Ariosto, Ludovico
Poeta, nato a Reggio Emilia nel 1474 e morto a Ferrara nel 1533. Il rapporto di conoscenza diretta fra M. e A. è garantito da un’epistola del primo a Lodovico Alamanni (→), datata 17 dicembre 1517, nella quale si legge:
Io ho letto a questi dì Orlando Furioso dello Ariosto, e veramente el poema è bello tutto, et in di molti luoghi è mirabile. Se si truova costì, raccomandatemi a lui, e ditegli che io mi dolgo solo che, avendo ricordato tanti poeti, che m’abbi lasciato indreto come un cazo, e ch’egli ha fatto a me quello in sul suo Orlando, che io non farò a lui in sul mio Asino (Lettere, p. 357).
Il passo si presta a vari tipi di considerazioni. In primo luogo, la raccomandazione personale e il tono confidenziale, che sfocia in uno scherzoso, ma insieme risentito rimprovero per interposta persona, fanno comprendere che M. poteva rivolgersi all’autore del Furioso con la dimestichezza di chi, almeno da alcuni anni, ha avuto modo di frequentarsi e di dialogare di questioni letterarie (cfr. Dionisotti 1980, pp. 293-94).
In altri termini, M. deve aver presentato ad A. le sue prove letterarie edite, come il primo Decennale, e forse anche inedite, come i Capitoli o alcuni componimenti lirici e carnascialeschi.
In secondo luogo, la promessa di nominare A. nell’Asino, evidentemente in fase di stesura, appare almeno in parte ambigua, perché da un lato sembra voler garantire un atteggiamento non ostile, e anzi più generoso rispetto a quello dell’autore del Furioso, ma dall’altro fa balenare la possibilità di una menzione che s’inserisca in un contesto all’insegna della satira, come previsto dal codice dell’‘asinità’. Di ciò, comunque, non abbiamo riscontro, perché nel pur lungo elenco di personaggi storici rappresentati sotto vesti animalesche nel capitolo vii (vv. 25 e segg.) dell’Asino non sembra di poter individuare l’A. (cfr. Anselmi, Fazion 1984, pp. 90-103).
In terzo luogo, e senza ombra di dubbio, resta l’esplicitazione di un giudizio positivo sul Furioso, letto peraltro a più di un anno e mezzo dall’uscita della prima edizione (22 apr. 1516). Sappiamo che il successo di pubblico del poema ariostesco aumentò progressivamente, tanto che nel 1520 la tiratura iniziale era quasi esaurita; tuttavia, il riscontro presso i letterati non dovette essere altrettanto immediato, soprattutto presso coloro che rivendicavano un primato linguistico oltre che artistico, come appunto i fiorentini ‘intrinseci’. Il riconoscimento machiavelliano non era quindi scontato, specie considerando che implicitamente sarà stato effettuato un confronto con un testo cavalleresco caro al Segretario, e cioè il Morgante.
Una volta esplicitati i dati e gli indizi disponibili all’altezza del 1517, è ora necessario delineare il contesto in cui possono essere avvenuti i primi incontri tra M. e Ariosto. Le notizie raccolte dai biografi, soprattutto Oreste Tommasini (1883-1911) e Michele Catalano (1930-1931), non ci consentono di indicare con plausibilità una fase antecedente alla caduta del Segretario in cui egli potrebbe aver conosciuto il poeta ferrarese, che pure manteneva contatti personali e ufficiali, per conto degli estensi, con Firenze e Roma.
A. soggiornò a più riprese a Firenze almeno tra il 1512 e il 1516, peraltro spesso in periodi in cui le vicende biografiche machiavelliane fanno ritenere improbabile o impossibile un incontro. Oltre che per soste di pochi giorni, eventualmente di rientro da Roma dopo una missione diplomatica, di certo egli vi si trattenne tra il dicembre del 1512 e il febbraio del 1513 per sollecitare la restituzione di un ingente credito che suo cugino Rinaldo vantava nei confronti di un mercante.
