CASTELVETRO, Ludovico
Nacque a Modena nel 1505 circa. Era figlio di Giacomo, ricco mercante dell'arte della lana e banchiere, e di Bartolomea Della Porta.
Fece i suoi primi studi letterari nella città natale, probabilmente sotto la guida di Panfilo Sassi (un simpatizzante delle dottrine religiose protestanti) e di Dionigi Trimbocco. Dedicatosi, per pressioni paterne, agli studi giuridici, frequentò certamente, in una lunga serie di "peregrinationes academicae" che lo posero a contatto con i più avanzati centri della cultura italiana, gli atenei di Bologna (1520 circa) dove forse ascoltò le lezioni di Pietro Pomponazzi, Ferrara, Padova (probabilmente seguendovi come studente di filosofia i corsi di Romolo Amaseo) e Siena dove si addottorò.
A Siena, avendo come compagni di studi Marcello Cervini, Alessandro Piccolomini e Bernardino Maffei, fece la sua prima esperienza letteraria, critica e polemica. Tra i soci dell'Accademia degli Intronati (di cui discusse anche i regolamenti interni e la cui struttura cercherà poi di trapiantare a Modena) lesse e commentò per la prima volta le Rime petrarchesche e si occupò delle "opposizioni" all'Orlandofurioso dell'Ariosto. Trascorse poi un breve periodo di tempo a Roma con lo zio materno Giovanni Maria Della Porta, che fungeva da ambasciatore urbinate presso la S. Sede, il quale cercò di indirizzarlo verso la carriera ecclesiastica preparandogli la designazione a successore del vescovado eugubino. Rifiutata la prospettiva propostagli, ritornò brevemente a Siena e quindi si stabilì definitivamente a Modena (1529), dove nel 1532 i Conservatori della città lo nominarono lettore di diritto all'università. Ma una grave malattia, che durò quasi undici anni, lo obbligò ad abbandonare gli studi giuridici (per i quali del resto non aveva alcun interesse) e a dedicarsi del tutto a quelli letterari. Nel 1542 entrò nella amministrazione dello Stato come soprastante all'edilizia e tra il 1549 e il 1555 fu nominato quattro volte conservatore.
Nel 1530,raccolto intorno a Giovanni Grillenzoni, un artefice del risveglio culturale cittadino per il suo mecenatismo, si venne costituendo un gruppo di studio, noto come "accademia" modenese, con intenti prevalentemente umanistici. Ben presto però il circolo cominciò ad occuparsi di questioni religiose, nel contesto dell'introduzione delle idee riformate in Italia, pubblicando uno zibaldone melantoniano dal titolo El summario de la sancta scriptura, s. n. t. Il C. assunse una posizione di primo piano all'interno della "accademia" e nel 1537ebbe la sua prima polemica religiosa con il canonico regolare lateranense Serafino Aceti de' Porti, che aveva scoperto una copia del libro melantoniano e il 10 dicembre aveva fatto una predica contro gli autori della traduzione accusando apertamente il C. e il grecista cretese Francesco Porto. Nel maggio del 1540 il C. era già sospettato dai domenicani locali di essere un aperto partigiano della Riforma; quando il cardinale Giacomo Sadoleto dovette imporre, a nome del pontefice, una confessione di fede cattolica ai membri dell'"accademia" si rivolse personalmente al C. come al suo massimo esponente (12 giugno 1542). Contemporaneamente alla decisione ducale di sciogliere il gruppo modenese, dietro le pressioni della gerarchia ecclesiastica fomentata da Pellegrino Erri, emergeva da una testimonianza resa all'Inquisizione che il C. era "lutheranus habitus voce publica" (1545).
Dall'anno 1553 - nel quale fece un testamento con cui donava tutti i suoi averi ai fratelli Giovanni Maria e Niccolò - cominciarono quelle gravi traversie che implicheranno il C. nella storia della repressione della Riforma in Italia e lo condurranno a legarsi alla diaspora ereticale in Svizzera. Il punto di partenza degli avvenimenti fu un fatto puramente letterario, legato alla polemica con Annibal Caro, la cui Apologia conteneva una accusa che doveva mettere in moto il meccanismo inquisitoriale già interessato alla situazione modenese. Si trattava della denuncia del C. come "empio nemico di dio" che non credeva "di là dalla morte". Su questa base vennero riprese in mano tutte le precedenti accuse di "luteranesimo" lanciate nei confronti del C. e il fronte dei testimoni dovette allargarsi, anche se non è ancora provata del tutto la complicità del cardinale domenicano Pietro Bertani e di Paolo (oppure Francesco) Castelvetro.
