ARIOSTO, Ludovico
Nacque in Reggio d'Emilia, forse lo stesso giorno che fu battezzato, 8 settembre 1474. Un ramo della sua stirpe, ch'"ebbe l'antiqua origine in Bologna", e il cognome da Riosto, piccolo borgo tra gli Appennini nella valle della Savena, s'era trasferito a Ferrara nel secolo XIV, poi che la bella Lippa (Orl. Fur., XIII, 73) piacque al marchese Obizzo II. Il padre di Ludovico, Niccolò, andato a Reggio nel 1472 per tenervi l'ufficio di capitano della cittadella, vi aveva sposato Daria Malaguzzi. Nel 1481 fu trasferito a Rovigo; ma l'anno dopo dové lasciare questa città minacciata dai Veneziani, e ridursi a Reggio prima, poi a Ferrara.
Ludovico, al principio del quindicesimo anno (1488), fu obbligato dal padre a studiare leggi nell'università. Preferiva le lettere; una volta, per una solennità universitaria, recitò un suo carme latino. In capo a cinque anni, posto dal padre in libertà "dopo molto contrasto", attese allo studio "dei latini suoi" sotto la guida di un valente maestro, Gregorio Elladio di Spoleto. Dal 1495 al 1500, "gli anni suoi tra aprile e maggio belli", a Ferrara, o a Reggio presso i cugini Malaguzzi, scrisse versi "in più d'una lingua e in più d'un stile"; nel '98 ebbe modesto impiego e stipendio nella corte ducale. Morto il padre nel 1500, lasciando buona eredità, ma dieci figli, toccò a Ludovico, primogenito, assumersi le cure della famiglia. Nel 1502 fu nominato capitano della rocca di Canossa; nel 1503 entrò al servizio del cardinale Ippolito d'Este, il quale "non lo lasciò fermar molto in un luogo", ma non si hanno notizie di suoi viaggi sino al 1506, quando il cardinale lo mandò a Bologna. Scopertasi allora la congiura ordita contro il duca Alfonso e il cardinale dai loro fratelli Ferrante e Giulio, egli ne tolse l'argomento di una lunga egloga allegorica. L'anno seguente portò le congratulazioni d'Ippolito alla sorella marchesa di Mantova, che aveva partorito un bambino, e le fece "passare due giorni con piacere grandissimo con la narrazione dell'opera che componeva", cioè dell'Orlando furioso. Una sua commedia, la Cassaria, fu fatta rappresentare dal cardinale nel 1508, un'altra, I Suppositi, nel 1509.
Durava intanto la guerra mossa alla repubblica di Venezia dalla lega di Cambrai. Contro il duca Alfonso, che aveva riacquistato il Polesine di Rovigo e occupato altre terre dei Veneziani, questi mandarono un'armata, che, risalita per il Po alla Polesella, cominciò a innalzarvi bastioni: corse alla difesa "la famiglia" del duca e quant'altra gente si poté raccogliere; anche Ludovico partecipò al combattimento, finito con la fuga dei Ferraresi. Poco dopo, il 16 dicembre 1509, dové partire in gran fretta alla volta di Roma, "mutando ogni ora vetture", per domandare aiuti al papa Giulio II. A Roma tornò due volte nel 1510, per tentar di placare "la grande ira" del papa contro il cardinale Ippolito, che si era fatto eleggere abate della badia di Nonantola, parlò coraggiosameme e abilmente, ma la seconda volta, come scrisse lo stesso cardinale "fu minazato d'essere buctato in fiume se non se le toleva davanti". Poi, quando Giulio volle privare del ducato Alfonso, e l'esercito pontificio, occupata Modena, minacciava Reggio, vi andò Ludovico e, con il capitano della cittadella e i cittadini, provvide alla difesa. Dopo la battaglia di Ravenna (aprile 1512) vinta dai Francesi e dalle artiglierie del duca, questi volle riconciliarsi col papa, e perciò, nel mese di luglio, andò a Roma accompagnato dall'Ariosto. Sospettando delle intenzioni di Giulio, fuggirono travestiti; e solo il 10 ottobre Ludovico poté scrivere da Firenze "di essere uscito dalle latebre e dalli lustri delle fiere e passato alla conversazione degli uomini".
Eletto papa (1513) il cardinale Giovanni dei Medici (Leone X), che gli aveva "dimostrato sempre amore e benignità, e fatto molte volte offerte", Ludovico, pieno di speranze, corse in fretta a Roma, dove il papa l'accolse affabilmente, ma non gli fece "offerta alcuna". Trovandosi il 24 giugno di quell'anno a Firenze, v'incontrò la bellissima Alessandra Benucci, moglie di Tito Strozzi, andata colà da Ferrara, e per lei concepì quell'amore che durò fino alla morte. Poiché il cardinale voleva che Ludovico lo raggiungesse a Roma e prendesse gli ordini sacri, egli, per mezzo d'un cugino, gli fece sapere di non aver modo di stare a Roma con la meschina entrata di 150 lire; che era nella peggior condizione, "senza panni, senza un quatrin, né modo di cavarne"; che "per niente el voleva esser prete", e che "se sua signoria l'avesse permesso, si sarebbe acconciato con qualche altro". Nel 1516 pubblicò il poema. Ancora in quell'anno sbrigò a Firenze e a Milano faccende del cardinale, dimostrandosi "bono mercatante"; ma nel 1517 non lo volle seguire in Ungheria, allegando ragioni di salute e di famiglia, e "lo disse a viso aperto e non con fraude". L'anno seguente passò al servizio del duca, e ne fu contento, perché di rado l'allontanava da Ferrara, e poco molestava i suoi studî; così poté terminare la commedia Il Negromante per soddisfare il desiderio di Leone X, e preparare la seconda edizione del poema (1521). Ma nel '22, essendo tornata la Garfagnana in possesso del duca, questi lo mandò a governarla. La trovò divisa in fazioni, infestata da banditi; si sforzò di rimettervi ordine e sicurezza; ma invano, perché aveva poche forze, e perché il duca l'ammoniva continuamente a sopportare e procedere con prudenza, così che "se fosse stato un leone, sarebbe diventato un coniglio". Tornato a Ferrara nel 1525, non ebbe altre molestie; diresse la rappresentazione delle sue commedie, si costruì la casa "piccola ma sufficiente", corresse e accrebbe il poema, che fu ristampato nel 1532. Morì il 6 luglio 1533.
Opere minori. - Tra le sue composizioni latine (carmi esametri, odi, elegie, epigrammi, epitaffi, giambi, in tutto una settantina) meritano particolare menzione l'epitalamio per le nozze di Lucrezia Borgia con Alfonso d'Este (1500), l'epicedio per la morte della madre dell'amico Alberto Pio, le odi affettuose per la morte del padre e per lo sperato ritorno di Gregorio Elladio dalla Francia, quella per la valente cantatrice Giulia, l'epitaffio del re Ferdinando II d'Aragona (1496), l'ode e l'elegia dirette al suo caro cugino Pandolfo. Attestano lo studio dei poeti latini, Catullo, Virgilio, Orazio, Ovidio, dai quali egli tolse espressioni e immagini per manifestare sentimenti e concetti suoi, secondo il metodo degli umanisti.
