Ludovico Antonio Muratori
Capita di rado, nella storia della cultura economica, di imbattersi in intelligenze che coniughino in maniera assoluta passione scientifica e impegno civile, al punto da rendere vano ogni tentativo di collocarle nella sfera della storia delle idee o di quella dei fatti. Eppure, paradossalmente, fra i tanti volti del ‘Settecento riformatore’, e del Settecento economico in particolare, Ludovico Antonio Muratori resta in disparte. Come se il letterato o lo storiografo avessero preso il sopravvento, almeno negli studi, sull’uomo d’azione.
Muratori nasce a Vignola, nel Modenese, il 21 ottobre 1672, da una famiglia di modesta estrazione sociale. Nel 1685 accede al Collegio gesuitico di Modena, per poi proseguire gli studi filosofici, civilistici e canonistici alla facoltà giuridica dell’Università. Nel dicembre 1694 riceve la laurea in utroque iure.
Votato alla vita consacrata fin dall’adolescenza – verrà ordinato sacerdote nel 1695 – e avviato verso una probabile carriera di giurisperito al servizio della corte estense o della curia, finisce per seguire l’indole degli studi eruditi. Sotto la guida del monaco benedettino Benedetto Bacchini, cultore di storia ecclesiastica e medievale, alla quale va applicando i rudimenti della paleografia e della diplomatica appresi dall’amico Jean Mabillon, il giovane Muratori inizia a coltivare l’ideale di una conoscenza enciclopedica capace di comprendere e soprattutto collegare organicamente la sapienza degli antichi e dei moderni.
A pochi mesi dalla laurea, nel febbraio 1695, su invito del conte Carlo Borromeo, Muratori si reca a Milano, dove rimane per un quinquennio con il titolo di dottore nella Biblioteca Ambrosiana. Verrà richiamato in patria per succedere a Bacchini come archivista e bibliotecario ducale, mettendosi a disposizione di Rinaldo I d’Este in anni cruciali, mentre nelle cancellerie di qua e di là dalle Alpi fervono i preparativi per la guerra di successione spagnola. Si trattava di rintracciare negli archivi qualche prova che consentisse alla casa d’Este di rivendicare diritti feudali sul delta del Po, nella speranza di assicurare al Ducato uno sbocco sul mare. L’esito sfortunato della controversia su Comacchio, che procura a Muratori non poche antipatie nella curia romana (nonché l’accusa infamante di essere ‘ghibellino’ e ‘giansenista’), non impedisce tuttavia alla fama del giovane giurista e letterato di raggiungere le corti di mezza Europa.
Dopo alcuni anni trascorsi a far da precettore al principe ereditario, il futuro duca Francesco III, che lo ricambierà con imperituri sentimenti di affetto e stima, nel 1716 Muratori viene finalmente accontentato nel desiderio, lungamente manifestato, di ottenere una cura d’anime. Gli viene così affidata la prepositura di Santa Maria della Pomposa, la parrocchia più povera di tutta Modena. Entrambe le esperienze, nella loro diversità, incidono profondamente sulla formazione del pensiero del grande intellettuale modenese. Sono questi, a ben vedere, i momenti centrali della sua vita spirituale e civile.
Nei quasi due decenni dedicati alla pastorale dei poveri il temperamento di Muratori si fa sempre più incline all’azione. Mentre addita ai pubblici poteri gli interventi strutturali atti ad alleviarne le miserie materiali e morali, non esita a tentare in proprio ogni strada suggerita dal buon senso. Istituisce una confraternita, la Compagnia della Carità, al cui sostegno concorrono regolarmente una settantina di agiati cittadini modenesi; fonda una lotteria annuale di beneficenza; progetta un ospedale. La Pomposa diviene così un laboratorio di politica sociale per la città e il Ducato.
Ritiratosi a vita privata nel 1733, non si stanca di scrivere, in forma sempre più sistematica, e di immaginare riforme a vantaggio dello Stato e dei suoi poveri. È questa la stagione in cui concepisce le opere conclusive Annali d’Italia (1744-1749) e Della pubblica felicità (1749). L’ambizioso programma riformatore delineato negli anni Quaranta verrà intrapreso, nella seconda metà del Settecento, da Francesco III e dai suoi ministri e infine completato, sotto il regno di Ercole III, da Lodovico Ricci (1742-1799).