Le prime ricerche atte ad appurare la esatta posizione dottrinale del C. - che allora si trovava a Venezia come certifica una lettera scrittail 4 marzo ad Aldo Manuzio - cominciarono nel 1555 e coinvolsero altri membri dell'"accademia". La vicenda venne inoltre complicata per un caso di omicidio. Il Caro aveva indicato nel C. e in Filippo Valentini i mandanti del delitto del salentino Alberico Longo, letterato e servitore del vescovo Giovanni Battista Campeggi (giugno 1555). Citato dal tribunale di Bologna "ad se defendendum" il C. non comparì personalmente davanti all'auditore generale delle cause criminali, ma contestò la sua giurisdizione attraverso un proprio procuratore: venne condannato a morte e alla confisca dei beni in contumacia il 20 dic. 1556.
Intanto Paolo IV, con un breve del 1° ott. 1555 indirizzato a Ercole II duca di Ferrara, aveva ordinato di mandare all'inquisitore bolognese un gruppo di persone accusate di eresia. Oltre al C. e al Valentini erano indiziati il libraio-editore Antonio Gadaldini e il canonico Bonifacio Valentini. Ercole Il affidò una contro-inchiesta al governatore di Modena, Clemente Tiene, che fece una prima relazione il 26 ottobre denunciando al duca il comportamento non corretto delle autorità religiose bolognesi, che avevano fatto "uno examine per conto della religione" scavalcando il potere del vescovo e la competenza dell'inquisitore locale. Il dato più importante di questa prima fase del procedimento fu che Egidio Foscarari intervenne a favore del C. avvertendo che già in precedenza aveva indagato senza trovare fondamento alcuno alla denuncia.
Il fatto è che la macchinazione contro il C. e gli altri accademici implicati nella vicenda del dissenso religioso modenese era stata organizzata direttamente a Roma. Intermediario tra il pontefice, che voleva giungere a una rapida citazione degli imputati, e il duca di Ferrara, che cercava di resistere, nei limiti delle sue possibilità di vassallo della Chiesa, alle pressioni romane, fu l'ambasciatore estense presso il Vaticano Giulio Grandi. Dalla corrispondenza epistolare emerge chiaramente che la vicenda del C. assunse le dimensioni di un conflitto tra l'autorità religiosa e quella civile sulla questione della giurisdizione. Una prima soluzione, che registra un parziale cedimento estense alle pressioni pontificie condotte da Michele Ghislieri e agevolate dal cardinale Ippolito II d'Este (il quale voleva la sottomissione temendo il "pericolo che corrono li Stati a non resecar per tempo le radici di così triste seme"), fu raggiunta il 6 luglio 1556 quando il duca ordinò al governatore di Modena di pubblicare pure le citazioni contro il gruppo. Ma la reazione modenese fu superiore ad ogni aspettativa. Nella riunione dei Conservatori del 17 luglio uscì un importante documento programmatico di autodifesa della città contro l'ingerenza pontificia e lo strapotere inquisitoriale. Essi giudicarono corretta la decisione del C. di non sottoporsi a giudizio fuori dello Stato estense. La stessa linea di condotta adottò anche il nuovo governatore, Ercole Contrari; mentre i Conservatori ribadirono il loro punto di vista davanti al duca con una ambasceria di Elia Corradini. Anche in questa fase del procedimento il vescovo Foscarari non abbandonò la difesa del C. il quale ricevette "fedeli consigli" e "conforti cristiani" dopo aver difeso l'ortodossia della propria Breve dichiarazione della messa, pubblicata a Modena dal Gadaldini nello stesso anno.
Il nuovo risultato della contraddizione tra autorità civile e autorità religiosa fu che Ercole II comunicò al Grandi la decisione di far giudicare gli imputati solo entro i confini del proprio Stato, recuperando così il cedimento precedente. Di fronte alle insistenze del vicelegato di Bologna, che venne appositamente a Ferrara per chiedere la consegna del C. e degli altri imputati, il duca ordinò solamente la consegna di B. Valentini, in quanto ecclesiastico, il quale decise di presentarsi spontaneamente al tribunale. Ma, essendo stato questi portato a Roma (dove lo aveva poi seguito il Gadaldini) invece che trattenuto a Bologna, così come si era convenuto, il duca comandò al nuovo governatore di Modena, Alfonso Trotti, di non permettere alcuna esecuzione nei confronti del C. e di F. Valentini senza il suo preventivo consenso. Così che, quando il vescovo Foscarari ricevette da Bologna le "cedole" della scomunica pronunciata dall'inquisitore contro il C., il governatore ne impedì la pubblicazione e le autorità romane furono costrette a concedere una proroga fino al 20 settembre. Il C. comunque, come per garantirsi da qualsiasi ritorsione nei suoi confronti, si tenne nascosto in territorio modenese, poi si trasferì a Ferrara ponendosi sotto la protezione ducale tramite il Contrari (1557), infine ritornò nella propria villa della Verdeda, dove poté certo continuare gli studi teologici come dimostra il catalogo della ricca biblioteca personale che conteneva i testi fondamentali dei principali riformatori europei. Datata 3 marzo 1560 è una lettera a un amico a Vienna in cui il C. denuncia la propria condizione di insicurezza e di instabilità non solo nello Stato estense (sempre meno deciso nel proprio rapporto con il Papato), ma anche in qualsiasi altra "parte del mondo che si chiama cristiano".