Anche dagli antichi dedusse tipi, situazioni, incidenti e motti per le sue commedie, inserendoli in orditi di sua invenzione, in modo "che Terenzio e Plauto medesimi, risorgendo, non l'avrebbero avuto a male, e di poetica imitazione più presto che di furto gli avrebbero dato nome". La Cassaria e I Suppositi, prima scritte in prosa, furono poi verseggiate, quella con maggiori, questa con minori modificazioni; ma il marchese di Mantova le preferiva in prosa, forse per la monotonia e lo stento degli endecasillabi sdruccioli non rimati, che l'autore adottò per la somiglianza loro coi senarî giambici latini. La tela di quelle due si accosta più agl'intrecci delle commedie latine, presentando la Cassaria l'amore di due giovani per due schiave, che riescono ad ottenere, I Suppositi tre supposizioni o sostituzioni di persone e, in fine, un'agnizione o riconoscimento. Più nuova o più moderna la tela del Negromante e della Lena (1528). In tutt'e quattro hanno parte preponderante i servi, i quali, con le loro astuzie e furberie a vantaggio dei padroni, mettono in movimento, ingarbugliano e dipanano l'intreccio. Li sostituisce un vecchio servizievole nell'ultima, I Studenti, che Ludovico lasciò interrotta alla terza scena del quarto atto; finita poi da suo fratello Gabriele, fu intitolata La Scolastica. Tra i caratteri, appena abbozzati, ha rilievo più spiccato quello della Lena, nella commedia che da lei prende il titolo; troppo semplici e credenzoni i vecchi padri in tutte, padri e figli nel Negromante. I dialoghi, come osservò il Machiavelli, mancano di sali; ma, di tratto in tratto, li avvivano le allusioni ironiche ai costumi del tempo. Nella Cassaria, molto dell'azione s'aggira intorno a una cassa di filati d'oro data in pegno per inganno, e ripresa a forza; nella Lena, intorno a una botte, che nasconde un innamorato; nel Negromante, intorno a una cassa, che fa lo stesso ufficio.
I sette componimenti in terza rima conosciuti col titolo di Satire, sono epistole dirette a parenti e ad amici, le quali non solo ci hanno tramandato molti particolari della biografia dell'A., ma rispecchiano schiettamente il suo carattere. Figlio devoto, fratello affezionato, discepolo riconoscente, amico a tutta prova, è una bella figura d'uomo. Gli sarebbe piaciuto vivere vita modesta e tranquilla, tutto dedito alle Muse, vicino alla donna amata; i bisogni della numerosa famiglia e suoi l'obbligarono a servire in corte, dove il cardinale lo mutò in cavallaro, il duca in governatore di gente riottosa e manesca. Errarono quei biografi e quei critici, che se l'immaginarono perpetuamente distratto dietro ai suoi sogni, dimentico della realtà, inetto alla vita pratica; le delicate incombenze che eseguì per il cardinale e per il duca, e i tre anni del governo della Garfagnana provano l'opposto. Il tono generalmente bonario delle Satire lascia spesso trasparire con ironia l'insofferenza e la scontentezza, come quando allude alle sue relazioni col cardinale, alla curia romana, alla corte e al popolo di Ferrara, alle donne ed ai loro difetti. Si comprende che liberi sfoghi di disinganni e di dispetto non fossero messi a stampa se non dopo la morte di lui. L'esposizione senza pretesa, familiare, è rallegrata di tanto in tanto da apologhi, favole, e graziosi quadretti.
Sono certamente dell'A. 5 canzoni, 41 sonetti, 12 madrigali, 26 capitoli; altri gli sono attribuiti, della cui autenticità si dubita. Una delle canzoni racconta alla Benucci come la vide in Firenze, e come quella vista gl'ispirò l'amore. Di amore trattano quasi tutti i sonetti, i madrigali e i capitoli, senza sdilinquimenti e smancerie petrarchesche, schiettamente, talora con molto calore, soprattutto con ammirazione per le belle forme muliebri.
L'A., prima del Furioso, aveva cominciato in terza rima un poema per cantare "l'arme e gli affanni di amore" d'un Obizzo d'Este, andato in Francia al tempo di Filippo il Bello (morto nel 1314); ne scrisse solo 211 versi, e lo lasciò stare.
In prosa scrisse l'Erbolato, che ricorda certi antichi componimenti francesi (Dit de l'Erberie, l'Erberie), introducendovi il medico Antonio di Faenza a dire ampollosamente le lodi della medicina, di sé, d'un suo maraviglioso specifico per tutte le malattie, del quale si può avere un bossolo per la tenue moneta di un grosso. Finisce: "Deh, non lasciate fuggire l'occasione, che se rivolge il calvo dove ora ella vi porge la capillata fronte, non so quando altra volta sì benigna sia per ritornarvi nelle mani". La stessa espressione usa il re Marsilio nel canto XXXVIII del Furioso.
