CARBONE, Ludovico
Nacque il 1º maggio 1430 da Antonio, forse a Cremona.
La famiglia, di modeste condizioni mercantili, era originaria di Cremona: il padre si trasferì dalla città natale prima, forse, a Reggio ed infine a Ferrara, non si sa bene se prima o dopo la nascita del C.; se questi, infatti, si professa sempre ferrarese, la sua testimonisanza, a guardar bene piuttosto generica, viene inficiata da un documento citato dal Bertoni (Guarino da Verona, p. 112) che espressamente accenna a "messer Lodovigo Carbone da Cremona oratore in Ferrara". Quanto alla data di nascita, dovrebbe ormai essere pacifica quella del 1º maggio 1430: il mese e il giorno ci sono confermati dall'incipit ("Adveniant Maiae natalia nostra kalendae") di un componimento occasionale riferito dal Barotti (p. 52); l'anno, invece, è oggetto di una controversia chiusa, a nostro parere, dal Sabbadini (1915, pp. 96-100), il quale dimostrò che l'orazione in lode di Lodovico da Sant'Arcangelo, nominato rettore dello Studio ferrarese, a noi tramandata dal cod. Ottob. 1153 (ff. 136-141), della Bibl. Vaticana, va collocata tra il febbraio e l'ottobre del 1450: poiché il C. dichiara che essa è stata composta "anno aetatis suae vigesimo", non dovrebbero esserci ragionevoli ostacoli ad accettare la data di nascita sopra riferita; altre proposte (1431-32 0 1435) sono frutto di approssimazioni congetturali prive di ulteriori sostegni.
Della giovinezza sappiamo solo, per ricorrente confessione del C. stesso, che fu povera e tutta dedita agli studi, abbracciati soprattutto perché introducevano nella burocrazia ducale, ove si poteva raggiungere una condizione borghese decorosa ed economicamente tranquilla, anche se non proprio soddisfatta.
Altri due fratelli del C. a noi noti, Giacomo e Francesco, non furono avviati agli studi e continuarono il commercio del padre: un documento ducale (Modena, Arch. Estense, Mandati, 1466, c. 125r) ci parla di "Franciscus Carbonus strazarolus frater dicti magistri Ludovici"; lo stesso Francesco apparirà come erede del C. in un atto del 22 ag. 1485, ricordato dal Bertoni (Guarino, p. 112). Il distico di chiusura d'un epitaffio in onore del padre testimonia che anche il primogenito Giacomo si era dedicato alla mercatura (cfr. Cessi, p. 25). L'orazione che il C. compose (1463) in occasione del trasferimento dell'univ. da Ferrara, sconvolta dalla peste, a Rovigo, ci attesta che, mentre il padre era morto già da tempo, in quella triste circostanza rimase vittima anche Giacomo, seguito nella tomba, a pochi giorni di distanza, dalla moglie e dalla figlia: il Cessi, che pubblicò l'orazione, fraintese il testo e ne trasse erroneamente la notizia che in quella pestilenza fossero morti entrambi i fratelli, la moglie e la figlia dello stesso C., che a quella data non risulta ancora sposato (ibid., p. 12).