Dopo la morte di Ercole II e di Paolo IV la polemica sul C. riprese tra Alfonso II e Pio IV. Con una lettera del 5 febbr. 1560 il duca ordinò al proprio ambasciatore di informare il pontefice che non intendeva abbandonarè la politica del proprio predecessore. Voleva cioè continuare a difendere il C. e la tesi del processo dentro il proprio Stato, ritenendo che l'accusa mossa fosse solo il risultato di una calunnia per questioni personali e non fondata sullo zelo della fede. Il C. aveva comunicato al duca di essere infatti pronto a presentarsi di fronte a qualsiasi giudice ecclesiastico deputato dall'Inquisizione, ma di non essere minimamente disposto ad andare a Roma per sottoporsi al tribunale del S. Uffizio. Il duca ribadì dunque che si poteva fare la causa contro il C., ma senza che l'imputato venisse "tirato fuori" dal dominio ferrarese.
Intervenne a questo punto delicato dello scontro il vescovo Foscarari (uscito allora prosciolto da un'accusa di eresia) che chiese al duca di convincere il C. a presentarsi a Roma, dove sarebbe stato trattato con giustizia. Il C., accompagnato dal fratello Giovanni Maria, si recò allora al S. Uffizio romano, seguito dalla attenzione del duca tramite l'intervento dell'ambasciatore, che riuscì a garantire la sistemazione dell'imputato nel convento di S. Maria in Via anziché nel carcere dell'Inquisizione e ad ottenergli la facoltà di ricevere chiunque, si recasse a fargli visita.
Il giorno 11 ott. 1560cominciarono gli interrogatori, condotti da Tommaso da Vigevano, che proseguirono il 14 e il 17. Secondo il Pallavicini il tribunale possedeva, come prova dell'eterodossia del C., l'autografo di un volgarizzamento di un'opera di Filippo Melantone (donde il sospetto che all'interno della famiglia ci fosse stato un delatore). Il Muratori mise poi in dubbio l'attribuzione. Il Fontanini scrisse che si trattava dei Locicomunes pubblicati col titolo Principi di teologia di Ippofilo Terranegra, e si riferiva probabilmente al Summario degli accademici modenesi. Il Tiraboschi scoprì nell'archivio segreto di Castel Sant'Angelo un codice melantoniano dal titolo Dell'autorità della Chiesa e degli scritti degli antichi volgarizzato (all'incirca nel 1545)da Reprigone Rheo con "l'aggiunta di alquante chiose" e trovò - tramite un confronto di scritture e di stile - che si trattava veramente di un manoscritto autografo del C., sul quale sarebbe stato dato ordine di indagare a Camillo Campeggi (3 marzo 1561). Né il Sandonnini né il Cavazzuti, che fece ricerche approfondite, furono in grado di ritrovare il testo negli archivi romani e lo considerarono perduto. Secondo il catalogo del Kristeller il codice si trova attualmente nella Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 7755, e costituisce una delle più importanti testimonianze dell'introduzione della letteratura melantoniana in Italia.