L'Orlando Furioso. - L'A. scrisse al marchese di Mantova d'aver dato principio al suo libro, all'Orlando Furioso, "continuando la invenzione del conte M. M. Boiardo". Non che avesse rappiccato il racconto dove l'aveva lasciato interrotto il Boiardo: Fiordispina, della quale questi narrava negli ultimi canti che s'era innamorata di Bradamante, credendola un cavaliere, non riappare nel Furioso prima del canto XXV. Cominciando, l'A. riprende dall'Innamorato cinque personaggi: Angelica, Rinaldo, Ferraù, Sacripante e Bradamante. Angelica, profittando della sconfitta del campo cristiano, si sottrae alla custodia del vecchio Namo; Rinaldo insegue il suo cavallo Baiardo, che gli è fuggito; Ferraù tenta di ripescare l'elmo, che gli è caduto nel fiume; Sacripante ritrova Angelica; Bradamante prosegue la ricerca di Ruggiero. Ma, nell'Innamorato, Angelica era stata affidata a Namo diciassette canti prima dell'ultimo; Rinaldo aveva veduto fuggire Baiardo cinque canti prima; Ferraù perduto l'elmo nove canti prima; Sacripante, che Galafrone aveva mandato a Gradasso per domandargli soccorsi nel canto XLVIl, non aveva, poi, avuto alcuna parte all'azione. Ripresentando i personaggi, l'A. richiama brevemente gli antecedenti, in modo che si possa leggere il suo poema senza bisogno di aprire quello del Boiardo; del quale qualche volta riproduce la trama, come negli episodi di Astolfo tratto da Alcina sulla balena, e di Lucina liberata dall'Orco, ma sempre per migliorare e compiere. Continuare, per lui, vale non solo aggiungere di suo nuovi particolari, ma anche analizzare e rappresentare impressioni e sentimenti: per esempio, nel primo canto, lo spavento di Angelica che fugge, l'incertezza quando ode la voce del cavaliere sconosciuto, la speranza quando ravvisa in lui Sacripante, il dispetto e l'ira quando vede avvicinarsi Rinaldo; lo stupore e la gioia di Sacripante all'improvviso apparire di Angelica, il dispetto e la vergogna quando ode d'essere stato abbattuto da una donzella; la cortesia di Ferraù, che pronto si oppone a Rinaldo per difendere Angelica e poi lo prende in groppa al suo cavallo, e il terrore, quando, di mezzo al fiume, sorge l'ombra dell'Argalia a rimproverarlo. Continuare significa per l'A. sciogliere gli enigmi, che il Boiardo aveva posti. Perché Baiardo era fuggito da Rinaldo? L'A. risponde: Per guidare il suo signore alla donna amata. Il Boiardo aveva solo accennato che il cavallo condusse Rinaldo a una foresta, dove incontrò alta ventura; che il nano guidò Gradasso e Ruggiero a una torre; che, mentre Aquilante e Grifone s'affaticavano invano a vincere Orrilo, sopraggiunse un cavaliere, il quale aveva preso un gigante. Accennava, promettendo di ripigliare il racconto più tardi, come non poté fare. Nel Furioso, Rinaldo incontrerà nella foresta prima Ferraù, poi Sacripante, con i quali combatterà; Gradasso e Ruggiero giungeranno al castello di Atlante; il cavaliere, che aveva preso il gigante, sarà Astolfo. Rinaldo, rimontato su Baiardo, galopperà verso Parigi; Gradasso e Ruggiero saranno abbattuti e presi da Atlante; Astolfo metterà a morte Orrilo. Atlante cavalcherà l'ippogrifo maraviglioso, e abbaglierà gli occhi con lo splendore dello scudo. Astolfo, il Boiardo l'aveva lasciato sulla balena di Alcina: l'A., dopo averlo fatto mutare in mirto dalla maga, lo farà restituire alla sua forma vera da Melissa. Questa, personaggio affatto nuovo, sarà la protettrice di Bradamante, e si opporrà ai disegni e alle arti di Atlante protettore di Ruggiero. Così continua l'A., ossia costruendo un edifizio tutto suo sopra un disegno, del quale aveva appena segnato qualche linea il Boiardo. Altri personaggi, Dudone, Malagigi, Viviano, quasi sperduii nella seconda parte (XV e XXIII) dell'Innamorato, riappariranno via via più tardi.
Cominciando, l'A. annunzia che canterà non propriamente la guerra di Agramante con Carlomagno; ma "le donne, i cavalier, l'armi, gli amori, le cortesie, le audaci imprese", che furono al tempo di quella; e dirà pure come Orlando per amore perdette il senno, e le geste di Ruggiero, "il ceppo vecchio" degli Estensi, signori di Ferrara. Undici canti passano senza che vi si parli della guerra; nel XlI, Orlando fa strage delle schiere di Alzirdo e Manilardo avviate al campo di Agramante. Nel XIV, Agramante, fatta la rassegna del suo esercito, dà l'assalto a Parigi; nel XVI, Rodomonte penetra nella città, che sarebbe presa, se non giungesse Rinaldo con un esercito di Scozzesi e d'Inglesi; nel XVIII, i Saraceni, respinti, sono assediati nel loro accampamento. Solo dopo altri nove canti (XXVII), Agramante costringe Carlo a rinchiudersi in Parigi; dopo altri quattro, è sconfitto e fugge ad Arli (XXXI). Colà i suoi più forti guerrieri s'impigliano in aspre contese, mentre in Africa invade il suo regno un esercito comandato da Astolfo, e assedia la capitale Biserta. Nel canto XXXIX, i Saraceni, innanzi ad Arli, sono battuti; poco dopo, anche la loro armata è distrutta dall'armata che Dudone ha condotta dall'Africa. Scampano a stento Agramante e Sobrino in un'isola deserta, dove approda anche Gradasso. Un combattimento tra essi da un lato, e, dall'altro, Orlando, Oliviero e Brandimarte, pone termine alla guerra, con la vittoria dei cavalieri cristiani, o piuttosto di Orlando, perché Brandimarte muore, e Oliviero è ferito gravemente (XLII). A questo nucleo si annodano, quale più, quale meno strettamente, le fila della vastissima orditura.
I personaggi principali. - Orlando fu gran tempo innamorato della bella Angelica nel poema del Boiardo. Grande novità; ma quell'amore fu torpido, poco o punto espansivo, supinamente sottomesso ai voleri, ed anche ai capricci della fanciulla, eppure incostante, perché il paladino si lasciò prendere ai vezzi e alle lusinghe della perfida Origille una prima e una seconda volta. Né solo per questo la nobile figura tradizionale di Orlando appare diminuita, abbassata dal Boiardo, il quale gli fece battere i denti in modo che il suono si sentisse più di là d'un tiro d'arco, divorare quarti di cavallo, superare l'un dopo l'altro innumerevoli ostacoli, sfacchinarsi nel giardino di Falerina e nella dimora sotterranea di Morgana senza scopo plausibile, o col solo scopo di dimostrare ciò che di dimostrazione non aveva bisogno, il coraggio indomabile e la forza prodigiosa dell'eroe. L'A. lo purificò, gli fece compiere imprese e atti da cavaliere, raddrizzare i torti, proteggere gl'innocenti e gli oppressi, castigare i malvagi.
Nel Furioso, Orlando difende Olimpia prima dal feroce Cimosco, poi dall'Orca, libera Isabella dai ladri, salva Zerbino condannato a morte, si toglie l'elmo quando deve combattere Ferraù che non l'ha, depone Durindana quando vede che Mandricardo non porta spada. Il suo amore è divenuto passione così profonda e così ardente, che ne perde la ragione. La rappresentazione della sua pazzia, disse il De Sanctis, è un crescendo di particolari e di colori, che rendono naturalissimo un fatto così straordinario. Ma, per intendere pienamente questo fatto, bisogna ricordare i fatti che lo precedono, il dolore cocente per la scomparsa di Angelica, il sogno pauroso che gli fa prevedere sventure di lei, la ricerca per tutta la Francia durata molti mesi tra la speranza di rintracciarla e il timore di perderla per sempre, i disinganni provati nell'isola di Ebuda, dove crede di dover salvare dall'Orca Angelica, e salva Olimpia, nella caverna, dove crede di dover liberare Angelica, e libera Isabella, nel palazzo incantato, dove vede un cavaliere portare sull'arcione Angelica, la quale a lui domanda aiuto e poi lo chiama da una finestra, e non è se non finzione del mago Atlante. Peggio, quando giunge la vera Angelica, e subito gli sparisce dinanzi. Così Angelica diventa pensiero fisso, che, come tarlo, gli rode incessantemente il cervello. Quando egli giunge al boschetto, nel quale scopre che Angelica s'è data a Medoro, è già interamente debilitato, malato.
