Ludovico Antonio Muratori
Muratori è considerato uno dei precursori del dibattito sulla codificazione in Italia. Tuttavia, la sua figura è stata di recente ridimensionata dalla storiografia giuridica (Tarello 1976, pp. 215-21), in quanto sostanzialmente estranea agli autentici postulati della semplificazione normativa che l’ideologia codificatoria a venire avrebbe promosso con maggiore consapevolezza. In realtà le sue intuizioni, correttamente rapportate agli anni in cui furono espresse, non soltanto hanno dato voce a quell’«atteggiamento antigiurisprudenziale e antiforense» (Cavanna 1979, p. 310) emerso sin dal 16° sec. , ma sono state capaci di individuare punti critici e parziali rimedi.
Nato a Vignola nel 1672, si laureò presso l’Università di Modena in filosofia (1692) e in diritto (1694). Fu avviato alla ricerca storico-erudita da Benedetto Bacchini (1651-1721), archivista e bibliotecario ducale. Nel 1695, anno in cui vestì l’abito talare, Muratori venne chiamato alla Biblioteca Ambrosiana di Milano.
Il ritorno a Modena risale al 1700, quando fu promosso da Rinaldo I d’Este al grado di archivista e bibliotecario ducale al posto del Bacchini. L’alleanza matrimoniale tra gli Este e gli Hannover sollecitò Muratori, insieme al filosofo Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716), a ricostruire le linee dinastiche in comune tra le due casate, mettendo a frutto le competenze archivistiche acquisite.
L’occupazione militare di Modena condotta dai francesi (1702-07) costrinse Muratori a interrompere l’attività di scavo documentario, circostanza che lo indusse a coltivare letteratura ed estetica: a questi anni risalgono I primi disegni della repubblica letteraria d’Italia (1703), Della perfetta poesia italiana (1706) e le Riflessioni sopra il buon gusto nelle scienze e nelle arti (1708).
In seguito all’invasione di Comacchio a opera dell’imperatore Giuseppe I (1708), Muratori intraprese un sistematico vaglio di antiche fonti al fine di certificare i fondamenti giuridici delle pretese imperiali ed estensi su un’area che era stata annessa allo Stato pontificio nel 1598. La Piena esposizione dei diritti imperiali ed estensi sopra la città di Comacchio (1712) diede l’abbrivo per una serie di monumentali opere storiografiche che fecero guadagnare a Muratori una solida fama europea: dalle Antichità estensi ed italiane (1717-40) ai Rerum italicarum scriptores (1723-38), dalle Antiquitates italicae medii aevii (1738-42) agli Annali d’Italia (1744-49).
Nel frattempo, l’impegno di Muratori si orientava verso il recupero dei valori originari del cristianesimo, cui affiancare una concreta attività di sostegno ai più deboli. Su sua richiesta, nel 1716 gli venne assegnata la parrocchia di Santa Maria della Pomposa, situata in uno dei quartieri più poveri di Modena, e nel 1720 egli si fece promotore della creazione della Compagnia della Carità. Più tardi, nel saggio Della carità cristiana in quanto essa è amore del prossimo (1723), auspicherà una riforma morale degli apparati ecclesiastici. Da un analogo programma sarà animato Il cristianesimo felice nelle missioni de’ padri della Compagnia di Gesù nel Paraguai (1743). Muratori alimentò inoltre una polemica contro certe forme di esteriorizzazione del culto, espressa soprattutto nel saggio Della regolata divozion de’ cristiani (1747), che interpretava comunque alcune aperture in tal senso avanzate da papa Benedetto XIV (Prospero Lambertini), amico personale di Muratori.
Non mancò infine l’attenzione al diritto e alla politica, con due importanti saggi della maturità: Dei difetti della giurisprudenza (1742) e Della pubblica felicità, oggetto de’ buoni principi (1749). Muratori morì a Modena il 23 gennaio 1750.