Fu probabilmente in seguito al precisarsi di queste accuse - che avrebbero portato l'imputato alla tortura se non avesse spontaneamente confessato e quindi a una grave condanna come divulgatore della dottrina protestante - che il C., insieme con il fratello, organizzò la fuga da Roma il 17 ottobre. Rientrato in territorio estense, venne ospitato dal Contrari nel castello di Vignola e poi nella sua casa di Ferrara, essendo probabilmente consenziente il duca. Infine si rifugiò di nuovo nella villa della Verdeda. Il 26 novembre il S. Uffizio emise la sentenza finale del processo celebrato in contumacia. Il C. veniva accusato come "eretico fuggitivo e impenitente" incorso nelle pene previste dai canoni della Chiesa contro i dissenzienti. Il tribunale della Inquisizione, nell'inviare il testo della sentenza al duca di Ferrara, chiese la consegna del condannato e organizzò il rogo "in effigie" per le strade di Roma. Tra l'11 dic. 1560 e il 29 genn. 1561 si svolsero tra Roma e Ferrara complesse trattative per risolvere il caso del Castelvetro. Ippolito d'Este, che si fece interprete dello "sdegno" romano per il comportamento del modenese, chiese al nipote di favorire l'esecuzione della sentenza che prevedeva anche la confisca dei beni. Non si poteva continuare a difendere una persona che aveva mostrato tanta ingratitudine verso la premurosa attenzione estense e di quei cardinali, come Rodolfo Pio, che avevano creduto alla sua innocenza. Alfonso dovette cedere alle pressioni pontificie e ordinò l'arresto del C. a Modena. Alfonso Bevilacqua, nuovo governatore, lo dichiarò irreperibile e impedì, su ordine ducale, di procedere nei confronti di Giovanni Maria considerato estraneo all'accusa. Il comportamento delle autorità estensi sembra rivelare una certa complicità con il condannato, al quale fu probabilmente consigliato di uscire temporaneamente fuori dai confini dello Stato. Il C. infatti, sempre in compagnia del fidatissimo fratello, fu libero di incamminarsi come esule verso la Svizzera nella primavera del 1561.
Il C. si fermò a Chiavenna, dove esisteva una numerosa comunità riformata italiana orientata verso posizioni radicali e dove abitava il Porto, fuggito da Modena per causa di religione nel 1558. Dopo solo sei mesi di permanenza in territorio grigione cominciò a progettare il proprio ritorno in patria e si rivolse con un appello al concilio di Trento, dichiarandosi disposto a presentarsi davanti ai padri per discolparsi dell'accusa di eresia. La risposta fu che egli dovesse presentarsi a Roma di fronte al tribunale del S. Uffizio dal quale sarebbe stato trattato benignamente e senza pregiudizio, accontentandosi il pontefice di una ritrattazione in segreto (20 sett. 1561). Nel 1563 la stessa richiesta venne inoltrata dal Foscarari a Ludovico Beccadelli, ma l'esito fu analogo. Di fronte all'atteggiamento assunto dalle autorità cattoliche romane e non potendo affidarsi alla benevolenza del duca, che non aveva la forza necessaria per continuare a difendere un proprio suddito in antagonismo col papa, il C. decise di abbandonare Chiavenna e di trasferirsi a Ginevra, tramite certamente il Porto, chiamato a insegnare nella maggiore istituzione universitaria riformata, e vi si trattenne dal 1564 al 1566 circa. Rifiutato l'invito di Renata di Francia a stabilirsi nel castello di Montargis, a causa delle proprie condizioni di salute. decise di trasferirsi a Lione dove poté continuare per qualche tempo i propri studi letterari (qui avrebbe composto il commento alla Poetica d'Aristotele), legandosi soprattutto agli ambienti riformati degli emigrati lucchesi che davano prova del loro mecenatismo confessionale aiutando gli intellettuali italiani in esilio.
Verso il settembre del 1567 il C., insieme con Giovanni Maria, che aveva fatto ritorno in Francia, fu costretto a lasciare Lione a causa della guerra tra cattolici e ugonotti e, come riformato, si rifugiò a Ginevra presso il Porto, dopo aver perduto la ricca biblioteca e una gran parte dei manoscritti delle proprie opere (tra queste il Muratori ricorda una Grammatica Volgare, un commento ai Dialoghi di Platone e alle Commedie di Plauto e Terenzio - di cui lo stesso Muratori darà alle stampe qualche frammento - nonché parte delle Giunte alle Prose del Bembo). Ritornato a Chiavenna e aperta una scuola privata di studi umanistici, agevolato dall'amicizia del colonnello imperiale Rodolfo von Salis, nel 1569 decise di trasferirsi a Vienna, dove venne onorevolmente ricevuto dall'imperatore Massimiliano II, che procurerà di far stampare la Poetica e interverrà presso Alfonso II per sollecitare un permesso di ritorno in patria (Praga, 27 apr. 1570). È interessante notare che il rapporto tra il C. e il duca di Ferrara non era venuto meno neppure dieci anni dopo la partenza per l'esilio. A Vienna infatti il C. procurò di acquistare dei libri per conto del suo sovrano, che in questo modo lo aiutava anche finanziariamente. Scoppiata la peste, il C. decise di far ritorno a Chiavenna, dove lo raggiunse l'invito di alcuni italiani. a fissare la propria dimora a Basilea, una città nella quale era ancora facile trovare lavoro intellettuale. Ma, improvvisamente, si ammalò. Dopo aver dettato un testamento, che confermava i lasciti del 1553 e lasciava "omnes libri et scripturae cuiuslibet generis sint" al fratello Giovanni Maria (uno dei testimoni fu Alessandro Trissino), venne a morte il 21 febbr. 1571.Venne onorato con un pubblico sermone e nel giardino dei von Salis venne murata una lapide che ricordava la "saevitia" pontificia sfuggita, richiamava la decennale "peregrinatio" ed esaltava quella "retica libertà" che aveva permesso all'esule di vivere secondo le proprie idee: "Tandem in libero solo, liber moriens, libere quescit".