Angelica, involontaria cagione della pazzia, non è più, come nell'Innamorato, lusingatrice, civetta, bugiarda e, una volta, odiosa, perché deliberatamente manda Orlando a morte certa, a un'impresa dalla quale sa che egli non potrà tornare, e se prova un po' di rimorso, lo fa subito tacere. Nel Furioso non è così cattiva; se porta via l'elmo di Orlando mentre questi combatte con Ferraù, vuol solo fare uno scherzo; infatti, quando vede l'elmo in mano di quel "brutto spagnuolo", si pente e si rimprovera. Infelice, esposta alle turpi voglie del vecchio eremita, imprigionata, condannata a morte orribile, ispira compassione. Riacquistato l'anello, che la rende invisibile, riprende gli spiriti, senza però giungere agli eccessi di prima. Non si sa quale sorte le riserbasse il Boiardo; quella che le assegna l'A. è stupendamente immaginata. Non ha sentito amore per nessuno di tanti re e cavalieri che l'hanno amata, eccettuato Rinaldo per effetto dell'acqua incantata; trova un bellissimo giovinetto ferito a morte, ne sente pietà, lo cura, lo risana; la sua pietà e la bellezza di lui aprono le porte all'amore, ed ella si riduce "a farsi moglie di un povero fante". Pare che il poeta, in una famosa apostrofe ai re e ai cavalieri che invano amarono Angelica (Fur., XIX, 31-32), la condanni; ma esso poeta ha pensato questa soluzione naturalissima, ben sapendo che l'amore appiana qualunque differenza di condizione sociale. Angelica e Medoro, avviati al Catai, scompaiono nel canto XXX; Orlando rinsavisce nel XXXIX. Riacquista il senno in modo miracoloso, per mezzo di Astolfo. Nella tradizione, Astolfo era leggiero, bizzarro, maldicente, ciarliero, di non molto valore; il poeta lo muta in esecutore dei disegni divini. Ripresa la forma umana per opera di Melissa, riavuta la lancia incantata, fornito dalla buona fata Logistilla d'un libretto da usare contro gl'incanti, e d'un corno "che ovunque s'oda fa fuggir la gente", fa cadere il gigante nella sua rete, recide il capello al quale era legata la vita di Orrilo, distrugge il palazzo incantato di Atlante e s'impadronisce dell'ippogrifo, caccia all'Inferno le Arpie, che molestavano il re Senapo di Etiopia, ascende al Paradiso terrestre, è portato da S. Giovanni alla Luna. Lì, tra le altre meraviglie, vede tutto quello che in terra si perde e, tra l'altro, chiusi dentro ampolle i senni degli uomini. Aspira parte del suo, e torna giù con la grande ampolla del senno d'Orlando. Ammaestrato da S. Giovanni, guarisce la cecità del Senapo, che gli fornisce un esercito, col quale assalire il regno di Agramante. Chiude in un otre il vento Noto perché non gl'impediscano l'andata le arene dell'Africa; cambia i sassi in cavalli per l'esercito; assedia Biserta; cambia le fronde in navi, che andranno ad assalire i Saraceni in Provenza. Orlando pazzo capita a Biserta; è riconosciuto, legato con corde, lavato sette volte nel mare; Astolfo gli tappa con erbe la bocca, gli accosta l'ampolla al naso, "che, nel tirar che fa il fiato in suso", la vuota tutta. Così la mente dell'eroe "ritorna al primier uso". Allora, non più malato di amore, ma "più che mai saggio e virile", dirige l'assedio e l'espugnazione di Biserta, uccide Agramante e Gradasso, fa medicare Sobrino e Oliviero, celebrare solenni esequie ed erigere degna sepoltura a Brandimarte in Agrigento, e torna in Francia.
Una delle ultime scene dell'Innamorato è quella, in cui Ruggiero e Bradamante s'informano delle loro stirpi, e s'innamorano. Come il Boiardo li avrebbe condotti all'altare, non si sa. L'A., che solo in 15 canti del poema non li introduce, frammette molti ostacoli alla loro unione. Nell'Innamorato, il mago Atlante, l'aio amoroso di Ruggiero, perduta ogni autorità, era stato costretto a secondare e soddisfare i capricci e le voglie del giovinetto. L'A. gli rafforza il proponimento di sottrarre il diletto alunno alla morte preveduta, e gli fornisce i mezzi di attuarlo, "il gran destriero alato", l'Ippogrifo, e lo scudo sfolgorante. Col primo può impunemente rapire donne e donzelle, tra cui la donna di Pinabello di Maganza; col secondo, togliere la vista e occupare i sensi ai cavalieri. Così riprende Ruggiero nel suo castello, e gli fa trovare buona compagnia. E, sulla strada che mena al castello, il poeta manda quel Brunello, che nell'Innamorato, in modo ben poco verosimile, aveva strappato dal dito di Angelica l'anello, "che faceva gl'incanti vani". Bradamante, cercando Ruggiero, incontra Pinabello e, informata da lui, animosamente s'avvia al castello; ma il traditore, con un inganno, la fa cadere in un precipizio. Laggiù, nella grotta dov'è sepolto il mago Merlino, la giovine è accolta da Melissa, la quale le mostra gli spiriti di coloro che discenderanno da lei, e le insegna come togliere l'anello a Brunello e vincere Atlante. Sparito il castello, Bradamante ritrova Ruggiero, ma subito dopo lo perde di nuovo, perché, salito incautamente sull'Ippogrifo, è trasportato lontano. A Bradamante resta il cavallo di lui, Frontino; egli, nell'isola della maga Alcina, passa i giorni in gioco e festa dimentico della fanciulla. Melissa, andata all'isola con l'anello, lo allontana da Alcina. Egli torna sull'Ippogrifo in occidente, abbaglia con lo scudo l'Orca, e salva Angelica, alla quale, perché la vista dello scudo non l'offendesse, ha infilato al dito l'anello. In questo schema il poeta innesta alcune delle sue più mirabili scene, il volo di Atlante sull'Ippogrifo e il suo duello con Bradamante, la discesa di Ruggiero nell'incantevole isola di Alcina, il suo colloquio col mirto, che fu Astolfo, l'apparizione di Melissa, che ha assunto le fattezze di Atlante per rimproverarlo, il combattimento tra lui sull'Ippogrifo e l'Orca, i suoi vani tentativi di prendere Angelica dopo che questa, postosi l'anello in bocca, è divenuta invisibile.
