuriale poggiava sul diritto naturale di Ugo Grozio e Samuel Pufendorf. Nella fondazione dello Stato i bisogni dei cittadini, l’idea del contratto tra costoro e il sovrano avevano un ruolo basilare.
Il conflitto terminò nel 1725, quando l’imperatore rinunciò alle valli per il riconoscimento papale della prammatica sanzione. Fu una sconfitta grave per Muratori, accusato di eresia da Fontanini nella Risposta a varie scritture contro la Santa Sedein proposito di Comacchio (Roma 1720).
A questi anni risalgono le Antichità estensi. A Fontanini, che aveva affermato che gli Este non erano che una nobile famiglia patavina, Muratori rispose ricostruendone la genealogia. Sapeva che «fra i romanzi e le genealogie non passava gran divario, pochi essendo coloro che si facessero scrupolo di aggiungere di suo capo ciò che mancava» (Opere, 1964, p. 27). Ma «non mi sentiva già io di servir così male alla vera nobiltà del mio principe e né pure alla riputazion mia» (ibid.). A guidarlo anche qui fu Leibniz. Il loro lavoro procedette d’accordo (Leibniz propose di scrivere insieme le Vindiciae estenses), sebbene a Muratori pesassero l’impegno suo per la polemica di Comacchio e la ponderatezza del tedesco. Tra il 1714 e il 1716 compì indagini archivistiche nel centro Italia formidabili per ideazione e risultati. Nel 1715 spedì a Leibniz, impegnato negli Annales brunswicienses, la prima parte delle Antichità, che apparve a Modena, nel 1717, nella stamperia ducale, nonostante il parere contrario del filosofo. Il secondo volume seguì nel 1740. Esibire le «pruove» rimuovendo ogni fonte non verificabile e risalire nel tempo fin dove fosse possibile poggiare sulla certezza e sul «vero» fu il metodo esposto nella Prefazione (p. XIX).
Tale volume delle Antichità estensi fu il primo, grande lavoro da medievista di Muratori, che integrò la lezione diplomatica dei gesuiti e dei maurini, quella oratoriana di Malebranche e Simon e quella storico-giuridica di Leibniz in una visione storica originale (Bertelli, 1960, 251). Aveva dimostrato che all’origine della nobiltà europea e italiana stavano i barbari germani e non i romani, e aveva avviato su salde basi la nuova considerazione del Medioevo, aprendo nuove prospettive alla storiografia europea.
Il punto di partenza è dato da Alberto Azzo II, longobardo: questi nell’XI secolo governava il feudo d’Este e sposò dapprima Cunegonda – da cui nacque Guelfo IV, poi duca di Baviera e fondatore della dinastia di Hannover Brunswick – e quindi, in seconde nozze, Garisenda del Maine, il cui figlio Folco ebbe il feudo paterno e fu all’origine della linea italiana. La ricostruzione risale fino a Adalberto I di Toscana, che costituisce il limite della certezza. A partire dal XXVI capitolo il discorso ritorna su Azzo II e i suoi discendenti, il matrimonio di Guelfo V con Matilde di Canossa, le lotte tra guelfi e ghibellini, i rapporti con Federico Barbarossa di Obizzo I, al quale si dovette la fondazione (1188) del dominio estense a Ferrara. Il secondo volume inizia dal 1215 con Azzo VII, confuta la pretesa interruzione del dominio estense su Ferrara con Alfonso I e giunge a Rinaldo I.
Nel 1712 Muratori vide una missione nei pressi di Modena tenuta da Paolo Segneri juniore, nipote del gesuita omonimo. Ne fu sconcertato. Con sincerità gli scrisse che non era d’accordo con quella predicazione basata su superstizioni e fanatismo, da lui criticati nel De moderatione (non ancora pubblicato, ma già redatto). Tuttavia, fu tanto impressionato da chiedere al gesuita di ripetere quelle missioni a Modena. L’anno successivo Segneri morì e nel 1719 Muratori pubblicò la Vita del padre Segneri juniore (Modena, 2a ed. 1720) e nel 1720 gli Esercizi spirituali (Modena).