In quella circostanza o forse in altre, il poeta poté fruire dell’ospitalità di Zanobi Buondelmonti nel suo palazzo di piazza S. Trinita: secondo Iacopo Nardi (Istorie della città di Firenze VII ix), A. ricambiò il favore ospitando, mentre era governatore in Garfagnana, lo stesso Buondelmonti e Luigi Alamanni in fuga da Firenze dopo la scoperta della congiura antimedicea nel giugno del 1522. Inutile ricordare che Buondelmonti e Alamanni sono interlocutori nei dialoghi dell’Arte della guerra nonché dedicatari della Vita di Castruccio Castracani, e che il secondo viene menzionato nella terza edizione del Furioso (XXXVII 8), così come un altro amico degli Orti Oricellari, Francesco Guidetti (XXXVII 12), in passato spesso ritenuto un consulente per la revisione linguistica del poema.
Altre amicizie fiorentine di A. sono quella di Nicolò Vespucci (cfr. Catalano, 1° vol., 1930-1931, pp. 396-97), non menzionato nell’epistolario machiavelliano, ma cugino di Giovanni di Guidantonio e congiunto di altri conoscenti del Segretario; ulteriori contatti poterono essere instaurati tramite i familiari della compagna e poi sposa Alessandra Benucci, moglie di Tito di Leonardo Strozzi fino alla sua morte (ott. 1515), residente a Ferrara ma di sicuro incontrata e amata dal poeta a Firenze sin dal giugno del 1513.
Infine, A. fu anche ospite dei Medici, in particolare di Giuliano durante le feste di carnevale sempre del 1513 e spesso in altre occasioni per motivi diplomatici, riguardanti anche i papi Leone X e Clemente VII.
Ma se è vero che nei confronti dei Medici in generale e di Giuliano in particolare le manifestazioni di stima e affetto sono numerose, come dimostrano il capitolo “Gentil città, che con felici auguri” (del 1516 o forse del 1519) e le canzoni scritte in morte del duca di Nemours (“Spirto gentil, che sei nel terzo giro” e “Anima eletta, che nel mondo folle”, entrambe di poco posteriori al 17 marzo 1516), è altrettanto vero che il controcanto delle Satire tocca più di una volta e con toni amaramente ironici le questioni dell’‘amicizia’ di Giovanni, prima che si andasse «a far Leone» (cfr. Satire III 82-105, in partic. 97), e di quella di Giulio II, presso la corte del quale il poeta poteva allocarsi come ambasciatore del duca Alfonso secondo quanto si evince dalla Satira VII, ascrivibile ai primi mesi del 1524. A. insomma poteva condividere con M. sentimenti e rapporti sia filomedicei sia antimedicei.
Nell’insieme, abbondano i motivi e le occasioni per cui i due scrittori potevano essersi frequentati, rimanendo poi in contatto anche attraverso comuni amici. Per esempio, non stupisce che, per mandare i suoi saluti e commenti, il Segretario si serva del diplomatico papale Lodovico Alamanni, figlio di Piero e fratello di Luigi, ma, rispetto a lui e al cugino Luigi di Tommaso, stabilmente fedele alla famiglia medicea.
In effetti Lodovico fu buon cultore delle arti, come si evince dalla sua menzione in apertura delle Novelle di Matteo Bandello (cfr. Parte I i, e anche Parte III xli), e tra il 1516 e il 1517 risiedette quasi sempre a Roma presso la corte di Leone X, dove avrebbe potuto incontrare A. in missione per le consuete ambascerie ferraresi.
Tuttavia, nonostante questa ampia rete di ipotetici rapporti, solo un’altra è la menzione esplicita di A. nelle opere machiavelliane, quella contenuta nel Discorso intorno alla nostra lingua (§ 69), dove si tratta piuttosto a lungo di «una comedia fatta da uno delli Ariosti di Ferrara», che va individuata, in base ai riferimenti espliciti (§§ 70-71), nei Suppositi. Il passo è tuttora esposto ad alcuni dubbi filologico-interpretativi: anche accettando senza riserve la ricostruzione di Carlo Dionisotti riguardo alla complessiva autenticità del Discorso, si deve segnalare che lo stesso studioso afferma che «di fatto il giudizio di M. sull’intreccio e sulla lingua dei Suppositi può considerarsi piuttosto unico che raro» nel contesto del primo Cinquecento (Dionisotti 1980, p. 294); addirittura, un recente contributo (Bionda 2009) suggerisce che la formula «un nodo bene accommodato et meglio sciolto» (§ 69), riferita all’intreccio e alla conclusione dell’azione scenica, sia estranea al lessico drammaturgico dei primi decenni del 16° secolo.