La morte coglie Muratori ormai anziano, a Modena, il 23 gennaio 1750, preceduta da una breve malattia che lo priva dell’uso di entrambi gli occhi ma non della lucidità.
Due sono le opere che racchiudono le idee economiche muratoriane, indissolubilmente legate a istanze di riformismo sociale. La prima, Della carità cristiana, risale al 1723, dopo l’insediamento nella prepositura della Pomposa. La seconda, Della pubblica felicità, è opera di sintesi che vede la luce nell’ultimo anno di vita del pensatore modenese, ciò che ne fa in qualche modo il testamento civile. Dedicata all’arcivescovo-principe di Salisburgo, riprende il modulo stilistico dei Rudimenti di filosofia morale per il Principe ereditario impartiti a Francesco Maria d’Este e vergati intorno al 1714.
Prima di venire all’analisi di questi fondamentali scritti, tuttavia, sarà utile fare un passo indietro per apprezzare i tratti essenziali della religiosità di Muratori. Se il dittico gnoseologico sulla potenza dell’intelletto e della ‘fantasia’ umani, con il suo ostinato negare che il pensiero proceda immediatamente dalla materia, rappresenta una reazione al materialismo sensista originatosi nell’Essay concerning human understanding (1690) di John Locke, l’esercizio della ragione costituisce per Muratori un approccio privilegiato, e forse l’unico approccio davvero ammissibile, alla religione e alla fede. Basti leggere quanto scrive, nella Forza della fantasia umana (1745), a proposito della stregoneria (trattata alla stregua di allucinazioni notturne) o della pratica degli esorcismi; terreno decisamente scivoloso questo, visto il rischio di collidere con il magistero ufficiale della Chiesa. Tanto più coraggiosa, dunque, appare la sua posizione:
la sperienza fa vedere che, dove esorcista non è conosciuto, ivi né pur si conoscono spiritati. Han certamente essi esorcisti il potere da Dio di guarire i veri ossessi, ma hanno anche la disgrazia di farne saltar fuori degl’immaginari (in Id., Opere, a cura di G. Falco, F. Forti, 1964, p. 923).
L’espressione più compiuta del cristianesimo muratoriano è forse lo scritto sulla Regolata divozion de’ cristiani (1747). Si tratta della difesa di un vissuto religioso adulto, che rifugge gli eccessi del rito facilmente equivocabili in termini superstiziosi dalla devozione popolare – inconveniente cui la riforma tridentina non ha del tutto ovviato – ma parimenti respinge il rigorismo giansenista e ogni dottrina della predestinazione. Autonomo è, del resto, l’atteggiamento nei confronti del potere temporale della Chiesa, quale emerge dalla Piena esposizione de i diritti imperiali ed estensi sopra la città di Comacchio (1712).
Tale preambolo è necessario se si vuole comprendere la concezione, decisamente singolare nel contesto del cattolicesimo romano, che Muratori ha della povertà. A poco vale riconoscere nel povero l’immagine di Cristo sofferente – egli chiarisce nella Carità cristiana – se tale riconoscimento si limita a una serie di atti formali. La Chiesa deve sollecitare elemosine anziché lasciti per le messe; la carità verso i vivi non può essere posta sullo stesso piano del suffragio dei defunti e commette grave peccato chi, nel clero, diverta ad altri scopi offerte e donazioni. Sulle autorità ecclesiastiche e civili incombe il dovere di promuovere attivamente l’istituzione di confraternite assistenziali, ospedali e Monti di Pietà.
Ma la carità così intesa non deve incoraggiare la pigrizia. I poveri che siano abili al lavoro vanno avviati a un mestiere adatto nei «pubblici ospizi». Infine, in tempo di crisi, i potenti li impieghino nell’edificazione di opere pubbliche e private. Ecco prefigurate, in nuce, le linee di un intervento anticiclico.