Sulle proprie idee religiose il C. non ha lasciato agli studiosi molti documenti, né molto valore conserva la polemica tra il Muratori e il Fontanini a proposito della sua esatta posizione dottrinale o l'elenco delle proposizioni creticali raccolte dall'inquisitore modenese leggendo il corpus delle opere. Pertinenti sembrano le brevi osservazioni del Cantimori il quale, nell'atteggiamento del C. nei confronti delle varie confessioni protestanti (non privilegiarne alcuna, ma vederle tutte come "iniziatrici di un nuovo moto intellettuale"), vide il manifestarsi di una delle caratteristiche fondamentali della diaspora ereticale italiana in Svizzera, cioè la riduzione della Riforma a un "fenomeno di vita morale e intellettuale soggettiva". Questa annotazione cantimoriana sembra essere confermata dalla scelta del territorio grigione come luogo privilegiato della propria esistenza di esule e dal rammarico che espresse Fausto Sozzini alla sua morte.
Una connotazione ereticale del C. in senso specifico non sembra possibile: dopo gli scontri dell'accusatore Fontanini e del difensore Muratori, dove ad aver visto giusto è proprio il collerico autore della Biblioteca dell'eloquenza italiana con il suo repertorio di luoghi eretici nel C., sparsi nelle chiose petrarchesche e aristoteliche - cavillose le giustificazioni del Muratori che nega anche la traduzione di Melantone −, i contributi più recenti sul letterato modenese non fanno avanzare di molto il problema di una definizione della sua eresia. Ci si è provato il Raimondi (Gliscrupoli di un filologo: L. C. e il Petrarca)che, con metodo utilmente empirico, ha raccolto dati isolati ma capaci di illuminare in proposito. Alla base di tutto il pensiero del C. sarebbe un rigore di moralista, che, indossati i paludamenti dell'erudito, appare inevitabilmente un censore pedante: "Ho bene io udito dire a frati, reputati santissimi e valentissimi, che gli uomini dabbene deono conversare con le belle donne, acciocché il merito cresca, il quale nasce dalla resistenza che si fa alla carne, la quale non può molestare coloro che non veggono mai donna... Io crederei che fosse più sicura cosa l'armare tuttavia con esempi e con ammaestramenti... l'uomo contra i vizi" (Opere varie critiche, "cura di L. Muratori, Berna 1725, p. 226); o ancora "Questo che dice Platone per ischerzo è vero ne' nostri musici, i quali non si ragunano mai se non per cagione amorosa. E chi ha femmine o giovinetti, non se gli deve accostare a casa" (ibid., p. 219); e "Siccome non si concederebbe che un fanciullo usasse con femmine disoneste e con ruffiani e ladri, così non si dee proporre un poeta simile com'è Marziale e Catullo... Né esercitare l'animo in canti simili a' delicati o accompagnati da madriali disonesti e amorosi" (ibid., p. 255). Il senso del peccato è acuto e pare fuori della ragione umana ("È bene contentarsi di credere che Dio sia cagione d'ogni bene, e che il male proceda da noi peccatori, il che è certo, senza cercare d'intendere altro in questo mondo" (ibid., p. 210) e "non è cosa umana ma impossibile all'uomo il mantenersi in stato d'innocenza" (ibid., p. 267). Eppure una deontologia cristiana, basata sulla volontà, forse può salvare: e La virtù procede dal consentimento della volontà al dovere, e 'l vizio dal consentimento della volontà a quello che non è dovere. Ma il conoscimento del dovere è manifesto in guisa, che poche volte se ne disputa... Ma la difficultà sta in consentire al dovere. Perciocché non può seguire l'acconsentimento della volontà senza volere ancora il danno, o il dispiacere: il che è contro natura" (ibid., p. 243). Volontà innanzi tutto come censura: "Io sono dell'opinione che più appaia la proprietà dell'uomo in frenare la volontà... Ma l'essere giusto e temperante ha contrasto, quantunque sia bene, dalla sensualità" (ibid., p. 254). Ma la volontà è labile e stretta la sua porta: una severità prettamente riformata fa allora appello, in primo luogo, alla fede: "Non è vero che la fede è principio della giustificazione e la carità compimento, ma la fede giustifica senza opere, né però si richieggono l'opere",si legge nel manoscritto della Esposizione a XXIX canti dell'Inferno, rimaneggiato nell'edizione del Franciosi (Raimondi).