Questi e altri dettagli, benché degni di considerazione, non sembrano però al momento sufficienti a modificare l’attuale datazione dell’operetta (autunno del 1524), né a far considerare interpolato il passo relativo ai Suppositi: del resto, nodo, derivato dal nodus di Orazio (Ars poetica v. 191), era stato impiegato da Iacopo Nardi nella commedia I due felici rivali, ascritta al 1513, e la presenza della perifrasi «nodo […] meglio sciolto», e non (si noti) del termine più tecnico scioglimento, può essere attribuita a una facile estensione metaforica del comune ‘sciogliere un nodo’.
Ciò premesso, va giustificato un giudizio piuttosto ostile, specie se posto a confronto con quello riservato al Furioso. Innanzitutto, si tocca qui un ambito, quello della commedia, nel quale i letterati fiorentini, com’è noto, si erano fortemente impegnati sin dalla fine del Quattrocento. Anche volendo circoscrivere l’attività del M. commediografo al periodo compreso sicuramente tra il 1518 e la morte, siamo certi che una spinta a paragonare proprio i Suppositi e la Mandragola si generò dopo che Leone X concesse ad A. di predisporre una messinscena della sua commedia a Roma, con fondali preparati da Raffaello, il 6 marzo del 1519. A distanza di poco più di un anno, nell’aprile del 1520 toccò al testo machiavelliano l’opportunità di essere rappresentato: in quelle circostanze, le forti differenze di scelte linguistico-stilistiche vennero senz’altro annotate dal gruppo dei letterati più fedeli al fiorentino parlato e vivo, fra cui si schierava il Segretario.
Il motivo del contendere divenne urgente quando, nei primi mesi del 1524 stando alla ricostruzione di Dionisotti (1980, in partic. pp. 322 e segg.), le prese di posizione a favore di una lingua italiana, cortigiana o curiale, iniziarono a riguardare direttamente Firenze: si cominciava infatti a sostenere che lo stesso Dante si sarebbe espresso in questo senso, almeno in base alle notizie che Gian Giorgio Trissino forniva pro domo sua sul De vulgari eloquentia. All’interno di una serrata analisi della fiorentinità del poema di Dante, Niccolò autore-personaggio del Discorso intorno alla nostra lingua inserisce (§§ 70-71) la stoccata contro un ferrarese che adottava una lingua a base fiorentina, ma, oltre a non conoscerla bene, non era in grado di impiegarne i ‘sali’ indispensabili per la comicità: e viene citato l’accatto dell’espressione ‘pagar di doppioni’ in Suppositi II ii. D’altronde, un altro motto come quello sui «bigonzoni» (I i), al di là della sua valenza esatta, viene rovinato dalla presenza dell’affricata dentale, tipicamente settentrionale, tale da far affermare che «un gusto purgato sa quanto nel leggere et nell’udire dire bigonzoni è offeso» (§ 71; cfr. anche Trovato 2011).
Il tono polemico è insomma indotto dagli atteggiamenti che molti letterati non toscani avevano assunto circa gli usi corretti della lingua, in un momento precedente all’uscita e alla vittoria delle Prose bembiane. L’autore del Furioso, indicato nel Discorso (si noti, da Niccolò personaggio a Dante personaggio) come «uno delli Ariosti di Ferrara» per segnalare la sua nobiltà di stirpe, non viene coinvolto ponendo in discussione il suo valore, tanto è vero che i Suppositi sono considerati una commedia ben costruita e ornata; il problema è specificamente quello del suo usus linguistico, perdonabile nel Furioso all’altezza del 1517, ma censurabile nel fuoco di una controversia che mirava a emarginare proprio i fiorentini, naturali discendenti della grande tradizione di Dante, Petrarca e Boccaccio. Tradizione che in effetti A. aveva già fatta sua nel 1516, ma che poteva fruire solo come attento utente di modelli: in questa direzione procede l’adeguamento del Furioso alle norme delle Prose (sia pure con un discreto margine di libertà), tanto che, nel 1532, Pietro Bembo diventerà il punto di riferimento fra i letterati che accolgono il narratore al suo arrivo in porto (cfr. Orlando furioso XLVI 15).