Il tema della povertà torna ad affacciarsi nella saggistica muratoriana a due decenni di distanza. Al periodo 1742-48 risale infatti la famosa polemica con il cardinale Angelo Maria Querini sull’opportunità di ridurre le feste comandate, iniziata con un carteggio e proseguita a mezzo pamphlet, con un’eco nel saggio sulla Regolata divozion de’ cristiani. L’«esorbitanza delle feste» è riconosciuta come una causa (ancorché non la sola) della larga schiera di poveri e mendicanti negli Stati italiani in rapporto ad altri Paesi europei. Sono infatti i ceti più deboli, di chi «s’ha da guadagnare il pane colle arti e colle fatiche delle sue braccia», quelli maggiormente danneggiati dalla moltiplicazione delle feste di precetto. In un solo giorno di festa si spreca una quantità spropositata di lavoro produttivo; lavoro che altrimenti si tradurrebbe in reddito. E inoltre l’ozio alimenta il vizio: «Riducesi in fatti il santificar le feste di non pochi alle osterie, ai bagordi, ai giuochi leciti ed anche alle disonestà» (in Id., Opere, cit., pp. 941 e segg.).
La formula didascalica prescelta per il trattato Della pubblica felicità riflette la continua enfasi muratoriana sulla formazione delle élites. Un principato retto da una nobiltà ignorante, dove le logiche del sangue non ammettono forme di mobilità sociale, non può prosperare. I principi abbisognano di buoni ministri, e i ministri devono formarsi in buone scuole, dove apprendano la filosofia morale, la giurisprudenza, la storia e l’economia, intesa come scienza e arte del governo.
Muratori, in ciò più che mai figlio del suo tempo, muove da una concezione del sistema economico centrata sull’agricoltura e che affida alla manifattura e al commercio una funzione integrativa. È compito del governo elevare la produttività dell’agricoltura, a prescindere dall’entità del territorio disponibile. Non v’è terra veramente sterile: «Tutto dipende dall’intelligenza, dall’industria e dall’attività de’ villani» (Della pubblica felicità, in Id., Opere, cit., p. 1589).
I contadini devono dunque essere istruiti nelle tecniche agronomiche, specialmente in quelle più innovative che andavano fiorendo nell’Europa nordoccidentale. La biologia della riproduzione delle piante è parte di quel «libro della natura» che va indagato con lo stesso metodo della «fisica sperimentale» e ancor maggiore determinazione, vista la sua utilità al genere umano. Come sperare che i villani possano esserne edotti, se i nobili per primi non danno il buon esempio, consultando la trattatistica d’Oltralpe? Ma essi se ne vergognano e, per conseguenza, «altro recipe non sanno i nostri contadini, per fecondar le terre, che il letame» (p. 1593).
Per accrescere l’industriosità dei contadini «occorre in parte la forza e in parte il premio». Servono interventi infrastrutturali (canali, scoli, argini e bonifiche), magistrature che vigilino sulla loro esecuzione e manutenzione, esperti stranieri che apportino nuove competenze. Non meno importante appare il quadro normativo che disciplina lo sfruttamento dei suoli. Il legislatore deve rimediare alla frammentazione della proprietà fondiaria, mirando alla costituzione di possessioni di medie dimensioni, le più idonee a essere condotte in modo efficiente. Laddove infatti gli appezzamenti sono minuscoli o, viceversa, domina il latifondo, viene meno l’incentivo a sfruttare i suoli nel modo migliore. Soprattutto la legge deve purgarsi di ogni anacronistico residuo feudale: fedecommessi, commende e in generale diritti di godimento su cose altrui che siano d’ostacolo all’esercizio di una proprietà piena della terra. In tutto questo, è evidente, le pagine muratoriane precorrono di un cinquantennio la temperie giuridica napoleonica.