Atlante attira il giovine in un palazzo incantato, dove si lascia prendere anche Bradamante; ma fa svanire il palazzo Astolfo, con l'aiuto del libretto di Logistilla. Bradamante esige da Ruggiero che la domandi al padre e si battezzi. Andando insieme, incontrano Pinabello. Bradamante, che non ha seguito i consigli di Melissa non uccidendo né Brunello, né colui che, nel palazzo incantato, le è apparso nella forma di Ruggiero, ed era il mago, veduto Pinabello, si vuol vendicare, lo assale, l'insegue. Allora i due amanti si separano e si sperdono. Bradamante riceve dal cugino Astolfo il cavallo Rabicano e la lancia incantata, di cui egli non ha più bisogno. Ella se ne va a Marsiglia ad aspettare Ruggiero. Questi, quando sa assediato Agramante, suo re e suo congiunto, sente il dovere di non abbandonarlo; perciò Bradamante lo aspetta invano per venti giorni, dopo i quali alla sua ansietà si mescono dispetto e cruccio. Sente dire che egli sposerà Marfisa; in preda alla disperazione, vorrebbe morire; ma poi risolve di vendicarsi. S'arma, va ad Arli, abbatte con la lancia incantata parecchi guerrieri, tra cui Ferraù; manda a sfidare Ruggiero, che, tra la maraviglia e il timore di aver perduto l'amore di lei, non sa che risolvere. L'impetuosa Marfisa affronta Bradamante; ma, con sua grande vergogna e stizza, è gettata a terra. Mentre Ruggiero guarda stupito le prodezze di Bradamante, questa gli corre addosso adirata; ma l'amore le impedisce "di porlo a terra e fargli oltraggio espresso". Ruggiero le fa cenno di seguirlo in un boschetto presso una tomba. Sopraggiunge Marfisa; Bradamante, riprega dall'ira, volendo reciderle il capo, getta la lancia e cava la spada. Ruggiero s'intromette per separarle; Marfisa si volta contro di lui che, infine, perduta la pazienza, caccia con forza una punta verso di lei, ma colpisce un cipresso. Ed ecco uscire dalla tomba una voce: "Fermatevi, siete fratelli!". È la voce di Atlante.
La bellezza di queste scene drammatiche è ammirata anche da chi non riconosce all'A. molta capacità d'invenzione; non meno degna di ammirazione deve parere l'analisi dei sentimenti di Bradamante, disperazione, gelosia, brama di vendetta, ira, il suo arrossire quando dice a Ferraù che vorrebbe misurarsi con Ruggiero, e il suo gridare all'amante: "Guardati", nel punto stesso che "gli sprona contro".
Molto più infiammato e operoso l'amore di Bradamante che non quello di Ruggiero; per attenuare il divario, l'A. aggiunse un'altra serie di difficoltà, tra le quali il giovine dimostrasse forte la sua passione e nobile il carattere. Per terminare la loro guerra, Agramante e Carlo dispongono un duello tra due campioni, Rinaldo e Ruggiero. Questi, se vincesse il fratello di Bradamante, le sarebbe odioso, perderebbe la speranza di sposarla; ella, dal canto suo, non sa rassegnarsi all'idea che l'amato debba morire; ma, se morisse Rinaldo, perderebbe fratello e sposo. Agramante, indotto da Melissa, che si finge Rodomonte, non mantiene i patti; sconfitto, fugge per mare. L'onore impone a Ruggiero di seguirlo. Una tempesta lo getta sopra un isolotto, dove un eremita lo converte e battezza. Va poi a Lipadusa, dove è giunto Rinaldo, che gli promette la mano della sorella. Ma i genitori, Amone e Beatrice, l'hanno promessa a Leone, figlio dell'imperatore di Costantinopoli. Nuovo contrasto fra l'amore e il dovere; Bradamante non deve disobbedire ai genitori, Ruggiero li deve rispettare. Disperato, egli va in Oriente col proposito di uccidere Leone; aiuta maravigliosamente i Bulgari contro i Greci, ma è preso a tradimento, e consegnato alla sorella dell'imperatore, della quale ha ucciso il figlio. Leone, che ha ammirato il valore di lui, lo fa liberare. Bradamante ottiene da Carlo di non sposare se non colui che la guadagnerà con le armi. Ella spera che debba essere Ruggiero; ma questi è pregato da Leone di combattere in vece sua con la fanciulla. Nuovo contrasto nell'animo del giovine tra la gratitudine e l'amore; ancora una volta l'amore cede. Ruggiero, sconosciuto, non è superato da Bradamante; poi se ne va in una foresta risoluto a darsi la morte. Leone generosamente rinunzia alla fanciulla. Le nozze si celebrano con magnificenza straordinaria. L'ultimo giorno, si presenta Rodomonte a sfidare Ruggiero, accusandolo di tradimento al suo re ed alla sua fede. Con la morte di Rodomonte, termina il poema.
Nella trama dell'Orlando Furioso ricompaiono altri personaggi dell'Innamorato, Rinaldo, Brandimarte e Fiordiligi, Marfisa, Ferraù, Sacrìpante, Rodomonte, Mandricardo, Gradasso, ecc.; e si presentano molti personaggi nuovi, Ginevra e Ariodante, Olimpia e Bireno, Isabella e Zerbino, Cloridano e Medoro, Gabrina, Guidone, Martano, Marganorre, Leone, ecc. Nuovi si possono considerare anche Doralice, che nell'Innamorato appariva solo effigiata sulla bandiera di Rodomonte, e Alcina, della quale non si sapeva se non che aveva attirato Astolfo sulla balena. Dei primi, alcuni come Ferraù, Sacripante e Gradasso non hanno più nell'azione la larga parte che avevano; altri sono più o meno profondamente modificati. La purezza e la gentilezza di Fiordiligi non sono più intaccate da certi pensieri, né da certi atti che non le facevano onore. Marfisa ritiene la primitiva impulsività, ma non la smargiasseria, per cui troppo somigliava a un Capitano Spaventa; ora gl'impulsi le vengono da giusti o generosi motivi; né ora inseguirebbe Brunello per quindici giorni cibandosi di sole foglie. Rinaldo ha cessato di essere il perpetuo ribelle e rissoso, ubbidisce a Carlo, si sottomette alla volontà dei suoi genitori. È sempre l'invitto Rinaldo di una volta, prova l'innocenza di Ginevra, uccide Dardinello, è campione di Carlo nel duello che dovrebbe porre termine alla guerra; ma, tutto sommato, resta figura secondaria. Il duello è interrotto; a Lipadusa giunge troppo tardi, a cose fatte. La passione per Angelica, cagionata dalla fonte dell'amore, non lo tormenta se non dopo la notizia delle nozze di lei, e il tormento finisce ben presto con la bevuta alla fonte dell'odio. Non doveva il poeta farlo impazzire come Orlando. I personaggi nuovi dànno occasione ad episodî; poi, l'un dopo l'altro, spariscono. Tra gli episodî, ha singolare importanza quello di Cloridano e Medoro. Vanno a cercare il corpo del loro re Dardinello; Cloridano è ucciso, Medoro ferito; Angelica lo guarisce e lo ama; per questo amore impazzisce Orlando.