Le modeste condizioni familiari ed i sacrifici giovanili (nella speranza, forse vana, di benefici aveva preso anche gli ordini minori) lasceranno nel C. una brama, sempre insoddisfatta di denaro e di lusso, che lo spingerà a non arrossire nel sollecitare donativi e favori con una petulanza più accentuata di quella solitamente nota negli umanisti, irritante e fastidiosa, certo, ma, almeno, ingenuamente scoperta, "più gioconda ... più franca ed onesta", come osservò il Carducci (cfr. Opere, XV, p. 111). Il C. fu allievo, per la filosofia, del reggiano Bonfrancesco Arlotti, per il greco di Teodoro Gaza (almeno nel triennio 1446-49 in cui questi fu in Ferrara) e, soprattutto, per il latino del grande Guarino Veronese, delquale fu anzi uno degli allievi migliori e più affezionati. G. Pardi (pp. 30 s.) ha dimostrato che il C. conseguì il titolo dottorale per le artes il 10 giugno 1456; già da tempo però si era messo in luce come oratore: la prima sua orazione pare essere quella De litteris et studiis recitata nel 1448, quando "vix decimum octavum annum agebat" (altro argomento a sostegno della data di nascita proposta dal Sabbadini (cit., pp. 96 ss.); prima del 1455 aveva già tenuto scuola privata nella casa paterna, dalla quale proprio in quell'anno si trasferì alla ricerca di un quartiere più comodamente adatto agli studi, con ciò stesso dimostrandosi che la sua attività di maestro godeva di un seguito che gli consentiva di migliorare le sue condizioni economiche (cfr. Frati, p. 55). Lo stesso Lionello d'Este gli aveva affidato l'educazione di due dei suoi fratelli, Rinaldo e Gurone, destinati al sacerdozio, incarico che, morto Lionello, gli fu sottratto da un notaio, appoggiato da alcuni cortigiani di Borso: l'episodio, in sé non molto significativo, ci lascia intuire una leggera crisi di popolarità e di influenza di Guarino e dei suoi scolari, non più protetti dall'affetto di un allievo come Lionello. Grazie alla protezione di influenti uomini di corte, specialmente di Lorenzo Strozzi, Ludovico Casella e Paolo Constabili, il C. ottenne nel 1456 la cattedra di retorica e di humanae litterae con lo stipendio annuo di cento lire marchesine (cfr. Tiraboschi, VI, p. 849), poche se rapportate alle trecento del Guarino o addirittura alle seicento di medici e legisti, ma destinate tuttavia a crescere fino a raggiungere nel 1474 le quattrocentocinquanta (cfr. Visconti, p. 28), nel momento in cui l'università estense fu più vitale e famosa, con un raggio di influenza nazionale e transalpino (cfr. Vasoli, p. 154).
Le aule dello Studio non erano avulse dal tessuto vivo della città, cui anzi fornivano burocrati ben preparati, prestigio internazionale e anche sostegni economici grazie alla presenza sempre più folta di studenti stranieri anche illustri (si ricordi l'Agricola); non per caso nel 1455 Borso disponeva, sia pur con la cautela necessaria a non irritare Venezia, che fossero offerte sovvenzioni agli studenti ultramontani che si mostravano inclini a lasciare Padova per Ferrara; i maestri più prestigiosi dello Studio, d'altra parte, erano spesso incaricati delle più solenni mansioni di rappresentanza ufficiale (orazioni, ambascerie, ecc.), incarichi che venivano affidati con attenta valutazione della famae dei meriti dei singoli letterati. Nella scuola il C. emerse per le sue doti di giovialità e per la sua rigorosa preparazione filologica; attraverso la scuola, in pari tempo, poté emergere nella città e quindi a corte, divenendo l'oratore più illustre, ricercato non solo per celebrare con il suo latino classicisticamente sciolto e, spesso se non sempre, piacevole, le nascite, le nozze, le morti più importanti della città, ma anche per essere portavoce della Signoria nei momenti e nelle occasioni più delicate: a lui fu affidato l'incarico di salutare nel 1459Pio II in visita a Ferrara, dal quale ebbe il titolo di conte palatino, titolo poi confermato con aggiunta della laurea poetica dall'imperatore Federico III, in analoga occasione salutato ed elogiato durante una sua sosta ferrarese del 1469. Morto nel 1460 il quasi novantenne e veneratissimo Guarino, sempre al C. era stato affidato il compito di comporne e pronunziarne la Laudatio funebris, che è, tra le sue orazioni, la più celebre, a giudicare dal numero di codici che ce l'hanno trasmessa: che tale fama, per altro, non sia immotivata ci dimostrano le edizioni a stampa che ne hanno dato, successivamente, il Müllner, il Bertoni ed il Garin, giustamente attirati dalla ricchezza di notizie sulla cultura ferrarese a metà del sec. XV che essa ci comunica. Si apprezzava nel C. non solo il maestro e l'oratore ufficiale, ma anche il volgarizzatore, specialmente da parte di Borso, che, non dotato della cultura guariniana di Lionello, gradiva molto i volgarizzamenti dal greco, dal latino e dallo stesso francese. Il carattere piuttosto epidermico del C. si lasciò facilmente suggestionare da questi riconoscimenti: si spiega così la sua smania di abiti sfarzosi, la mania, che noi diremmo estetizzante, di circondarsi di quadri, di statue, di strumenti musicali, l'ostentato interessamento per le varie arti figurative e per la musica, avvicinate più per la ricerca di un prestigio esteriore, che riteneva di meritare a buon diritto, che non per intima vocazione, il gusto di spendere assai più di quanto gli fosse concesso, donde poi venivano le querimonie continue a proposito dell'insufficienza di denaro: già nel 1458 Borso, oltre il normale stipendio, gli aveva pagato vari debiti, e lo stesso avrebbe fatto più tardi.