Nel confronto incrociato tra sé e il gesuita ammise di non avere la vocazione ascetica; di non sentire il desiderio di morire; di non sapere rinunciare agli studi e dunque alla vita; di non aver provato il bisogno di predicazione. Nelle missioni del Segneri Muratori volle spezzare la trasposizione della pratica individuale degli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola in rito pubblico fanatico, perché vedeva la positività della prima distorta nella violenza del secondo. Gli Esercizi lo avevano affascinato. Vi scorse come unire il sentimento individuale della preghiera alla partecipazione alle strutture liturgiche, in primo luogo alla messa, e alla volontà di sentirsi parte della comunità cattolica. Era il problema del controllo della fantasia discusso nelle Riflessioni sopra ilbuon gusto (Venezia 1708).
Subito, nel luglio 1712, pensò di farsi parroco. Nel 1716 divenne proposto di S. Maria della Pomposa, in una zona modesta di Modena, fino al 1733, quando vi rinunciò per l’eccesso di impegni. Fu una scelta coerente con la sua visione della Chiesa, che al mondo monastico contrapponeva il parrocchialismo. La ribadì nella Vita dell’umile servo di Dio Benedetto Giacobini, proposto di Varallo (Padova 1747).
Di salute debole, nel 1719 ebbe una crisi, a suo dire quasi mortale, che giudicò provocata dagli effluvi causati nella chiesa dai lavori di restauro. Applicò a sé la (erronea) teoria medica che aveva sostenuto contro Antonio Vallisneri per spiegare l’insorgere delle epidemie nel Governo della peste (Modena 1714), un libro che ebbe grande successo. L’errata convinzione scientifica vi si univa a un’attenta analisi delle norme da seguirsi in caso di epidemie.
L’attività pastorale lo condusse sia a creare istituzioni di carità, come la Compagnia della carità, istituita nel 1721, sia a riflettere sulla carità nella vita cristiana. Il Della carità (Modena 1723) fu pensato sulla base dell’esperienza delle missioni gesuitiche e di quella sua parrocchiale. La carità, necessaria per la salvezza, andava fatta per aiutare non la Chiesa ma i bisognosi, e per migliorare le strutture civili. La povertà da allora diventò una costante del pensiero sociale e politico di Muratori e fu per lui uno degli assi su cui il buon governo e la ben regolata devozione potevano incontrarsi per costruire una società equa. I poveri non furono più l’area in cui riconquistare al cattolicesimo popolazioni rurali e urbane che vivevano di e nella superstizione, ma erano individui cui si doveva dare non l’elemosina, ma lavoro. La sua riflessione sulla povertà e sul rapporto tra religiosità popolare e ortodossa affrontò ora sub specie religionis il problema politico del rapporto tra le élites e le ideologie dominanti e il popolo e poi, negli anni Quaranta, prese un più forte accento politico.
Tra il 1717 (Antichità estensi, I) e il 1723 (Della carità), Muratori preparò i Rerum Italicarum Scriptores. L’idea aveva circolato a fine Seicento in Europa e Italia. Apostolo Zeno ne aveva parlato tra il 1699 e il 1701 a Muratori, che l’aveva appoggiata e ricordata nella lettera fittizia di Clemente XI e nel Buon gusto (II, 13). Quando a Zeno per ragioni di salute e per essere a Vienna parve impossibile realizzare il piano, Muratori lo riprese. Intanto, a cura di Johann Georg Graeve e poi di Pieter Burman, l’editore Peter van der Aa aveva iniziato il Thesaurus antiquitatum et historiarum Italiae, dove i testi, anche se in origine in volgare, erano dati in latino (ma già Leibniz aveva chiesto di rispettare la lingua della fonte). Van der Aa scrisse a Muratori il 28 febbraio 1720 per chiedergli di partecipare al Thesaurus. In poche settimane Muratori prese la decisione di compir lui tale «grandiosa» impresa, con la quale «far onore non solo alla patria mia, ma a tutte ancora, se potessi, l’altre città d’Italia» (Opere, 1964, p. 30). L’ispirazione era, come sempre, far uscire l’Italia dalla «diuturna negligenza o infingardaggine» (ibid., p. 489). Il 25 aprile rispose all’olandese in tal senso e il 12 maggio si accinse al lavoro. Il 6 novembre 1721 arrivarono i primi testi a Milano, dove i RIS furono stampati presso la Società Palatina, costituita da Filippo Argelati con il sostegno del patriziato lombardo.