L’atteggiamento verso manifattura e commercio va letto nella cornice della dottrina mercantilista della bilancia commerciale che Muratori fa propria ma in forma tutt’altro che ingenua. È noto come, in base a tale visione delle relazioni economiche fra Stati, ovunque prevalente fra Cinque e Settecento, gli sforzi produttivi di ciascun Paese debbano essere indirizzati al mantenimento di una bilancia commerciale attiva. Dallo squilibrio, che si verifica quando le importazioni sopravanzano le esportazioni, ha origine un’emorragia di metalli preziosi verso le potenze straniere e rivali. Ne discende che il commercio d’esportazione – se non riguarda i grani, per i quali vale l’inversa regola – vada favorito, mentre la tassazione debba colpire aspramente le merci in entrata.
Tuttavia, quella dei beni d’esportazione è una categoria troppo eterogenea per prestarsi a facili generalizzazioni e Muratori non fallisce di riconoscere la differenza essenziale che corre fra merci a basso e ad alto valore aggiunto. Non sussiste vantaggio alcuno nell’esportare materie prime o semilavorati per poi ricomprarli a caro prezzo sotto forma di prodotti finiti. Con qualche investimento in conoscenze ci si può facilmente impadronire delle tecniche necessarie a completare il ciclo produttivo, divenendo esportatori di prodotti finiti. Non basta, insomma, che nelle campagne si coltivino il lino e la canapa e si producano lana e seta grezza: occorre che tali merci siano trasformate.
In tutte queste materie, la volontà riformatrice del principe è purtroppo destinata a scontrarsi con una forza d’inerzia che a tratti pare invincibile, ossia l’indole, «il genio del popolo stesso» (Della pubblica felicità, cit., p. 1617). Se la sua nobiltà è «avvezza ad un vergognoso far nulla», in Italia anche le plebi difettano di quell’industriosità, intraprendenza e amore per la fatica che si riscontra ad altre latitudini. Si tratterebbe invero di una conseguenza, e non già di una causa, della relativa arretratezza economica della penisola. Le istituzioni (non l’ambiente fisico, come per Montesquieu) modellano lo spirito umano; che condizioni favorevoli inneschino processi virtuosi ne è l’ovvio corollario. Pertanto, laddove fioriscono le arti e il commercio, i ceti sociali sono indotti «a gareggiare insieme per vivere con più agio, per accrescere il capitale della famiglia» e con esso la ricchezza della res publica.
L’Italia, adagiatasi sul «vivere moribus antiquis», ha da due secoli perduto la posizione di eccellenza economica di cui godeva a vantaggio di Francia, Inghilterra, Fiandre, Olanda e – Muratori l’osserva con un certo disappunto – financo degli Stati tedeschi. Non per questo il riformatore deve scoraggiarsi. In confronto all’ambizioso programma di governo intrapreso nella Russia di Pietro il Grande non v’è impresa che possa essere considerata temeraria: «Niuna città, niun paese ha l’Italia dove occorra tanto sforzo per mettere in buon sesto gli affari di un popolo» (p. 1618). La nota conclusiva, tuttavia, cede a una considerazione amara, rimandando al dramma di un popolo, non certo privo di genio e di glorie, eppur incapace di dominare il proprio destino:
Certo non manca l’ingegno agl’Italiani: manca chi introduca e accresca l’arti, e dia stimolo all’industria e al commerzio. E intanto gli oltramontani se ne portano il nostro danaro; e per maggior nostra vergogna ci spogliano anche delle nostre antichità, statue, pitture, manuscritti ecc. (pp. 1619-20).
Verso le arti e il commercio, il principe deve porsi come un buon padre di famiglia, senza tuttavia che la benevolenza loro accordata divenga una cambiale in bianco. Si è già detto dell’imposizione dei tributi: le attività mercantili sono meritevoli di tutela nella misura in cui esse contribuiscono al bene dello Stato. L’intervento pubblico non va posto in relazione ad alcun altro principio, men che meno astratto.
Pare incolmabile la distanza dalla visione sistemica e naturalistica di un Ferdinando Galiani o un Cesare Beccaria che negli stessi lustri annunciano un mondo nuovo, fatto di integrazione dei mercati e specializzazione produttiva. Mutatis mutandis, sostituito l’oikos con la polis, l’economia di Muratori rimanda ancora, dopotutto, all’oikonomia di Senofonte.