Si comprende che i Saraceni non facciano miglior figura dei Cristiani. Di contro a Carlo, che parla ed opera saviamente e dignitosamente, Agramante, incapace di consiglio proprio, s'attiene ai pareri degli altri; non vale ad imporre la sua autorità ai suoi maggiori guerrieri contendenti tra loro; rompe i patti giurati per il duello di Ruggiero con Rinaldo; fugge innanzi a Bradamante e a Marfisa: però da ultimo rifiuta i patti offertigli da Orlando, combatte e muore meglio che non sia vissuto. Mandricardo, "che tutto il mondo vilipende", ha giurato di non portare spada se non toglie Durindana a Orlando; ma la toglie a Zerbino, tanto minore, e si vanta di averla tolta al paladino; s'impossessa di Doralice per forza, pretende di dare a Rodomonte, in cambio di lei, Marfisa. Rodomonte, superbissimo e atroce nelle battaglie, s'impossessa del cavallo di Ruggiero condotto da una donna che non lo può difendere, rifiuta di portar aiuto ad Agramante, è condannato a patire scorno da tre donne, Doralice, che gli preferisce Mandricardo, Isabella, che da lui si fa troncare il capo, e Bradamante, che lo abbatte dal cavallo. Il buon Sacripante, a nessuno secondo, pare abbia dimenticato la delicatezza di sentimenti e la prodezza, di cui diede prova innanzi ad Albracca. Acquista Ferraù l'elmo d'Orlando perché lo trova abbandonato per terra. Oltre Ruggiero e Marfisa, che si convertono alla fede cristiana, due soli Saraceni l'A. dipinge con simpatia, un giovinetto ed un vecchio, Dardinello e Sobrino. Il primo pensa, parla, combatte da prode; quando muore, merita che il poeta adatti a lui la bella similitudine virgiliana del fiore reciso dal vomere e del papavero, che cade per soverchio umore. Sobrino, savio nei consigli, gagliardo con la spada in mano, sarà degnamente onorato da Orlando, e passerà al cristianesimo.
Alla folla dei guerrieri e delle donne si mescolano, e agiscono, il Silenzio, la Discordia, la Frode, lo Sdegno, creature fittizie, le quali nella fantasia del poeta assumono aspetto di realtà, ed esseri soprannaturali, fate, demoni, folletti, l'Arcangelo Michele. Dio stesso manda Michele al Silenzio perché celatamente faccia giungere a Parigi l'esercito condotto da Rinaldo; lo manda alla Discordia perché le imponga di spargere zizzanie e liti nell'esercito di Agramante. Il poeta attribuisce alla Discordia una lunga serie d'incidenti, che, in verità, sono effetto dei puntigli, degl'interessi, delle passioni di sei guerrieri, "color che son detti i più forti". Rodomonte s'adira contro Mandricardo, che gli ha rapito Doralice; Mandricardo contro Ruggiero, che porta la stessa sua insegna, l'aquila bianca; Ruggiero contro Rodomonte, che s'è impadronito del suo cavallo; Marfisa contro Mandricardo, che ha preteso di darla a Rodomonte in cambio di Doralice; Gradasso pretende da Mandricardo la spada di Orlando; Sacripante esige che Rodomonte gli restituisca Frontino, che già fu suo. Le cagioni sono futili, le contese e le zuffe gravi, tragiche, raccontate con tutta serietà. L'A., aggruppando con maravigliosa abilità questo groviglio di risse, non ha punto voluto far apparire ridicola la cavalleria, né qui, né altrove. Al tempo suo, e prima e dopo, ogni menoma offesa, vera o presunta, era considerata dal cavaliere gravissima; si consideri che di questo modo di pensare durano ancora oggi le tracce.
L'elemento comico, il drammatico e il meraviglioso. - Non manca nel Furioso il comico, ma è misto al serio e al drammatico, come accade nella vita. Ruggiero, che brancola e abbraccia l'aria sperando di abbracciare Angelica; le donne omicide e Guidone e la stessa virile Marfisa, che fuggono al rimbombo del corno di Astolfo; Zerbino costretto ad accompagnare e proteggere la brutta vecchia Gabrina, alla quale Marfisa ha fatto indossare le vesti della donzella di Pinabello; Gabrina portata via dal cavallo, a cui Mandricardo ha levato la briglia; Rodomonte attonito e smarrito quando Doralice confessa di aver più caro Mandricardo; la Discordia, che gode di vedere in capitolo "volar pel capo ai frati i breviali"; questi ed altri sono incidenti comici. Dopo che è impazzito, Orlando commette incredibili stranezze, che muovono a riso; ma, prima, merita rispetto, ammirazione, commiserazione. Il buonumore dell'A. si esprime liberamente e giocondamente anche in tre novelle, quella di Fiammetta raccontata a Rodomonte, e quelle che Rinaldo ode raccontare durante il suo viaggio per l'Italia.
Insieme con gl'incidenti comici e le novelle grassocce, quante scene suscitano ben diverse impressioni! Angelica e Olimpia, bellissime fanciulle legate allo scoglio perché le divori l'Orca, Olimpia abbandonata nell'isola dal perfido Bireno; la pietà di Medoro per il suo re, e la sua caduta sotto il colpo del cavaliere villano; l'agonia di Zerbino e lo strazio d'Isabella, che non lo può soccorrere; Brandimarte che muore pronunciando il nome della sua Fiordiligi; i tristi presentimenti e il cordoglio inconsolabile di Fiordiligi, che si chiude accanto alla tomba del marito; i lamenti, il cruccio, la disperazione di Bradamante nella vana attesa di Ruggiero, e quando crede di averlo perduto per sempre; Ruggiero che deciso ad uccidersi, s'accomiata dal suo cavallo, ecc. In situazioni drammatiche, anche Doralice, anche Atlante sanno trovare accenti di singolare efficacia.
L'anello di Angelica e la lancia dell'Argalia, passando dall'Innamorato al Furioso, producono nuovi e stupendi effetti. A questi oggetti dotati di virtù portentose, l'A. aggiunge lo scudo di Atlante, il ferro bugio di Cimosco, il corno di Astolfo, il capello di Orrilo, la rete d'acciaio del gigante, il vasello rivelatore dell'infedeltà delle mogli. E aggiunge il cavallo che vola: l'albero che parla, il cagnolino che scuote da sé monete, perle, anella e vesti, i sassi che diventano cavalli, le fronde che si trasformano in navi, un viaggio per aria dall'India all'Irlanda, un altro dalla terra alla luna. Tutto è fantastico, e tutto è dipinto come dal vero. I guerrieri e le donne, i fatti umani e soprannaturali, che compongono l'orditura vasta e varia, staccano e spiccano sopra un fondo immenso e svariatissimo, montagne, colline, ruscelli, fiumi, praterie, giardini, boschetti, selve, grotte, fontane, palazzi, castelli, uragani, naufragi, assedî ed espugnazioni e saccheggi di città, battaglie terrestri e navali.