Il contributo più alto offerto da Muratori alla cultura italiana ed europea è senz’altro quello relativo alla ricerca storica, anche se esso va iscritto nell’orbita di una tensione a suo modo ‘civile’, animata dall’idea di un affinamento del ruolo dell’intellettuale e di un miglioramento della condizione umana. In tale filone vanno senz’altro inseriti anche gli scritti letterari, quelli religiosi, nonché le opere di natura giuridica e politica.
Su quest’ultimo versante, Muratori elaborò le sue proposte più articolate e organiche nei due saggi Dei difetti della giurisprudenza e Della pubblica felicità. In realtà, il tema ricorrente della farraginosità della scienza giuridica e della sua inadeguatezza a cogliere gli elementi di rinnovamento presenti in altre discipline è già rilevabile in alcuni testi della giovinezza. Nei Primi disegni della repubblica letteraria, per es., si era pronunciato per
la purgazione di tanti abusi, di tante sentenze comuni fra lor contrarie, di tanti autori che vagliono più ad avviluppare che a decidere le quistioni, e in somma di tutti quegli ostacoli che rendono eterne le liti e infiniti i processi [...] –, e aveva proposto di – ridurre in un corpo solo tutte le sentenze più fondate, che, non decise chiaramente dalle leggi, ma approvate dal consenso o de’ leggisti più saggi o de’ tribunali più famosi, sono sparse in mille differenti libri (1713, pp. 34-35).
Appena qualche anno più tardi, nelle Riflessioni sopra il buon gusto, Muratori formulava un giudizio decisamente tranchant:
Dello studio delle Leggi io non terrò punto ragionamento, perchè ormai questo non si suol contare fra gli studi Eruditi, da che in Italia solamente si fa servire al mercato del Foro, e sarebbe ed è, non già disperata impresa, ma certo assai malagevole il voler'introdurre riforma, e buon Gusto nel medesimo» (Parte seconda, 1736, p. 244);
i giudici vi venivano descritti come «ignoranti o nemici della fatica» (p. 244) e gli avvocati come deprecabili produttori «di ciance, di sotterfugi, di uncini» a causa dell’«abbondanza indigesta, e solo materiale di Testi, Chiose, ed autorità, le quali anche non di rado nulla dicono, o dicono il contrario di quello che s’intende provare (p. 245).
L’individuazione dei difetti della giurisprudenza già in questi anni si deve all’assorbimento di motivi neoumanistici, alla stregua di quelli espressi nelle opere di Gian Vincenzo Gravina (1664-1718), auspicanti un ritorno alle fonti e rivolti al ripudio di una cultura, in particolare quella giuridica, raffazzonata e mercantile. Lo studio del diritto, pressoché negletto dopo il conseguimento della laurea, aveva confermato in Muratori la severa valutazione che già Giovanni Battista De Luca aveva avanzato nel suo Dottor volgare (1673) a carico di una scienza fondata sulla molteplicità e incoerenza delle opinioni dottrinali e giurisprudenziali, di cui gli avvocati apparivano voraci utilizzatori.
Un primo scritto (De codice Carolino) interamente dedicato al diritto fu composto da Muratori nel 1726, quando mise mano a un progetto di riforma legislativa di ampio respiro destinato all’imperatore Carlo VI d’Asburgo, a cui il testo avrebbe dovuto essere indirizzato in forma di epistola, peraltro mai recapitata né edita. Vi si prefigurava una codificazione semplificatoria che, promulgata con il consenso degli Stati soggetti e con la collaborazione dei massimi tribunali dell’Impero, avrebbe dovuto comunque tener conto, salvaguardandoli, dei diritti locali.
L’opera con la quale Muratori affrontò ex professo e articolatamente il tema del rinnovamento giuridico è Dei difetti della giurisprudenza, un saggio in cui furono ripresi gli spunti polemici delle opere pregresse e messa a frutto la formazione legale. La verve antigiurisprudenziale aveva qui modo di essere efficacemente valorizzata, nel contesto di una più ampia riflessione sulla natura del diritto e sul ruolo giocato dai suoi cultori. All’evidente scetticismo di fondo relativo al carattere problematico e controverso della scienza giuridica si accompagnava una spiccata concretezza dettata dal buon senso.