L'accettazione della sorte umana è severamente ricondotta all'imperativo del dovere: "l'uomo dee dipendere da Dio, ed essergli ubbidiente, e perché ci è dato per pena che viviamo della fatica nostra, dobbiamo vivere di quelle fatiche e per quelle operazioni, che sono approvate da Dio" (ibid., p. 154). Etica peraltro aperta alla dimensione sociale: "gli uomini sono prodotti da Dio a giovare e a dilettare gli altri uomini, ciascuno in arte alcuna o scienza o esercizio. perché conosca la sua sufficienza principale" (Opere, p. 205). Dall'alto di queste certezze tutto quello che può venir meno al rigore morale, è respinto nel male; si leggeva nei Principî di teologia:"Quei che si sforzano di esprimere la legge per le forze della natura o del libero arbitrio, simulano solamente l'opere esteriori, non esprimono gli affetti che ricerca la legge". Così è condannato il papa ("non si potendo credere che il Commune di sua spontanea volontà si fosse fatto servo d'un prete": questo nell'edizione viennese della Poetica del '70, p. 584, alludendo al dominio temporale del papa), i riti liturgici ("che avveniva nella rappresentazione della passione del Signore in quelle contrade, dove si costumava fare con poca edificazione del popolo",ancora nella Poetica), il clero ("Sappiasi che i boschi consacrati agli dei falsi non si tagliavano per perderne l'uso, perciocché l'uso consiste nel taglio. E così altri consacra sé, rendendosi inutile a tutte le cose del mondo, per solamente servire Dio, onde sono nate le suore, i monaci": ibid., p. 251). Da una tale personalità ci si può attendere facilmente l'adesione alle tesi riformate: ed è forse inutile anche cercarne una corretta definizione storica. Il C. svolge la sua critica razionalistica alla tradizione della Chiesa cattolica, in nome del rigore intellettuale e morale che struttura e organizza ogni suo pensiero, ogni suo comportamento.
Ad inserirsi nelle vicende, già intricate, della persecuzione del C. per eresia, è un altro episodio, emblematico della intellettualità accademica di questo scorcio di secolo: la disputa con il Caro, che sorta nel '53 con la pubblicazione della canzone del Caro "Venite all'ombra dei gran gigli d'oro",proseguirà per oltre un decennio, estenuandosi nei rivoli di una polemica tra conventicole intellettuali. La canzone encomiastica, che il Caro scrive su invito del cardinale Alessandro Farnese ad esaltazione del casato regnante in Francia, è perfettamente aderente al codice encomiastico vigente, di cui è anzi una spettacolare esemplificazione: il successo di pubblico tra l'intellighenzia cortigiana è conseguente. Il C. è un arcigno lettore di quei versi ridondanti: mostra di detestare gli orpelli linguistici e metaforici di cui fa largo uso il Caro ed espone il suo parere ad Aurelio Bellincione, modenese presso la corte romana, il quale, con una punta di malizia, glielo aveva richiesto, inviandogli la canzone. La risposta del C. è in poche righe, destinate, come egli stesso afferma, a rimanere private: contengono giudizi pesantemente negativi, decise censure al lessico del Caro, fuori della normativa petrarchesca. Lo scritto invece circola, viene letto dal Caro stesso e recepito come un attentato alla propria auctoritas di intellettuale di corte. La polemica scoppia immediatamente: la replica è l'Apologia degli Accademici di Banchi di Roma (Parma 1558), che comprende la premessa di Pasquino, Ilrisentimento del Predella, La rimenata del Buratto, e Ilsogno di ser Fedocco, altrettante tappe di una polemica regressiva che dalla discussigge intellettuale giunge sino all'ingiuria grottesca; seguono le rime dei Mattaccini e dei nove sonetti della Corona, visioni fantastiche sempre ingiuriose nei confronti del Castelvetro. L'Apologia è firmata dagli Accademici di Banchi ed è certo che il Caro radunasse attorno a sé, per l'occasione, un gruppo agguerrito di letterati, con alla testa Benedetto Varchi. Il C. non è da meno: gli offrono