Nel 1723 apparvero i primi due dei progettati quattro volumi che divennero 28. L’opera, completata nel 1738, fu pensata come un work in progress: nella prefazione Muratori avvertì che «molti testi ancora si nascondono nelle biblioteche, in case private» (ibid., p. 517). Pubblicò 116 fonti già edite e oltre 2000 inedite. L’antico progetto di un’accademia si trasformò in una rete di collaborazioni che coinvolse quasi tutti i maggiori centri italiani. Al centro stava la fonte, che, pur se di «secoli barbari», tuttavia offriva «quanto della storia costituisce il nocciolo, cioè una ordinata e chiara esposizione dei fatti» (ibid., p. 511). Di conseguenza Muratori mantenne il dettato del documento, ma lo mutilò spesso di quello che non era attinente alla questione, o perché prolisso. L’innovativa periodizzazione, che andò dal VI al XVI secolo, impose nuove fonti. «È preferibile che i passati eventi si apprendano da coloro che furono contemporanei o prossimi ai tempi antichi; infatti i posteri non possono avere un’immagine così esatta del passato come quelli che vi assistevano in vita» (ibid., p. 496). La distinzione tra storia sacra e profana, pur mantenuta, perse di senso. La novità eccezionale del lavoro di Muratori stette nell’ampliare la già acquisita rivalutazione dell’età barbarica, per l’Italia di quella longobarda, in una ricostruzione sistematica del Medioevo come civiltà. L’Italia era «mater nostra» nei secoli di prospera e di avversa fortuna. Le sue origini stavano in «quelle genti […] che siam soliti chiamare barbare» (ibid., p. 491). I «saecula ferrea» potevano suscitare curiosità e piacere, poiché «l’orrido» del Medioevo aveva «il suo bello e il suo dilettevole» (ibid., p. 27). E inoltre i RIS mostrarono «quanto felici siano i nostri tempi rispetto a quelli» (ibid., p. 493). Per Muratori, educato da Leibniz, quel miglioramento era stato irreversibile. L’Italia aveva maturato in dieci secoli un’unità culturale e religiosa, che, dispiegatasi nel Rinascimento, stava per rifiorire.
Il «fondaco» (Soli Muratori, 1756, p. 78) documentario dei RIS fu la base delle Antiquitates Italicae Medii Ævi. I sei volumi, dedicati a Federico Augusto III di Polonia, apparvero a Milano tra il 1738 e il 1742. Il loro compendio italiano, iniziato da Muratori, andò in stampa postumo nel 1751. L’opera nacque dall’ingente materiale raccolto per le Estensi. La «messe» fu eccezionale e dunque gli «venne in pensiero di trattare ancora delle Antichità italiane» (Opere, 1964, p. 29), che avrebbero dovuto costituire la seconda parte delle Antichità estensi. Muratori volle «esporre i costumi e riti dell’Italia, dopo la declinazione del romano imperio sino al 1500» per «trattare dei diversi e vari governi di que’ tempi, delle leggi, de’ giudizi, de’ contratti, delle forme di guerreggiare, de’ vescovati, delle badie, delle donazioni pie, degli spedali, delle repubbliche, delle fazioni, delle monete, dei feudi, degli allodi e simili altre innumerabili notizie, che tutte insieme formassero un’intera dipintura dell’Italia d’allora, in tante cose diverse da quella d’oggidì» (ibid.). Fece così una «Kulturgeschichte Italiens im Mittelalter» (Croce, 1918, p. 209) ed evitò sia l’antiquaria della gioventù, sia l’annalistica della vecchiaia.