Si arriva così al problema della mancata menzione di M. nel poema ariostesco. Se all’epoca della prima edizione (1516) e anche della seconda (1521, pressoché identica alla prima) il Segretario non era ancora sufficientemente affermato come scrittore, all’altezza della terza (1532) l’inserimento in uno degli elenchi di letterati che leggiamo nel Furioso fu senza dubbio impedito dal fatto che egli era già scomparso nel 1527: come dimostra l’analisi variantistica, A. non inserisce pressoché mai personaggi defunti. Tuttavia, va notato non solo che la produzione letteraria machiavelliana non rientrava nei nuovi canoni bembiani, ma anche che in genere gli scrittori fiorentini giocano un ruolo marginale negli elenchi di scrittori e soprattutto nel panorama delineato all’inizio del canto conclusivo del poema (Orlando furioso XLVI 1-19; cfr. Casadei 1988, in partic. pp. 105-58).
Ciò nonostante, a più riprese l’influsso delle teorie politiche di M. è stato invocato per giustificare considerazioni introdotte dal narratore ariostesco, soprattutto negli esordi ai canti, e concernenti temi quali il simulare o il dissimulare (Orlando furioso IV 1-3), il ruolo della fortuna nell’azione politica (XLV 1-4, ma anche XXXIII 50 e segg.), la necessità di cacciare gli invasori stranieri dall’Italia (XXXIV 1-3) e così via. Addirittura, consonanze strette sono state individuate fra l’incompiuto ampliamento del poema noto come Cinque canti, risalente al 1519-21 e rivisto forse sino al 1528-29: oltre a numerosi ragionamenti sulle qualità che un sovrano o un condottiero devono possedere, nel canto II (ottave 41-44) si leggono critiche contro le truppe mercenarie, che sembrerebbero affini a quelle espresse a più riprese da M. stesso, tra Principe e Arte della guerra (cfr. Klopp 1976 e anche, per ulteriori confronti, Zatti 1996 e Matucci 1997). Tuttavia, a una lettura ravvicinata, si può osservare che mancano punti di contatto specifici e cogenti, e che anzi le notazioni etiche ariostesche spesso collidono con gli orientamenti e le finalità politiche di quelle machiavelliane. In vari casi A. sembra raccogliere sentimenti diffusi fra molti intellettuali italiani, impressionati dalla crescita sempre più rapida e violenta dei conflitti, risolti in carneficine per l’uso delle nuove artiglierie e per la spregiudicatezza dei mercenari svizzeri o tedeschi (cfr. Orlando furioso XI 22-28, XVII 1-5 e 73-79 ecc.). Nel Furioso sono insomma riconoscibili motivi ed eventi sicuramente ben presenti anche a M., ma interpretati in modo diverso: per esempio, le ottave dedicate alla necessità del simulare e dissimulare sono confrontabili con quelle del trattato De prudentia (IV xi) di Giovanni Pontano, rappresentante di una cultura umanistica attestata su posizioni premachiavelliane.
Quanto alle Satire ariostesche, è stato verificato da tempo che fra esse e i Capitoli di M. sussistono solo deboli legami. Invece, uno dei contatti più forti con il Principe si potrebbe riscontrare, a detta di molti commentatori, in un passo della Satira IV, scritta in Garfagnana agli inizi del 1523:
Laurin si fa de la sua patria capo, / et in privato il publico converte; / tre ne confina, a sei ne taglia il capo; / comincia volpe, indi con forze aperte / esce leon, poi c’ha ’l popul sedutto / con licenze, con doni e con offerte: / l’iniqui alzando, e deprimendo in lutto / li buoni, acquista titolo di saggio, / di furti, stupri e d’omicidi brutto» (vv. 94-102, ed. a cura e con commento di C. Segre, 1987, p. 37).
Secondo un’ipotesi ben accreditata, «Laurin» sarebbe Lorenzo de’ Medici duca d’Urbino e la descrizione della sua azione, con il riferimento all’essere prima volpe e poi leone, rimanderebbe al cap. xviii del Principe, più ancora che al Cicerone del De officiis (I xiii). Come si è ricordato, la vicinanza con i fuoriusciti Alamanni e Buondelmonti, nel giugno-luglio del 1522 (proprio in Garfagnana), potrebbe aver alimentato in A. sentimenti antimedicei, che troverebbero qui espressione anche grazie a immagini machiavelliane (si veda il commento di Segre alle Satire, cit., p. 92, nota 32; e anche Ascoli 1999, p. 140). Si tratterebbe comunque, anche in questo caso, di una consonanza fra A. e M. nell’ambito di un campo metaforico già sperimentato (basti il rinvio a Inferno XXVII 74-75).