Si comprende allora il trattamento ambivalente che riceve, nella precettistica muratoriana, il lusso. È ammesso l’investimento in beni durevoli capaci di conservare il valore, come gli immobili e l’argenteria. È invece da evitare lo sperpero di denaro per l’acquisto di beni di consumo immediato, come le spezie, o altrimenti usurabili (carrozze, abiti, corredi, livree e ornamenti), o ancora soggetti a obsolescenza per le mode o la volubilità dei gusti, come gioielli e pietre preziose. Muratori giunge financo a raccomandare la sostituzione del tè con l’italianissima salvia che «non la cede a quello in buon odore e probabilmente lo supera in virtù» (p. 1639).
Ai nobili sempre desiderosi di distinguersi dai loro pari egli propone di cimentarsi in una differente, e ben più produttiva, forma di competizione:
Perché non mettersi ad alzare edifizi in pro del pubblico, come ponti, canali, Monti della carità, accademie utili per le scienze, seminari, biblioteche, ospizi, per impiegare in lavori la povera gente, spedali per soccorso degl’infermi e degl’invalidi, ed altre simili opere in benefizio della sua città? (p. 1637).
I movimenti a lungo raggio di merci, metalli e denaro spingono Muratori a pronunciarsi su una questione assai dibattuta al tempo. Nei due secoli trascorsi dalla scoperta dei ricchi giacimenti argentiferi americani, la massa di moneta circolante in Europa è andata crescendo men che proporzionalmente rispetto all’afflusso di metallo prezioso. Contrariamente a un’opinione diffusa che addebita il fenomeno alla tesaurizzazione, egli invita a ricercarne la causa nelle dinamiche del commercio internazionale. La dipendenza del Vecchio continente dall’Asia, dalle sue raffinate produzioni di «sete, tele, droghe e cose medicinali», costituisce una potenziale fonte di pericolo, specie a fronte della sobrietà degli orientali (o della loro superiorità tecnica, verrebbe da dire osservando i risultati della ricerca storica recente) che scarso interesse mostrano per le «manifatture del lusso europeo» (p. 1684).
Naturalmente, siffatto stato di cose era destinato a essere sovvertito, di lì a pochi decenni, dall’avvento della rivoluzione industriale e del colonialismo inglesi, con il loro impatto irreversibile sull’ordine geoeconomico mondiale. Ma altro è l’orizzonte delle preoccupazioni quotidiane di Muratori: quel microcosmo così distante dalle rotte della marineria britannica, tutto racchiuso fra le Alpi e il Vesuvio.
La situazione monetaria italiana riflette la frammentazione politica della penisola. Volentieri il nostro autore riformula la tradizionale invettiva contro i principi che alterano la moneta, alleggerendola in peso o titolo. Il beneficio che così facendo essi pensano di arrecare alle casse statali è soltanto apparente e destinato a essere più che compensato dal mancato gettito d’imposta. Tuttavia, Muratori riconosce che la politica monetaria è faccenda assai complicata, un «gran guazzabuglio» (p. 1686). Se, infatti, il valore estrinseco del denaro eguagliasse perfettamente l’intrinseco, si creerebbe un incentivo formidabile all’estrazione di moneta buona dallo Stato. L’esistenza dei diritti di signoraggio, di là da ogni abuso, è connaturata al mantenimento del sistema in equilibrio. Nulla però vieta agli Stati italiani di accordarsi per istituire una sorta di moneta unica (o, per meglio dire, uno standard monetario) d’oro e d’argento. La stabilità dei cambi costituirebbe la migliore garanzia.
L’ultimo capitolo della politica economica – e forse il più importante in una società preindustriale – riguarda l’annona. È opportuno che il principe sorvegli attentamente sull’approvvigionamento dei grani, accertando anzitutto che ministri e ufficiali a esso preposti non vi abbiano alcun interesse privato. L’ingordigia di fornai e mercanti non va contrastata «strangola[ndoli] con indiscreti calmieri» (p. 1624). Abbattere i prezzi a colpi di decreto significa esporre i consumatori – vale a dire i ceti più poveri della società – alle dannose ritorsioni dei venditori. Conviene invece che la mano pubblica sfrutti i meccanismi di mercato per ottenere l’effetto voluto, costituendo scorte di grani negli anni d’abbondanza per poi riversarle sulla piazza in tempo di carestia.