I difetti «intrinseci» della giurisprudenza, insiti nell’essenza stessa del rapporto tra diritto e società e per ciò stesso ineliminabili, sono essenzialmente rinvenibili: nell’ambiguità della legge che, in quanto formulata in un testo, subisce l’interpretabilità del linguaggio; nella versatilità delle manifestazioni della vita che, nella loro inafferrabile mutevolezza, non possono essere prevedute dal dettato normativo; nell'indefinitezza delle volontà e delle intenzioni umane, che prendono vita in parole e in atti suscettibili, come e quanto le leggi, di manipolazione; nella disomogenea attitudine e intelligenza dei giudici, i quali, tentando di adeguare soggettivamente principi astratti di giustizia al caso contingente, producono esiti variabili e imprevedibili.
Ciò che invece poteva e andava senz’altro riformato era, secondo Muratori, il maggiore tra i difetti «estrinseci», consistente in quella «selva» di opinioni dottrinali e di pronunce giurisprudenziali che, nel corso del tempo, avevano travolto il significato originario delle norme romane tramandate dal Corpus iuris civilis di Giustiniano, finendo per incoraggiare gli operatori a usare la più ampia discrezionalità nella selezione e nella combinazione dei dati argomentativi. Gli accenti più graffianti furono usati da Muratori nel descrivere l’opportunismo e l’interessata disinvoltura con cui i «dottori», veri padroni delle aule giudiziarie, adottavano questo o quell’orientamento per sostenere le ragioni del proprio cliente (se avvocati) o le proprie opinabili decisioni (se giudici). Non abbandonava mai il campo tuttavia un pessimismo legato a una visione, questa sì conservatrice, del diritto e della giustizia quali universi imponderabili, sia quando assumessero la fissità della forma legislativa, sia quando procedessero da idee metafisiche e naturali. In entrambi i casi, l’incertezza e l’arbitrio apparivano quali disvalori difficilmente ovviabili. Nel primo caso perché le leggi positive, che pure avrebbero dovuto incarnare principi di giustizia naturale, potevano invece essere il frutto di una scelta contingente dei legislatori, i quali «avrebbono anche potuto ordinare il contrario, se ne fosse lor venuto il talento» (Dei difetti della giurisprudenza, 1742, p. 41); nel secondo caso, più semplicemente, perché «ci manca un’idea certa del giusto e dell’ingiusto» (p. 45).
Nel complesso, la riforma della giurisprudenza contemporanea al Muratori era sollecitata principalmente da tre fattori: l’inadeguatezza della compilazione giustinianea a regolare tutti i casi e quelli, in particolare, dei tempi moderni; l’inaffidabilità di giuristi, giudici e avvocati, legati per ignoranza o interesse al mare magnum delle auctoritates del diritto comune, fonte di incertezza e di arbitrio; l’oggettiva difficoltà di identificare e, se identificati, di applicare correttamente principi di giustizia naturale (Birocchi 2002, p. 364).
La critica del Muratori appare significativamente distante dall’orizzonte culturale dell’Illuminismo giuridico di lì a breve a venire, anche se alcuni motivi ricorrenti sono riconducibili a una sensibilità comune. La storiografia a tal proposito ha parlato di «preilluminismo» (G. Falco, L.A. Muratori e il preilluminismo, in La cultura illuministica in Italia, a cura di M. Fubini, 1957, pp. 23 e segg.). Allo stesso modo propiziatori, ma anch’essi assai lontani dalle prospettive illuministiche della seconda metà del secolo, risultano i rimedi delineati da Muratori per ovviare ai malanni della giustizia.