Nel 1460 John Tiptof, conte di Worcester, suo allievo in Ferrara, gli propose di seguirlo in Inghilterra, proposta di fronte alla quale egli diplomaticamente tergiversò, e che infine declinò con l'elegia tramandata dall'ottob. 1153, f. 207r, edita da R. Weiss (in Rinascimento, p. 212), attirato com'era dalla speranza di poter succedere al Guarino, speranza che andò delusa a favore di Battista Guarini. Il C. cercò di migliorare la sua posizione sociale chiedendo la mano della ferrarese Francesca Fontana, che gli fu negata nonostante le pressanti richieste rivolte in tal senso allo stesso Borso. Durante l'anno scolastico 1465-66 insegnò a Bologna, ove probabilmente si recò non, come è apparso alla maggioranza degli studiosi, perché disgustato e deluso di non esser riuscito a farsi concedere la mano della "Fontanina", ma per svolgere una azione di propaganda occulta in favore di Borso, con il quale, infatti, i rapporti rimasero ottimi, tanto è vero che nell'ottobre del 1466 il C. tornò in Ferrara e Borso non solo fece trasportare a sue spese libri e masserizie, ma gli pagò anche tutti i debiti che aveva contratto con Filippo Castello: gli Estensi, e tanto meno Borso, non eran signori da trattare in tal modo un letterato, fosse pure illustre, che avesse mostrato in maniera tanto clamorosa un atteggiamento di protesta e di risentimento nei loro confronti.
Il fatto che nel periodo bolognese, forse durante il carnevale del 1466, il C. abbia fatto visita ad Astorgio II Manfredi, signore di Faenza (e ce ne rimane testimonianza in un'orazione e in due componimenti poetici tramandati dal solito Ottobon. 1153, ff. 129r-232r), su cui Borso sperava di estendere la sua signoria, potrebbe essere un'ulteriore conferma del movente sostanzialmente politico sotteso al passaggio del C. da Ferrara a Bologna, del quale la vicenda sentimentale poteva essere, per fortunata coincidenza, un'abile mascheratura. Dopo il 1466, e prima del 1471, il C. sposò una non meglio nota Lucia, di cui si sa solo che era nipote di Carlo Mantovani ed imparentata con una famiglia Grillini, originaria di Alessandria ma trasferitasi da tempo a Ferrara (cfr. Frati, p. 61).
In questi anni la produzione del C. si svolse ricca ed abbondante: nel 1465 scrisse il primo dei suoi sette dialoghi latini, De septem litteris huius nominis Borsius (fastidiosa filastrocca di adulazioni per convincere Borso a concedergli la mano della giovane Fontana, che sposerà, invece, Francesco Ariosti, zio del poeta) e nel 1466 il secondo, Pro impetranda domo, con cui, di ritorno da Bologna, non pago di quanto aveva già ottenuto, chiede i denari per procurarsi una nuova abitazione.