L'orditura, le fonti e l'esito del poema. - Tutta dell'A. è l'orditura, cioè la successione degli eventi generali e la concatenazione dei casi particolari. Certo, egli prese molto, qualcuno dice tutto, dal Boiardo, da poeti latini, da Omero, dai romanzi del ciclo di Artù; ma prese materiali, che rielaborò, ricreò nella sua fantasia, adattò e collocò al posto opportuno, scelto e designato da lui. Anche il solo rielaborare, adattare e collocare è invenzione, se inventare significa produrre ciò che non esisteva prima, ed esige attenzione, discernimento, gusto, abilità, non meno delle invenzioni sgorgate di getto dall'immaginazione. Dedurre dagli antichi ed entrare in gara con essi era consuetudine da Dante in poi, e divenne norma dell'arte del Rinascimento; compilare romanzi sopra romanzi era tradizionale da tre secoli nella letteratura francese e nell'italiana derivata da essa. Gli eruditi, scomponendo a parte a parte il maestoso edifizio, hanno indicato donde il poeta trasse le pietre; il lettore spregiudicato non si cura di saper questo; entra e percorre ammirando l'opera grandiosa e bella dell'architetto.
Quando l'A. scrisse al doge di Venezia d'avere "cum longe vigilie et fatiche, per spasso et recreazione di signori et persone di anime gentili et madonne composta una opera in la quale si tratta di cose piacevoli et delectabili de arme et de amori", non disse tutto. Non disse che, a ogni tratto, egli si fa innanzi, esprime sé stesso, o commentando i fatti che racconta, o prendendo da essi lo spunto e il motivo di digressioni. D'ordinario, i commenti sono rari e brevi; talora non più che un'esclamazione, una domanda, un dubbio, la scusa famosa: "Mettendolo Turpino, anch'io l'ho messo". L'espressione diretta e diffusa del suo pensiero e dei suoi sentimenti si trova specialmente nei proemî premessi a quasi tutti i canti. Le considerazioni generiche assumono talvolta forma di sentenze, alcune delle quali sono passate in proverbio. Spesso parla alle donne, o parla di esse, con bonomia e piacevolezza; le biasima, le consiglia, le loda, o domanda loro scusa; non di rado rivolge la parola al cardinale o al duca. La vita contemporanea gli suggerisce censure all'ipocrisia, ai vizî delle corti, alle adulazioni e a chi presta loro l'orecchio, alle arpie che dilaniano l'Italia, ecc. In questi passi, nella rassegna delle cose perdute in terra, delle quali sono raccolti i segni nella luna, e nell'accalorato sfogo di S. Giovanni, "che fu scrittore anch'egli", si risente, ironica o sarcastica, la voce dell'autore delle satire. Qua e là spuntano allusioni a persone e avvenimenti contemporanei, Leone X, Carlo V, Francesco I, Andrea Doria, il marchese di Pescara, Vittoria Colonna, i combattimenti alla Polesella, la battaglia di Ravenna, l'impresa del Lautrec contro Napoli, ecc. Nel canto XXXIII pare che la storia usurpi troppo spazio con l'enumerazione delle discese dei Francesi in Italia da Sigiberto e Clodoveo a Carlo VIII; ma l'intenzione del poeta era di persuadere i Francesi che il suolo dell'Italia non è per loro. In questo e in altri luoghi si può vedere se risponda al vero la figura d'un A. scettico, indifferente, noncurante delle tristi condizioni della patria. Dispiacciono le adulazioni agli Estensi, soprattutto quelle al cardinale Ippolito, che non le meritava punto. Era, pur troppo, costume del tempo, non soltanto in Italia; i poeti, "i sacri ingegni", avevan bisogno dei signori, che rimeritavano affidando il loro nome all'immortalità.
Pregio essenziale della forma del poema è la naturalezza. Quella limpidezza e perspicuità di espressione, quella fluidità di versi quelle ottave organiche ed armoniose, paiono spontaneamente sgorgate dall'estro dell'A. Sono, invece, il risultato di "lunghe vigilie e fatiche". Non nato in Toscana, cresciuto in un ambiente in cui "tutti verseggiavano in latino", avvezzo dalla prima giovinezza a poetare anch'egli in latino, necessariamente doveva usare vocaboli e modi del dialetto e latini. Dalla prima alla seconda edizione, e da questa alla terza, e ancora mentre i fogli della terza erano in tipografia, lavorò incessantemente, pazientissimamente a quella, che chiamò "l'osservazion della lingua", a purgare, limare, affinare, sveltire.
La terza edizione e i Cinque canti. - Per la terza edizione, accrebbe i canti da 40 a 46, aggiungendo la parte storica del XXXIII, l'episodio di Olimpia, l'impedimento alle nozze di Ruggiero cagionato da Leone, e la gara di generosità tra questo e Ruggiero; più di 5000 versi. Pensò di continuare ancora la narrazione, probabilmente perché, al pari di Agramante, "si battesse del folle ardir la guancia" il re di Spagna Marsilio, e perché si avverasse la morte di Ruggiero dopo sette anni, come Atlante aveva predetto. Da questa intenzione nacquero i cosiddetti Cinque canti, pubblicati dopo la morte dell'autore, nei quali macchina un gran viluppo d'inganni e d'insidie Gano di Maganza, che, nel Furioso era appena nominato. Tornano nei Cinque canti, dal poema del Boiardo, Demogorgone, Fallerina e Morgana; riappare Alcina, e dona a Gano un anello, dentro il quale è un folletto, che gli obbedisce; si dànno un gran da fare l'Invidia e il Sospetto. Orlando viene in Italia a combattere i Longobardi; Carlo va in Germania, distrugge la selva incantata dove un tempo si era rifugiata Medea, assedia Praga; Ponticone, figlio del re Desiderio, si lascia burlare da una donna; i Franchi passano le Alpi per un sentiero "che in uso esser non suole"; Orlando e Rinaldo sono ancora una volta posti l'uno contro l'altro; Ruggiero, inghiottito da una balena, scopre nel capace ventre di essa una chiesetta, un mulino, finanche una fontana, e Astolfo. Fece bene il poeta a non dipartirsi più dal "porto", nel quale, dopo "tanta via" era entrato col suo "legno intero"; come fece bene a scartare il compendio lunghissimo ed insipido della storia d'Italia, che aveva destinato al canto XXXIV. Il frammento, che va per le stampe col titolo di Rinaldo Ardito, non è suo.