l'appoggio l'amico Gian Maria Barbieri, che compone le terzine del Triperuno, in risposta alle rime della Corona, e F. Robortello che propone di prendere pubblicamente posizione contro il Caro. Il C. avrebbe rifiutato questi aiuti: è lui a replicare, pubblicando, a soli quarantacinque giorni dall'uscita dell'Apologia, le Ragionid'alcune cose segnate nella canzone d'Annibal Caro (Modena 1559). La censura questa volta è dettagliata e circostanziata: le cadute lessicali del Caro riguardano sia l'uso improprio di vocaboli stranieri, sia la mancanza di un grado omogeneo di linguaggio, non contaminato da scelte prosastiche o da parole "vili". Riguardo alla cattiva traduzione dei vocaboli stranieri, il C. si rifà all'autorità di Quintiliano, per affermare che l'uso di questi è ammesso o perché già entrato nella tradizione linguistica o perché avente una funzione espressiva all'interno del discorso: già da questa tesi, corretta anche alla luce di una moderna teoria dell'espressionismo linguistico, appare evidente l'esigenza, sempre presente nel C., di codificare le tecniche comunicative attraverso criteri interni al sistema del linguaggio, mai occasionali, ma dettati dall'economia del sistema stesso. Così, allorché tende a ridurre l'area della traslazione metaforica degli oggetti del discorso, è guidato da un simile criterio di economia (espressiva e fruitiva): la metafora deve essere simile all'oggetto reale da cui il discorso muove, in modo da mettere in luce l'universale struttura che regola il segno e la cosa, e da facilitarne la comprensione.
Nel '70 Varchi pubblica a Firenze l'Ercolano ovvero il dialogo delle lingue in cui interviene direttamente nella polemica. Dopo aver criticato l'acrimonia di tutti e due i contendenti, l'autore entra nel vivo del problema, giustificando le scelte linguistiche di Caro. La risposta del C. non si fa attendere ed è ancora puntuale, fino alla pedanteria. Esce postuma, a cura di Giov. Maria Castelvetro a Vienna nel '72, Sotto il titolo Correttione d'alcune cose del Dialogo delle lingue di Benedetto Varchi. Il C. inizia ad ironizzare sulla necessità avvertita dal Varchi di giustificare il proprio scritto: al censore sfugge la captatio benevolentiae a cui il Varchi fa ricorso e al contrario si impone la necessità che l'autorità della scrittura emerga dalla sua stessa organicità; che poi Varchi citi a suo favore le commendizie dei contemporanei G. Guidiccioni e M. A. Flaminio è cosa ancor più criticabile per il C.: la parola scritta, dice dopotutto, è l'unica realtà indagabile per rinvenire una sicura autorità intellettuale. Così quando Varchi afferma (nella dedica dell'Ercolano) che, se la pittura e la scultura riguardano i corpi, l'eloquenza - anche nella scrittura - riguarda l'anima, il C. puntualizzerà sottolineando l'importanza della pittura e della scrittura come delle arti che mantengono più a lungo la memoria delle cose. Un'autorità tradizionale, quella della scrittura - che rimanda ancora una volta alla dimensione religiosa del problema, incentrata sull'autorità delle Sacre Scritture - rivendica, in tal modo, il suo ruolo funzionale nel campo dell'arte. Successivamente il C. non perde occasione di mostrare il suo disprezzo verso i contemporanei: riprende duramente gli errori di citazione del Varchi dagli autori classici, irride alla prosopopea intellettuale del Bembo, schernisce l'inettitudine di Girolamo Ruscelli commentatore del Decameròn ed infine nuovamente polemizza con - il Varchi che non riconosceva l'utilità dell'etimologia come scienza storica del linguaggio. Il C. espone brevemente le sue tesi in proposito con lucidissimi esempi di grammatica storica (ad esempio, sulla costruzione del futuro del verbo). L'intervento contro il Varchi è l'ultimo atto della polemica: il C. muore. il Caro si era spento già sei anni prima. Gli accenti canaglieschi del contrasto rimangono una sintomatica tranche de vie dell'accademismo tardo-rinascimentale.