Oltre a comporre e recitare moltissime orazioni, che ancora attendono un riordinatore e un editore, il C. continuò le sue fatiche scolastiche e filologiche sulla retorica antica, su Plauto, Virgilio, Lucano, Valerio Flacco, e, nell'ambito dell'umanesimo di corte, si impegnò nel volgarizzamento di Sallustio (dedicato ad Alberto, fratello di Borso), nella redazione di una raccolta di Facezie in volgare, povera e mediocre imitazione dal latino arguto di Poggio, ma tuttavia sintomatica testimonianza dei primi passi di quel "ferrareso illustre" che sarà poi la lingua del Boiardo e del primo Ariosto, e nella composizione di epigrammii e di elegie in quel latino facile e piano che è proprio dell'ambito culturale estense. Nell'evidente intenzione di aprirsi alla comprensione e all'intelligenza della corte, volgarizzò perfino qualcuna delle sue orazioni (un esempio ce lo offre il codice modenese Estense Alpha P 6, 6) e, forse, anche un dialogo, quello in cui introduce Ferrara e Bologna a parlare "de la partita soa", tramandatoci nella sola veste volgare dal codice H 6 della Comunale di Perugia (ff. 113-132). Quando nel 1469 salutò solennemente Federico III in visita a Ferrara, il C. poté vantarsi di aver già composto duecento orazioni e diecimila versi. L'invenzione della stampa allargò la diffusione delle sue fatiche erudite: a Venezia, con il Valdarfer, pubblicò nel 1471 il commento di Servio a Virgilio, una antologia di ciceroniane Orariones selectae e l'editio princeps dell'epistolario pliniano secondo il testo della tradizione detta "degli otto libri" (e cioè I-VII e IX).
Scomparso Borso nel 1471, la fama del C. continuò sotto Ercole I, per il quale volgarizzò testi di arte militare di Onassandro e di Eliano (tali volgarizzamenti ci sono trasmessi dal già ricordato codice perugino H 6 ai ff. 82-112 e 183-190) e del quale celebrò le prime iniziative urbanistiche con il dialogo (1474) De amoenitate,utilitate,magnificentia Herculei Barci, che contiene anche interessanti spunti sulla pittura di Angelo da Siena e di Cosmè Tura. Il 25 apr. 1473 un sontuoso corteo di quattrocento persone, guidato da Sigismondo d'Este, fratello legittimo del duca, mosse da Ferrara e, attraverso Bologna, Firenze, Siena e Roma, si recò a Napoli per scortare Eleonora d'Aragona promessa sposa ad Ercole: oratore designato a porgere il saluto ducale ai governi degli Stati attraversati fu proprio il C., per questa incombenza preferito al Boiardo, a Tito Vespasiano Strozzi, a Niccolò da Correggio, che pure facevano parte del corteo.
Del viaggio si fece narratore non imparziale il C. stesso nel dialogo De Neapolitana profectione composto nell'ottobre del 1473 (cod. Ottob. 1153, ff. 34-79), in cui, accanto alla uggiosa incensazione personale, si trovano osservazioni culturalmente interessanti, come l'esaltazione delle "tre corone" fiorentine. Risale forse a questa occasione "aragonese" l'invito ricevuto dal C. da parte di Mattia Corvino a recarsi con lui in Ungheria a porre le basi di una scuola umanistica magiara: l'invito fu rifiutato, ma la cortesia fu ricambiata con la composizione del quinto dei dialoghi carboniani, il De Matthiae Corvini laudibus rebusque gestis, in cui compare come interlocutore Sigismondo Emust, vescovo di Pécs, un tempo allievo del C.; il dialogo ci è trasmesso dal codice Vat. lat. 8618, ff. 123-163, e da un codice di Budapest, su cui ha modellato la sua ediz. F. Toldy (cfr. Analecta monumen. Hungariae historica, Pest 1866, pp. 167-94). Al 1474-75 appartiene il sesto dialogo, De felicitate Ferrariae (ff. 80-122 del Vat. lat. 8618) in cui, oltre la solita topica encomiastica, emerge la richiesta al duca di essere dispensato dall'insegnamento per potersi dedicare più intensamente allo studio. L'ultimo dialogo che il codice citato ci riferisce, quello De creandis quibusdam cardinalibus (ff. 181 ss.) è dedicato a papa Sisto IV per chiedere la porpora cardinalizia per l'antico maestro Teodoro Gaza (quindi, il dialogo stesso non può essere posteriore al 1475) e per il vescovo di Ferrara, nipote del pontefice stesso: in chiusura si ripresenta la richiesta dell'autore di essere tolto dall'insegnamento e assunto tra i segretari personali del duca.