Resterebbe infine da accertare l’eventuale influenza della produzione ariostesca sulle opere letterarie machiavelliane. Non molto però è stato fatto in questa direzione: sinora i commenti e gli studi specifici hanno segnalato contatti piuttosto generici, soprattutto nel caso delle opere in versi, autonome o inserite nella Mandragola (oltre al commento di Luigi Blasucci e Alberto Casadei in N. Machiavelli, Opere, 4° vol., 1989 e a quanto segnalato nell’ed. delle Opere letterarie, t. 2, 2013, in partic. pp. 139 e 151-52, cfr. almeno Bruni 2005, pp. 402-08).
Tuttavia, nuovi sondaggi mirati potrebbero far emergere alcuni piccoli prestiti. Per es., nel cap. viii (e ultimo) dell’incompiuto Asino, come abbiamo visto in fase di stesura quando M. lesse il Furioso, si dice che gli uomini, per soddisfare le loro voglie di cibi, vanno «per quelli infin ne’ regni Eoi» (v. 99) e la presenza di questo aggettivo classico, ma piuttosto raro nella letteratura in versi precedente l’inizio del 16° sec., sembra suggerita dall’analoga clausola dell’Orlando furioso I 7, v. 3: «[…] liti Eoi». A questo riscontro se ne potrebbero aggiungere altri, come quello delle rime ‘seppi’ ‘greppi’ presenti in Orlando furioso XXXIV 78, vv. 3 e 5, e in Asino vii, vv. 101-03 (però con il comune antecedente di Morgante XIX 16); o quello, ancora più forte, delle rime ‘raguna’ ‘fortuna’, nel distico finale dell’Orlando furioso XXXIV 73 e in Asino vi 100-02. Tasselli ridottissimi, certo, ma abbastanza sintomatici dell’effettiva impressione prodotta su M. dal poema ariostesco.
Bibliografia: O.Tommasini, La vita e gli scritti di Niccolò Machiavelli nella loro relazione con il machiavellismo, 2 voll., Firenze 1883-1911 (rist. anastat. Bologna: 1° vol. 1994, 2° vol., parte prima 1999; 3° vol., parte seconda 2003); M. Catalano, Vita di Ludovico Ariosto, 2 voll., Genève 1930-1931; C.D. Klopp, The centaur and the magpie: Ariosto and Machiavelli’s Prince, in Ariosto 1974 in America, a cura di A. Scaglione, Ravenna 1976, pp. 69-84; C. Dionisotti, Machiavelli e la lingua fiorentina, in Id., Machiavellerie, Torino 1980, pp. 267-363; G.M. Anselmi, P. Fazion, Machiavelli, l’Asino e le bestie, Bologna 1984; A. Casadei, La strategia delle varianti. Le correzioni storiche del terzo ‘Furioso’, Lucca 1988; N. Machiavelli, Opere, 4° vol., Scritti letterari, a cura di L. Blasucci, con la collab. di A. Casadei, Torino 1989; S. Zatti, La frantumazione del mondo cavalleresco: i ‘Cinque canti’ dell’Ariosto, in Id., L’ombra del Tasso, Milano 1996, pp. 28-58; A. Matucci, Ariosto e Machiavelli: lettura del canto XL dell’Orlando furioso, «Allegoria», 1997, 9, 26, pp. 14-26; A.R. Ascoli, Faith as cover-up. Ariosto’s Orlando furioso canto 21, and Machiavellian ethics, «I Tatti studies», 1999, 8, pp. 135-70; A. Bruni, Gli intermedi della Mandragola, in ll teatro di Machiavelli, a cura di G. Barbarisi, A.M. Cabrini, Milano 2005, pp. 367-409; S. Bionda, Il ‘nodo’ del ‘Dialogo della lingua’ attribuito a Niccolò Machiavelli, «Interpres», 2009, 28, pp. 275-97; P. Trovato, Sul nodo ‘bene accomodato’ di Machiavelli, «Interpres», 2011, 30, pp. 272-83; N. Machiavelli, Edizione nazionale, III, 2. Opere letterarie, t. 2, Scritti in poesia e in prosa, a cura di A. Corsaro et al., coordinamento di F. Bausi, Roma 2013.