Secondo Muratori, come del resto sosterranno anche i riformatori più maturi, l’iniziativa non poteva che provenire dal sovrano, non essendo praticabili, né tanto meno desiderabili, vie di autoregolazione interne al mondo degli operatori del diritto, cointeressati al mantenimento dello status quo. Il punto di partenza era rappresentato dal disastroso caos che regnava nel mondo della giustizia civile, dove l’arbitrio giudiziario e la contraddittorietà delle leggi vigenti e delle opinioni dottrinali si rivelavano con irrefutabile evidenza, rendendo l’esito dei processi imprevedibile nel merito e indefinito nei tempi. Solo l’autorità politica poteva assumersi la responsabilità di procedere a una semplificazione normativa che eliminasse o quanto meno ridimensionasse la discrezionalità dei giudici e desse al processo linearità e trasparenza. Circa quest’ultimo aspetto, Muratori riteneva preliminare a qualsiasi riforma l’introduzione dell’obbligo generalizzato della motivazione delle sentenze, che fino allora era stato previsto solo in casi particolari e limitatamente ai tribunali superiori. La motivazione avrebbe dovuto essere fondata, più che sulla opinabile dottrina, su un complesso circoscritto di norme: ed ecco quindi l’approdo a quel «picciolo codice nuovo di leggi» (Dei difetti, cit., p. 85), chiaro e succinto, sancito dal sovrano.
Su questo versante, il progetto muratoriano mostra profili controversi, che hanno indotto buona parte della storiografia a metterne in dubbio il valore originale e innovativo. Secondo Franco Venturi, le proposte contenute nei Difetti costituirebbero addirittura «un passo indietro» rispetto a quelle espresse, poco meno di vent’anni prima, nel De Codice carolino (Venturi 1969, p. 166). In effetti Muratori appare lontano, come detto, non soltanto dagli obiettivi dell’Illuminismo, ma anche dai presupposti teorici del giusnaturalismo, che da tempo, soprattutto nelle università tedesche e asburgiche, andava elaborando un programma di razionalizzazione dell’ordinamento giuridico basato su principi generali e su una scala gerarchicamente ordinata di assunti normativi che da quei principi traevano fondamento e coerenza logico-sistematica. Inconsistente sarebbe invece, come detto in premessa, ogni interpretazione storiografica che si ponesse quale criterio valutativo l’aderenza o meno ai postulati di un’ideologia della codificazione riscontrabile, nella sua pienezza, solo nel 19° secolo.
Niente di tutto ciò in Muratori, il quale, animato da buon senso sì, ma intriso di una radicata sfiducia nei confronti del diritto e per niente convinto dell’esistenza di un ordine giuridico naturale, riteneva che l’unica strada percorribile fosse quella della riforma parziale, perseguita sulla scorta di quanto la disastrata realtà giudiziaria evidenziava come bisognevole di interventi riparatori. La finalità del codice, pertanto, sarebbe stata quella,
non dirò di ammassar tutte le conclusioni ed opinioni legali disputate con contrarietà di sentimento da i legisti […], ma bensì di scegliere quelle che più facilmente son portate a i tribunali ed importa al pubblico che sieno decise (p. 84).
Si sarebbe trattato, in altre parole, di selezionare dalla prassi forense e giudiziaria quelli che comunemente erano stati individuati quali punti critici e forieri di dissenso dottrinale e giurisprudenziale, e ciò al fine di consentire un più agevole, rapido e prevedibile esito dei processi, a tutto vantaggio delle parti e dei loro interessi, non più in ostaggio dei giudici.
Come si vede, quanto di più estraneo a un codice propriamente detto, anche nel senso delle soluzioni prefigurate o già realizzate all’epoca, come era stato per le Costituzioni promulgate da Vittorio Amedeo II di Savoia nel 1723 e nel 1729. Muratori, che pur della raccolta normativa piemontese era sincero ammiratore, si limitava a delineare un percorso minimale, non certo destinato a sostituire in toto l’ordinamento vigente, né tanto meno a prescindere dall’apporto che il diritto romano, se ben maneggiato con l’ausilio di ragionevolezza ed equità, poteva ancora fornire quale fonte sussidiaria. L’importante non era superare d’emblée il sistema, ma ridurre l’indeterminatezza, l’incertezza, l’arbitrio.
Tuttavia, nei Difetti non mancavano proposte legislative dotate di sufficiente dettaglio tecnico, tanto da ispirare alcune norme del futuro Codice estense promulgato nel 1771 dal duca Francesco III, di cui lo stesso Muratori fu precettore. Restava comunque il sapore di soluzioni occasionali e di basso profilo, un ricettario più che altro utile a snellire il processo e a neutralizzare le tentazioni dilatorie dei giuristi.