Le 75 dissertazioni discutono fra l’altro l’organizzazione gerarchica e politica del mondo feudale (I-X), la sua articolazione sociale (XI-XVI) ed economica (XVII-XIX), lo statuto giuridico della donna, arti, abbigliamenti, moneta, tribunali (XX-XXXI), duelli e giudizi di Dio (XXXVIII-XXXIX), ospedali (XXXVII), contratti agrari e enfiteusi (XXXVI); la cultura (XLIII-XLIV), l’origine delle lingue romanze (XXXII-XXXIII), la poesia volgare (XL), i nomi (XLI-XLII); il Comune, le sue origini, istituzioni, la trasformazione in signorie (XLV-LVI), le lotte tra guelfi e ghibellini (LI); infine culti dei santi, superstizioni, reliquie (LVIII-LIX), le eresie (LX), le istituzioni ecclesiastiche (LXI-LXV), la loro crisi (LXXI-LXXII), le rendite (LXVII-LXX), i benefici (LXXIII), le parrocchie e le confraternite laicali (LXXIV-LXXV). L’interpretazione di Muratori, che «amava esplorare un mondo ignoto» (Tabacco, 1973, p. 210), ruotò sulla storia delle città (specie sulla vita economica e i rapporti con le campagne) e sul loro conflitto con l’Impero, che datò al X secolo. Colse appieno l’evoluzione del beneficio e delle strutture di potere in feudo, e tematizzò la contrapposizione di «due età medievali», percorsa da graduali e lenti cambiamenti tra istituzioni feudali e Comuni. Cercò unità politica dove c’erano conflitti: forse è vero che del mondo feudale gli sfuggì «l’intelligenza» (Giarrizzo, 1962, p. 41).
Ultimo, ma più debole frutto storiografico furono gli Annali d’Italia (Venezia 1744), in 9 volumi. Il peso delle sconfitte con l’Impero e il papato avevano stemperato il vigore delle Estensi e delle Antiquitates. Il lavoro, pensato nel 1738, traccia una «storia civile d’Italia» (Opere, 1964, p. 1022) anticuriale, ma il ritorno alla periodizzazione tradizionale, con inizio dal I secolo, penalizza l’opera. Convinto da vari suggerimenti, nel 1749 Muratori aggiunse altri tre volumi, arrivando al 1748.
Il ghibellinismo, senza più energia religiosa e giurisdizionalista, indebolì l’analisi storica a giudizio episodico. Si appannò la comprensione del passato quale forza di civiltà. Il Medioevo era ancora l’origine positiva del mondo moderno, ma la scomparsa del timore di poter ricadere in quel mondo ‘barbaro’ non aprì nuovi orizzonti. Il progresso della storia civile non si ancorò all’idea di Stato come in Giannone, o in Voltaire o Hume, e mancò di una «trama unitaria» (Giarrizzo, 1962, p. 29), qui supplita dal moralismo. Nella Conclusione Muratori difendeva la storia come «verità» e il suo «giudicar […] delle operazioni degli uomini per ispirar nei lettori l’amore della giustizia e del retto operare» (Opere, 1964, p. 1497), ma la lunga citazione di Mabillon, con la quale nobilmente chiuse l’opera, fedele al passato, appariva insufficiente a pensare i nuovi conflitti.