Fortuna del poema. - Dopo l'edizione ferrarese del 1521, il Furioso fu ristampato tre volte a Milano, una a Firenze, dieci a Venezia; dopo, quella del 1532, centinaia di volte, intero o purgato ad uso della gioventù ed anche spiritualizzato e moralizzato. Da esso presero le mosse per altri infelici poemi il Brusantino (Angelica innamorata, 1550), il Guazzo (Astolfo borioso, 1523), il Dolce (Il Sacripante, 1535-37), ecc. Se ne trassero tragedie, drammi, melodrammi, epistole eroiche, elegie, novelle. Alcuni canti furono tradotti in varî dialetti. Molti pittori, da Guido Reni a Massimo d'Azeglio, dipinsero, parecchi scultori scolpirono episodî e personaggi del poema.
In Francia, la prima traduzione in prosa d'incerto autore (1543), fu seguita nel 1553 da quella del Fornier in versi. Bradamante, Angelica e Medoro, Rodomonte, Ruggiero fornirono argomenti di tragedie. I Suppositi tradotti nel 1545, il Negromante nel 1573, e le altre commedie dell'A. esercitarono influenza considerevole sul teatro francese. Il Montaigne, che giovine aveva ammirato l'A., si sdegnava più tardi di coloro che lo preferivano a Virgilio; l'Estienne, citando il poema, si sforzava di dimostrare che la lingua francese non la cedeva all'italiana. Ma la voga continuava. Nel 1615 comparve una nuova traduzione del De Rosset; il La Fontaine, che dedusse tre dei suoi contes dal Furioso, raccontò nel 1665 che l'ipocrita Alizon aveva letto mastro Ludovico mille volte. Non se ne dimenticò il Voltaire quando scrisse La Pucelle. Parecchie altre traduzioni in versi e in prosa furono pubblicate in Francia nei secoli XVIII e XIX, sino a quella illustrata dal Doré nel 1879.
La traduzione spagnuola di Girolamo de Urrea (1544), riprodotta più volte, non meritò le lodi del Cervantes. Altre ne ebbe dopo, la Spagna, in versi e in prosa, e tentarono infelici imitazioni e continuazioni il capitano Espinosa, Luigi Barahona de Soto e Lope de Vega (La bellezza di Angelica). In Inghilterra si ritrova la trama dei Suppositi nella Bisbetica domata dello Shakespeare. Il poema fu tradotto da J. Harrington (1591), dal Croker Temple (1757), ecc. La traduzione del Rose (1825) meritò l'approvazione del Foscolo. Ed. Spenser ne trasse ispirazioni per la sua Regina delle Fate. Il Furioso non fu tradotto intero in Germania prima del 1779. L'anno seguente il Wieland pubblicò il suo Oberon, pel quale si era messo sulle tracce dell'Ariosto. Due traduzioni (1615, 1649) ebbe l'Olanda.
Il ritratto del poeta fatto dal Tiziano, che ora è a Londra, fu riprodotto nel frontespizio dalla stampa del 1532. Anche Raffaello effigiò il poeta nel Parnaso del Vaticano. Statue di lui si vedono a Ferrara e a Padova, un mausoleo a Mantova, busti e medaglie in diversi luoghi. (V. tavv. LXIII-LXVI).
Opere: Prime edizioni: la prima raccolta dei Carmina, in due libri, fu fatta da G. B. Pigna in Venezia, Valgrisi, 1553. La Cassaria e i Suppositi in prosa, Venezia, Zoppino, 1525. I Suppositi in versi, Venezia, Giolito, 1531. Il Negromante e La Lena, Venezia, Zoppino, 1538; Le satire, 1ª edizione clandestina 1534, poi Venezia, Giolito, 1550. Le Rime e l'Erbolato, fratelli Nicolini di Sabio, Venezia 1545. Orlando Furioso, in Ferrara, per Maestro Giovanni Mazzocco di Bondeno, a dì 21 aprile 1516; con molta diligenza corretto; in Ferrara, per G. B. la Pigna, milanese, a dì 13 di febraro 1521; nuovamente da lui proprio corretto, e di altri canti nuovi ampliato, Ferrara, Francesco Rosso da Valenza, a dì primo d'ottobre 1532.
Opere minori di L. A. a cura di F. L. Polidori, 2 voll., Firenze 1857; Commedie e Satire annotate da G. Tortoli, Firenze 1856; Gli Studenti, a cura A. Salza, Città di Castello 1915; Le Satire, testo unico con introd. e note a cura di G. Tambara, Livorno 1903; Lirica (italiana e latina) a cura di G. Fatini, Bari 1924; L'Orlando Furioso secondo le stampe del 1516, 1521, 1532, a cura di F. Ermini, Roma 1909-13, in 3 voll.; Orlando Furioso a cura di S. Debenedetti, Bari 1928.
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Frizzi, Memorie storiche della nobil famiglia degli Ariosti, Ferrara 1779; Baruffaldi, La vita di M. L. A., Ferrara 1807; L. N. Cittadella, Appunti intorno agli Ariosti di Ferrara, Ferrara 1874; A. Cappelli, Lettere di L. A., con introd. storico-critica, documenti e note, 3ª ed., Milano 1887; G. Sforza, Documenti inediti per servire alla vita di L. A., Modena 1926; Campori, Notizie per la vita di L. A., Firenze 1896; F. Torraca, Per la biografia di L. A., in Studî letterari, Firenze 1923; A. Luzio, Isabella d'Este nelle tragedie della sua casa, Mantova 1913; L. Bertoni, L'Orlando Furioso e la Rinascenza in Ferrara, Modena 1919; M. Catalano, Messer Moschino, in Giorn. stor. d. lett. ital., 1926.
F. De Sanctis, L'Orlando furioso, in Storia della lett. italiana, II, cap. XIII; cfr. Scritti varii, I, Napoli 1898; G. Carducci, Delle poesie latine edite ed inedite di L. A., Bologna 1876 e nel vol. XV delle Opere; P. Rajna, Le fonti dell'Orlando Furioso, 2ª ed., Firenze 1900; B. Croce, Ariosto, Shakespeare e Corneille, Bari 1920; A. Salza, Studi su L. A., Città di Castello 1914; G. Fatini, Su la fortuna e l'autenticità delle liriche di L. A., in Giorn. stor. d. lett. it., suppl. 22-23, 1924; id., l'Erbolato di L. A. in Rassegna bibliogr. d. lett. it., 1910; H. Hauvette, L'Arioste et la poésie chevaleresque à Ferrare, Parigi 1928; D'Orsi, Le Commedie di L. A., Roma 1924; C. Bertani, Sul testo e sulla cronologia delle Satire di L. A., in Giorn. storico d. letterat. ital., LXXXVIII-IX (1926-27); A. Momigliano, L'Orlando Furioso, Saggio, Bari 1928.