Gli ultimi anni del C. furono tormentati da più gravi difficoltà economiche, dovute al fatto che la borsa ducale fu ristretta dalle spese per la disastrosa guerra contro Venezia: la soscrizione a un codice plautino (il 126 della Capitolare di Verona) ci mostra il C. ancora attivo nell'ottobre del 1484. La Cronica inedita di Ugo Caleffini, presente in un codice chigiano e citata dal Lazzari (Un'orazione di L.C. a Firenze, p. 193), attesta senza ombra di dubbio che il C. venne a morte il 6 febbr. 1485.
La molteplice e varia opera del C. è praticamente ancora tutta inedita, eccezion fatta per alcuni dialoghi, qualche orazione e un gruppetto di componimenti poetici pubblicati, in generale, da onesti eruditi locali del tardo Ottocento, indotti più dalla ghiottoneria dell'inedito in sé che dal desiderio di impostare una ricerca a largo raggio. Le Facezie attirarono per prime, e non a caso, l'attenzione di tali studiosi, che ne offrirono tre assaggi (L. Carbone, Saggio delle novelle o facezie, Perugia 1861; L. Carbone, Tre facezie di Dante Alighieri, Perugia 1865; Collanetta di narrazioni inedite, a cura di G. Piccini, Perugia 1866) fino a che non si ebbe l'ediz. completa a cura di A. Salza (L. Carbone, Facezie, Livorno 1900). Qualche frustulo poetico aveva edito N. Campanini, Note storiche e letterarie, Reggio Emilia 1883, pp. 15 ss., su cui cfr. la recensione di F. Novati, in Giorn. stor. d. lett. ital., II (1883), p. 202. Dopo che G. Salvo Cozzo aveva pubblicato l'epigramma in morte dell'Aurispa (ibid., XVIII [1891], p. 310), C. Cessi pubblicò l'orazione per il trasferimento dell'università da Ferrara a Rovigo dopo la peste del 1463, nonché un'elegia in lode del Prisciani e una in memoria del Casella (Ricordi polesani nelle opere di L.C., in Ateneo veneto, XXIV [1901], 2, pp. 131-152, 286-302). La lettera ad Ercole I da Firenze, in data 1º maggio 1473, fu pubbl. dal cod. Alpha G 1, 15 dell'Estense di Modena da G. Bertoni (La Biblioteca Estense..., p. 118); l'orazione ad Florentinos recitata nella stessa occasione descritta nella lettera precedente venne edita da A. Lazzari, Un'orazione di L.C. a Firenze, in Atti e mem. d. Deput. di stor. patr. d. prov. modenesi, s. 5, XII (1919), pp. 187-205. Contemporaneamente il Lazzari dava alle stampe anche il dialogo De amoenitate... Herculei Barci (Il Barco di L. C., in Atti e mem. d. Deput. ferrarese di stor. patria, XXIV [1919], pp. 3-44), cui seguirà più tardi anche quello De VII litteris nominis Borsius (Un dialogo di L.C. in lode del duca Borso,ibid., XXXVII [1929], pp. 125-149). La Laudatio funebris di Guarino ha goduto, invece, e con ragione, di maggior successo presso gli editori moderni: la pubblicò per primo K. Müllner in Reden und Briefe italienischer Humanisten, Wien 1899, pp. 90-107, insieme con le praelectiones a due corsi su Lucano e Valerio Flacco (pp. 85-89); la ristamparono poi G. Bertoni in Guarino da Verona fra letterati e cortigiani a Ferrara, Ginevra 1921, pp. 160-175 e, infine, E. Garin nei suoi Prosatori latini del Quattrocento, Milano-Napoli 1952, pp. 381-420. Alcuni testi polimetri per la Fontanina tratti dal ms. I, 397 della Biblioteca Ariostea di Ferrara ha pubblicato di recente il Pasquazi, in Poeti estensi del Rinascimento, Firenze 1966, pp. 1641-69. Comunque, chi voglia avvicinarsi utilmente alla personalità non trascurabile di questo umanista o, se non altro, alle testimonianze storico-culturali che la sua opera può offrire, pur giovandosi delle edizioni parziali di cui abbiamo detto non potrà a nessun costo evitare il ricorso ai codici, i quali numerosi e dispersi un po' ovunque in Italia (non debole prova di una fama largamente diffusa), sono facilmente individuabili grazie all'Iter Italicum di P.O. Kristeller, alla cui dovizia è inevitabile rinviare. In questa sede basti ricordare come fondamentali il Vat. Ottob. lat. 1153 (contenente ai ff. 12v e 99r-331v un'ampia silloge di lettere, orazioni e componimenti metrici), il Vat. lat. 8618 (che ci tramanda i sette dialoghi latini per un totale di 193 ff.), il cod. H 6 della Biblioteca comunale di Perugia, tutto dedicato a scritti in volgare (le Facezie ed il dialogo De la partita soa) ed ai volgarizzamenti di Sallustio, Onassandro ed Eliano, il Marciano lat. XII, 137 (orazioni e testi metrici vari), nonché, solo per un primo accostamento, il ms. 2948 dell'Universitaria di Bologna, la ben nota Miscellanea Tioli (su cui cfr. Kristeller, I, pp. 19 s., 22, 25 s.).