Dopo le Antiquitates, si ebbe il Novus thesaurus veterum inscriptionum (Milano 1739-43), con cui polemizzò Maffei; aspre polemiche suscitò pure la Dissertazione sopra l’ascia sepolcrale (Roma 1735). Alla fine degli anni Trenta collaborò con il nuovo duca Francesco III, di cui era stato precettore, preparò i lavori su Tasso e la Vita di Alessandro Tassoni (Venezia 1739), scrisse contro Thomas Burnet il De Paradiso, replicò nel Primo esame del libro intitolato l’Eloquenza italiana (1737) alle accuse di eresia che Fontanini (Eloquenza italiana, 2a ed. 1736) aveva lanciato alla sua biografia di Lodovico Castelvetro, apparsa nelle Opere varie critiche di questi (Milano, 1727). Di questi anni è il passaggio dagli studi storici a quelli filosofici e politici.
Già il Buon gusto aveva chiesto che la filosofia morale guardasse non ad Aristotele, ma all’esperienza. Nella Filosofia morale proposta ai giovani (Verona 1735), che riprese i precedenti Rudimenti di filosofia morale per il principe (1713, postumo in Scritti inediti, Bologna 1872), Muratori sviluppò un’antropologia filosofica di ortodossia cattolica che ebbe grande successo, ma Giambattista Vico comprese la debolezza di codesta «cristiana morale dimostrata», che nel 1737 accomunò a quelle del cardinale Pietro Sforza Pallavicino, Nicolas Malebranche, Blaise Pascal, Pierre Nicole (G.B. Vico, Epistole, Napoli 1983, p. 189).
Muratori combatté da un punto di vista morale il pirronismo, per esempio in Jean-Baptiste d’Argens (ma giudicò «gustose» le Lettres persanes [Opere, 1964, p. 1955]). Il variare di leggi, usanze, mentalità era un fenomeno proprio della materialità; le verità universali appartenevano all’anima. Le fantasie e le passioni andavano dirette dalla ragione. La distinzione di anima e corpo fu la base volutamente anti-lockiana. Muratori aveva letto Locke nel 1726, ricavandone un duraturo timore. A Girolamo Tartarotti (ibid., p. 1916) ribadì nel 1733 il suo fermo rifiuto del materialismo e scetticismo di Locke. Il cristianesimo aveva ragionevolezza, ma esigeva anche fede. Ancorò il proprio cattolicesimo non nella tradizione del deismo, ma tra Leibniz e Christian Wolff. Questo, insieme al legame con la storiografia imperiale, spiega il successo di Muratori nel mondo tedesco. Pure l’idea di Dio e di Chiesa di Locke erano per lui inaccettabili; né la vera religione andava lockianamente ristretta al modo con il quale si praticava la fede, né la tolleranza era il carattere della vera Chiesa: per Muratori, questa si basava su un insieme storicamente certo di articoli di fede e di culti, che ne escludevano altri.
L’ostinato irenismo di Muratori non era perciò rinuncia ai dogmi, ma dialogo con i loro critici, pure se sfioravano l’eresia. E non a parole. Giannone, in un momento drammatico delle sue peregrinazioni, quando nel 1735 fu inseguito dall’inquisizione a Modena trovò valido e impavido aiuto in Muratori.
La risposta alla moderna filosofia empirista si spostò nel 1745 su un piano più teorico, con il Delle forze dell’intendimento (cfr. pure Bertelli, 1960, pp. 506-522) e il Della forza della fantasia umana. Nel primo Muratori confutò l’esasperato pirronismo non soltanto di Pierre Bayle e John Toland, ma del vescovo Pierre-Daniel Huet. Negare la conoscenza sperimentale avrebbe potuto condurre a negare l’esistenza di Dio, che poggiava anche su prove a posteriori. La logica di Port Royal aveva mostrato che la ragione non era in contrasto con la fede.