La serrata critica al mondo giuridico va integrata infine con il lascito più maturo del pensiero di Muratori, che nella Pubblica felicità ebbe modo di tracciare le linee portanti di un ‘dispotismo illuminato’ finalizzato al benessere dei sudditi, sulla scia di quanto, per es., Christian Wolff (1679-1754) avanzava in area tedesca con il suo allgemeine Wohlfahrt. Scritto all’indomani della pace di Aquisgrana, in esso sono contenuti ulteriori motivi di ripensamento circa il ruolo da assegnare al diritto e ai giuristi. Questi ultimi, in particolare, erano invitati a superare un’angusta rendita di posizione costruita su un sapere limitato «a i digesti e al codice, e alla gran filza de gli ordinarî autori legali» (Della pubblica felicità, a cura di C. Mozzarelli, 1996, p. 35), per aprirsi a un contributo più squisitamente politico, affiancando il principe nell’edificazione di uno Stato al servizio dei sudditi. Per coronare tale vocazione, occorreva essere edotti di una
giurisprudenza superiore, cioè quella che insegna i primi principî della giustizia e i doveri del principe verso de’ sudditi e de’ sudditi verso il principe; che fa giudicare se le leggi stesse sieno rette o se altre maggiormente convenissero (p. 35).
Tale scienza veniva individuata nel gius publico, l’insegnamento impartito nelle università tedesche e olandesi, «ma trascurato per lo più da i giurisconsulti italiani» (p. 35). L’aspra invettiva contro il ceto legale lasciava il posto a una più pacata consapevolezza circa i limiti della cultura giuridica italiana: riconoscendone il valore nel quadro del necessario riformismo a venire, Muratori indicava a sovrani e intellettuali una via di rinnovamento accessibile e compatibile con le contraddittorie istanze contemporanee.
I primi disegni della repubblica letteraria d’Italia rubati al segreto, e donati alla curiosità de gli altri eruditi da Lamindo Pritanio, Napoli 1703, Venezia 1713 (ed. parziale in L.A. Muratori, Opere, a cura di G. Falco, F. Forti, 1° vol., Milano-Napoli 1964, pp. 177-221).
Riflessioni sopra il buon gusto nelle scienze e nelle arti, di Lamindo Pritanio, Parte prima, Venezia 1708; Parte seconda, Napoli 1715, Venezia 1736 (ed. parziale in L.A. Muratori, Opere, a cura di G. Falco, F. Forti, 1° vol., Milano-Napoli 1964, pp. 222-85).
Dei difetti della giurisprudenza, Venezia 1742 (ed. a cura di A. Solmi, Modena 1933; ed. a cura di G. Barni 1958; rist. anast. Sala Bolognese 2011).
Della pubblica felicità, oggetto de’ buoni principi, Lucca 1749 (ed. a cura di C. Mozzarelli, Roma 1996).
De codice Carolino, sive de novo legum codice instituendo, in B. Donati, Lodovico Antonio Muratori e la giurisprudenza del suo tempo, Modena 1935, pp. 173 e segg.
B. Donati, Ludovico Antonio Muratori e la giurisprudenza del suo tempo. Contributi storico-critici seguiti dal testo della inedita dissertazione di L.A. Muratori “De Codice carolino, sive de novo legum codice instituendo”, Modena 19352.
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P.L. Falaschi, Il problema della certezza del diritto nel trattato “Dei difetti della giurisprudenza” di L.A. Muratori, Milano 1963.
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I. Birocchi, Alla ricerca dell’ordine. Fonti e cultura giuridica nell’età moderna, Torino 2002.
M. Bragagnolo, Lodovico Antonio Muratori giurista e politico, tesi di dottorato, Università degli Studi di Trento, Scuola di Dottorato in Studi Giuridici Comparati ed Europei, a.a. 2007-2008, tutor P. Carta (http://eprints-phd.biblio.unitn.it/381, 28 ag. 2012).