Bibl.: G. Barotti, Mem. historiche di letterati ferraresi, I, Ferrara 1792, pp. 35-49; G. Tiraboschi, Storia della lett. ital., VI, Venezia 1795, pp. 849 s.; C. de Rosmini, Vita e disciplina di Guarino Veronese..., III, Brescia 1806, pp. 147-156; G. B. Vermiglioli, Di alcuni scritti ined. di L. C. ferrarese, in Giornale arcadico, XL (1828), pp. 224-243; G. Carducci, Della poesia latina di L. Ariosto (1876), in Opere (ediz. naz.), XV, pp. 111-123; G. Zannoni, Un viaggio per l'Italia di L. C. umanista, in Rendic. d. Accad. dei Lincei, cl. di scienze mor., stor. e filol., s. 5, VII (1898), pp. 182-201; C. Castellani, La stampa in Venezia, Venezia 1899, p. 26; G. Pardi, Titoli dottorali conferiti dallo Studio di Ferrara nei secc. XV e XVI, Lucca 1900, pp. 30 s.; C. Cessi, Ricordi polesani nelle op. di L. C., in Ateneo ven., XXIV (1901), 2, pp. 131-152, 286-302; G. Bertoni, La Bibl. Estense e la cult. ferrar. ai tempi del duca Ercole I, Torino 1903, pp. 107, 113, 118; Id., Nuovi studi su M. M. Boiardo, Bologna 1904, pp. 19-21; R. Sabbadini, Briciole umanist., in Giorn. storico d. lett. ital., L (1907), pp. 40-42; L. Frati, L. C. e le sue opere, in Atti e mem. d. Deput. ferrar. di stor. patria, XX (1910), pp. 53-80; R. Sabbadini, rec. all'ed. dei Carmina di B. Basini a cura di F. Ferri, in Giorn. stor. d. lett. ital., LXV (1915), pp. 96-100; G. Bertoni, Guarino da Verona fra letterati e cortigiani a Ferrara, Ginevra 1921, ad Indicem; Idem, Di Battista Guarino e di una sua orazione, in Giornale storico della letteratura italiana, C (1932), pp. 32-37; A. Lazzari, L'umanista ferrarese L. C. e Astorgio II Manfredi, in Atti e mem. d. Deput. di stor. patria dell'Emilia-Romagna, VIII (1942-43), pp, 331-48; T. De Marinis, La biblioteca napoletana dei re d'Aragona, II, Milano 1947, pp. 215, 219; A. Visconti, Storia dell'Univers. di Ferrara, Bologna 1950, p. 28; R. Weiss, John Tiptoft,Earl of Worcester,and L. C., in Rinascimento, VIII(1957), pp. 209-212; E. Garin, Guarino Veronese e la cultura a Ferrara, in La cultura filosofica del Rinascimento ital., Firenze 1961, pp. 302-432; A. Campana, Civiltà umanistica faentina, in Il liceo "Torricelli" nel primo centenario, Faenza 1963, pp. 315 ss. 343; C. Vasoli, La dialettica e la retorica dell'Umanesimo, Milano 1968, pp. 153-162; P. O. Kristeller, Iter Italicum, I-II, ad Indices.