In Della forza della fantasia umana Muratori riepilogò le precedenti indagini su tale tema, che sempre lo intrigò. La fantasia non era alternativa a una ragione debole, ma dipendeva dalla struttura del cervello. Il legame tra fantasia e ragione era stretto, perché la prima offriva «l’indispensabile supporto materiale» alla seconda. La fantasia era il «mantice della concupiscenza» (ed. 1995, p. 118). Questa definizione ha fatto, a torto, vedere un’anticipazione della psicologia freudiana. La fantasia era invece una facoltà, studiata secondo «un vaglio d’ordine prevalentemente medico-naturalistico» (Pogliano, ibid., p. 20). Abbandonare lo sperimentalismo faceva uscire dall’ordine naturale e dell’intelletto. Visioni, estasi, sabba, stregonerie, superstizioni erano il frutto della «sola, forte, fantasia» (Opere, 1964, p. 23). Non pare che Muratori abbia letto il conte di Shaftesbury. Per lui altro senso ebbe l’analoga critica alle superstizioni, e il carteggio con Antonio Genovesi mostrò la sua riluttanza, nonostante l’apprezzamento per Samuel Clarke, a collegare la teologia con la nuova cultura francese e inglese.
Dialogò invece sull’anticurialismo con la cultura napoletana, apprezzata nell’opera di Costantino Grimaldi e Giannone, e con quella torinese. Nel Della pubblica felicità (Roma 1749) si chiedeva perché si fossero «cotanto addormentati i vari popoli d’Italia» (ed. 1996, p. 140). A lui, «il migliore interprete e cronista degli anni ’40» (Venturi, 1969, p. 68), il bisogno di riforme parve drammatico. «L’inerzia del popolo ha bisogno di chi l’esorti, lo sproni e, se conviene, ancora lo sforzi a fare quello che è utile suo e del pubblico» (Opere, 1964, p. 144). A ispirarlo ora era Vittorio Amedeo II. Rifiutò la riflessione teorica sulla sovranità, in quegli anni rivoluzionata da Montesquieu. Per lui la politica era volta ad assicurare benessere e ubbidienza, non libertà ed eguaglianza. L’idea della sovranità popolare gli fu estranea. «II trattato della Società civile del Lock [sic] non l’ho letto, né voluto leggere, perché egli è di massime troppo [diverse] dalle nostre» scrisse a Domenico Brichieri Colombi (il 21 febbraio 1742, in Epistolario, 1906, t. X, n. 4498, p. 4254). Non riprese il suo progetto di codice del 1726: nei Dei difetti della giurisprudenza (1742), oltre a denunciare la farraginosità dei codici e dei ruoli di giudici e avvocati, incitò allo studio del diritto pubblico una disciplina negletta in Italia, ritornò sull’importanza dei fedecommessi e progettò una ponderata compilazione di leggi: quello che nel 1742 Carlo III provò a fare senza successo a Napoli.
L’incrocio tra nuova questione sociale e consolidato convincimento assolutistico è al cuore delle opere politiche dell’ultimo decennio. Muratori riprese l’esigenza di istituzioni adatte a un’efficace carità, ma la volontà di riforma da osservazione sociale e condanna morale si fece appello politico ai principi, e più chiari furono i disagi sociali sui quali i sovrani dovevano intervenire attraverso la legislazione. Erano principalmente le istituzioni della proprietà. Lo storico qui dava mano al politico per indicare la via della riorganizzazione delle leggi; la Pubblica felicità elencò le storture dell’ordine sociale che avrebbero dovuto sanare i principi, cui compito era di assicurare, per quanto possibile, «pace e tranquillità». Il «miglioramento del mondo» (ed. 1996, p. 40) era possibile. Le accademie dovevano far circolare esigenze e progetti di miglioramento sociale, non «i castelli in aria» (ibid., p. 104) dei filosofi. Anche se di mero buon senso, forte fu il suo interesse per i problemi economici. Appartiene a questo orizzonte, più che a quello religioso, Il cristianesimo felice nelle missioni de’ padri della Compagnia di Gesù nel Paraguai (Venezia 1743-49), nel quale la descrizione delle celebri missioni gesuitiche, comunque frutto di informazioni accuratamente scelte come attendibili, indicò come un’élite potesse guidare una popolazione alla felicità senza alterare l’assetto politico. Fu il problema che sempre animò la riflessione di Muratori: l’educazione della gioventù «per esercitare l’importante impiego di governar gli altri» (ibid., p. 30).