Il governo dell’economia è, in quanto ramo della politica sociale, non soltanto utile ma necessario. Scrive Muratori, in polemica con le emergenti teorie del naturalismo economico:
Corre un proverbio: che il mondo si governa da se stesso […]. Ciò non ostante per lo più noi troviamo che il mondo ha bisogno di chi lo diriga e corregga, essendo esso troppo proclive all’ingannare e all’ingannarsi e sempre militando il privato interesse contra quello del pubblico (Della pubblica felicità, cit., p. 1687).
È questa una perfetta sintesi dello spirito che anima il trattato di Muratori e, al fondo, tutto il suo pensiero riformatore. Pensiero percorso da fermenti di modernità illuministica, se la mano pubblica non deve complicare né ostacolare l’intraprendenza individuale, e piuttosto agire per rimuovere monopoli; dove il principe deve guardarsi da consiglieri intenti a perseguire interessi particolari e compagini sociali strenuamente attaccate ai loro privilegi. Ma pensiero parimenti consapevole che non è rimpiazzando la farraginosa e obsoleta articolazione economico-istituzionale dell’antico regime con un’anarchia del lasciar fare che si realizza il bene pubblico. Anzi. Il riformismo muratoriano è troppo meditato e maturo – e, certo, nutrito di etica cristiana – per professare la minima fede nell’idolo laico di un ordine naturale. Così, da preilluminista quale lo si è soliti catalogare, egli ha il singolare destino di trascendere l’Illuminismo.
Capolavoro di acume critico e indipendenza di giudizio, la silloge di precetti per il principe appare al lettore contemporaneo come la teorizzazione più limpida e precoce di una ‘via intermedia’ alla modernità, invero scarsamente battuta nell’esperienza storica, eppure sostanziata di una conoscenza intima e profonda della condizione umana.
Piena esposizione de i diritti imperiali ed estensi sopra la città di Comacchio, s.l. 1712.
Della carità cristiana, in quanto essa è amore del prossimo, Modena 1723.
Annali d’Italia dal principio dell’era volgare sino all’anno 1500, Milano 1744-1749.
Della forza della fantasia umana, Venezia 1745.
Della regolata divozion de’ cristiani, Venezia 1747.
Della pubblica felicità, oggetto de’ buoni prìncipi, Lucca 1749.
Risposta di Lamindo Pritanio alla nuova scrittura dell’eminentissimo cardinale Angiolo Maria Querini intitolata “La moltiplicità de’ giorni festivi ec.” [1748], in Id., Scritti inediti, a cura di C. Ricci, Bologna 18802.
Rudimenti di filosofia morale per il Principe ereditario di Modena [1714], in Id., Scritti inediti, a cura di C. Ricci, Bologna 18802.
Opere, a cura di G. Falco, F. Forti, Milano-Napoli 1964.
G. Bezzi, Il pensiero sociale di L.A. Muratori, Torino 1922.
Miscellanea di studi muratoriani, Modena 1933.
Miscellanea di studi muratoriani, Atti e memorie del Convegno di studi storici, Modena (14-16 aprile 1950), Modena 1951.
F. De Carli, Lodovico Antonio Muratori: la sua vita, la sua opera e la sua epoca, Firenze 1955.
Terza miscellanea di studi muratoriani, Modena 1963.
F. Venturi, Settecento riformatore, 1° vol., Da Muratori a Beccaria (1730-1764), Torino 1969.
L. Pucci, Lodovico Ricci. Dall’arte del buon governo alla finanza moderna (1742-1799), Milano 1971.
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C. Continisio, Il governo delle passioni. Prudenza, giustizia e carità nel pensiero politico di Lodovico Antonio Muratori, Firenze 1999.