Nel campo religioso ebbe allora un significativo vuoto di progetti. Accettò di subentrare a Benedetto Bacchini e nel 1748 completò la Liturgia romana vetus tria Sacramentaria complectens leoninum scilicet, gelasianum et antiquum gregorianum, dove mostrò che la critica protestante aveva espunto autentiche tradizioni vetero-cristiane. Nel 1747 apparve a Venezia, con lo pseudonimo Lamindo Pritanio, il Della regolata divozion de’ Cristiani, nella quale – scrisse il nipote – «non gli fu permesso di dire tutto quello, che a lui pareva il meglio, o il più lodevole» (Soli Muratori, 1756, p. 95).
Fu il bilancio di quarant’anni di riflessioni e di polemiche, animate da una religiosità che fu controriformata, ma non conformista e che cercò di trovare una propria strada tra l’ortodossia ufficiale e i suoi convincimenti; pur se (troppo) spesso scelse il silenzio a risolvere il conflitto. Ma l’intonazione giansenisteggiante si affievolì molto e invece le note gesuitiche si fecero più chiare. L’esperienza degli ultimi due secoli aveva mostrato la grande «utilità» degli Esercizi «inventati da Sant’Ignazio di Lojola» (Della regolata…, 1747, p. 142). Sottolineò il valore della messa e della preghiera come mezzo di grazia, la duplice necessità della devozione interna e esterna, l’attenuazione del rigorismo, l’ostilità per la predestinazione, la fiducia in una piana mediazione tra fede e vita, la possibilità di dialogare con la divinità per la sua intelligibile razionalità, l’importanza delle opere. Difese l’ortodossia delle sue polemiche: il bisogno di moderare la devozione verso santi (cap. XX) e verso la Madonna (cap. XXII) e di controllare la spontanea devozione popolare (cap. XXIV).
L’età muratoriana si chiudeva per Muratori con amare sconfitte. Era venuta meno pure la fiducia nel papa. Benedetto XIV fermò (1740) la condanna dell’Inquisizione spagnola, in particolare su La filosofia morale, ma disapprovò la critica di Muratori alla politica papale di potenza, all’eccesso di festività e alle posizioni ufficiali sulla santità (a proposito di suor Maria d’Ágreda). Ritardò inoltre l’approvazione della Regolata divozion. Muratori si difese: ribadì i danni della superstizione; sulla necessità di ridurre le festività scrisse – nella Risposta di Lamindo Pritanio ad una lettera del cardinale Querini (in Raccolta di scritture concernenti la diminuzione delle feste di precetto, Lucca 1748) – che il popolo aveva bisogno di lavoro, non di superstizioni. Benedetto XIV impose però il silenzio alle parti in causa, e Muratori rinunciò a pubblicare una già pronta, nuova Risposta al cardinale Angelo Maria Querini (in Scritti inediti, 1880, pp. 280-322).
Infermo alla fine degli anni Quaranta, non poté andare in Germania per discutere la riunificazione delle Chiese.
Ormai cieco, morì a Modena il 23 gennaio 1750.
Opere complete e antologie: Opere, Arezzo 1767-73; Opere, Venezia 1790; Scritti inediti, Bologna (1872), 2a ed. 1880; Scritti politici postumi, ibid. 1950; Corrispondenze: Epistolario di M., a cura di M. Càmpori, I-XIV, Modena 1901-22; Opere, I-II, Milano-Napoli 1964. Dal 1975 è in corso di stampa l’ediz. naz. del Carteggio muratoriano, in 46 voll., di cui 18 già apparsi; De codice Carolino, sive de novo Legum Codice instituendo, in B. Donati, L. A. M. e la giurisprudenza del suo tempo, Modena 1935; Della forza della fantasia umana, a cura di C. Pogliano, Firenze 1995; Della pubblica felicità, Roma 1996; Rerum Italicarum scriptores, Città di Castello 1900-, con prefazione di G. Carducci.
Fonti e Bibl.: Tutti i manoscritti e le oltre 20.000 lettere a Muratori si trovano a Modena, Bibl. Estense Universitaria: v. Carteggio muratoriano: corrispondenti e bibliografia, a cura di F. Missere Fontana - R. Turricchia, Bologna 2008; F. Soli Muratori, Vita del proposto L.A. M., Venezia 1756; B. Croce, Conversazioni critiche, Bari 1918, p. 209; A.C. Jemolo, Il pensiero religioso di Muratori (1923), in Id., Scritti vari di storia religiosa e civile, Milano 1965; L. Salvatorelli, Storia del pensiero politico, Torino 1943, pp. 4-21; T. Sorbelli, Bibliografia muratoriana, I-II, Modena 1942-43 (manca il vol. dedicato ai RIS); M. Fubini, Da M. al Baretti, Bari 1946; F. Forti, M. fra antichi e moderni, Bologna 1953; A. Vecchi, L’opera religiosa del M., Modena 1955; G. Falco, M. e l’Illuminismo, Torino 1957; Id., Motivi e momenti dell’opera muratoriana, in Riv. storica italiana, LXXI (1959), pp. 382-399; S. Bertelli, Erudizione e storia in M., Napoli 1960; G. Giarrizzo, Alle origini della medievistica moderna (Vico, Giannone, M.), in Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medioevo, LXXIV (1962), pp. 3-43; C. Pecorella, Studi sul ’700 giuridico. M. e i difetti della giurisprudenza, Milano 1964; E. Garin, Storia della filosofia italiana, II, Torino 1966, ad nomen; E. Raimondi; Ragione ed erudizione nell’opera di M., in Sensibilità e razionalità nel ’700, a cura di V. Branca, Firenze 1967; F. Venturi, Settecento riformatore, I, Torino 1969, ad ind.; M. Rosa, Riformatori e ribelli nel ’700 religioso italiano, Bari 1969, passim; G. Tabacco, M. medievista, in Riv. storica italiana, LXXXV (1973), pp. 201-216; A. Andreoli, Nel mondo di L. A. M., Bologna 1972; Atti del Convegno internazionale di studi muratoriani… 1972, I-IV, Firenze 1975; C. Donati, Dalla ‘regolata devozione’ al giuseppinismo nell’Italia del ’700, in Cattolicesimo e lumi nel Settecento italiano, a cura di M. Rosa, Roma 1981, pp. 77-98; Il soggetto e la storia. Biografia e autobiografia in L.A. M., in Atti della II Giornata di studi muratoriani…Vignola…1993, Firenze 1994; Corte, buon governo, pubblica felicità. Politica e coscienza civile del M., in Atti della III Giornata di studi muratoriani… Vignola…1995, Firenze 1996; F. Marri - M. Lieber, L.A. M. und Deutschland: Studien zur Kultur- und Geistesgeschichte der Frühaufklärung, Frankfurt am Main 1997; A. Burlini Calapaj, Devozioni e ‘regolata divozione’ nell’opera di M., Roma 1997; F. Marri, Die Glückseligkeit des gemeinen Wesens, Frankfurt am Main 1999; C. Continisio, Il governo delle passioni. Prudenza, giustizia e carità nel pensiero politico di M., Firenze 1999; A. Mattone, Il modello muratoriano e la storiografia sardo-piemontese del Settecento, in Riv. storica italiana, CXXI (2009), pp. 67-120; R. Bonfatti, L’«erario» della modernità. M. tra etica ed estetica, Bologna 2010. Da vedere anche il Bollettino del Centro di studi muratoriani, I (1952) - XVI (1974/1988) e dal 2011 MURATORIANA online. Il sito internet http:// www.centrostudimuratoriani.it è di grande utilità.