Da un'angolazione privilegiata, qual è quella offerta dall'epistolario cariano, traspaiono i modi del confronto tra i due letterati, tra le due "autorità": l'indifferenza sprezzante dei primi anni (lettere al Varchi dell'aprile-maggio '55), la preoccupata difesa della dignità compromessa dalla disputa (lettera a Ferretti, settembre '55; a P. Casali, gennaio '57), gli scambi epistolari con la poetessa Lucia Bertana (dicembre '56, gennaio '57). intervenuta presso i due contendenti per cercare di comporre le parti (altrettanto farà Ercole II d'Este); le risposte, da parte del C. e del Caro sono di ossequioso rifiuto, l'uno scaricando le responsabilità principali della contesa sull'altro. Nel '59 gli accenti, nelle lettere del Caro, diventano di vera e propria insofferenza dell'avversario: scrive al Varchi nel settembre: "ora fate come vi siete offerto questo favore a me, e questo beneficio al nostro secolo, di smorbarlo dalla carogna di costui". O, ancora al Varchi, nel maggio '60: "E credo che a l'ultimo sarò forzato a finirla per ogn'altra via, e vengano che vuole". L'allusione può essere alle accuse di eresia che il Caro stesso avrebbe alimentato contro l'avversario. La disputa oscilla tra il grottesco e il tragico: Alberico Longo, seguace del Caro, è ucciso misteriosamente, nei pressi di Bologna, nel giugno 1555. Corse voce che il sicario fosse un uomo del C.: Caro stesso vi allude in una lettera a Vincenzo Fontana, del luglio '55. Al riguardo manca ogni prova: il silenzio in proposito di L. A. Muratori e del nipote del C., Ludovico, nelle biografie sul letterato modenese, può far pensare a un desiderio di nascondere una reale colpevolezza. Il C. d'altronde fu citato in giudizio, per questo fatto, dall'uditore generale delle cause criminali di Bologna, alla fine del 1566. Il C. obiettò l'incompetenza della giurisdizione, ma venne ugualmente processato e condannato in contumacia alla decapitazione e alla confisca dei beni.
La giustizia ripetutamente colpisce il C.: la sua alterigia, non solo intellettuale, non gli facilita certo i rapporti con i delicati equilibri delle corti e delle accademie. Gli avvenimenti di cui egli è al centro puntualmente convergono alla demolizione non dell'autorità che il C. impersona (autorità dei testi del C.), ma della sua collocazione civile e morale all'interno delle istituzioni. Il contrasto col Caro in fondo si riduce all'opposizione di due identità strutturalmente similari ma storicamente dislocate in situazioni diverse: l'accademia cortigiana di Roma, con il sentore di un potere dispotico e privo di scrupoli che aleggia nel pontificato farnesiano, si scontra, perché messa in discussione nella propria autorevolezza, con la grintosa intellettualità riformata, che, in nome di un razionalismo critico, tende a riformulare il principio d'autorità, partendo da una rinnovata concezione della letteratura, dell'arte come scienza. La posta in gioco è quindi rilevante e questo spiega la disparità tra il pretesto del contrasto e le reazioni polemiche che ne seguono a catena: e spiega anche la durezza dello scontro. Il misto di cialtroneria buffonesca e di allure erudita che ci offre l'Apologia è il metro esatto della volontà di distruzione che anima i due antagonisti, dal momento che aggrediscono addirittura i modi e le motivazioni dei rispettivi status sociali.
Le accuse di eresia nei confronti del C. erano state sempre argomentate con il suo frequentare i testi eretici della Riforma: a distanza di tre secoli dalla morte un rinvenimento sembrò confermare tutto. Nel 1823. nella casa di Staggia, presso Modena, appartenuta a varie generazioni della famiglia Castelvetro, vengono alla luce opere di Lutero, Calvino, una traduzione del decreto di Carlo IX sulla tolleranza verso i protestanti e, ancora, testi di Erasmo e commenti ai Vangeli.
Il corpus delle opere del C. presenta caratteristiche strutturali analoghe a quelle che hanno regolato l'esistenza stessa del modenese: ad una sostanziale e solida coerenza di fondo, tale da permetterci di parlare di un sistema intellettuale omogeneo e rigoroso, risponde in superficie una variegata diversità diargomenti e di toni che rende estremamente articolato l'iter critico castelvetresco.
Iniziamo con lo sfoltire il corpus di un'attribuzione quasi certamente indebita: quella della commedia degli Ingannati, che, rappresentata per la prima volta a Siena nel '31, è stata attribuita al Castelvetro. I dettagli della toponomastica modenese e la coincidenza della probabile presenza del C. a Siena con la rappresentazione costituiscono i non troppo convincenti argomenti dell'attribuzione. In realtà è possibile escluderla per motivi di fondo: da un lato la commedia - pubblicata di seguito al Sacrificio, altra opera teatrale nata in seno all'Accademia degli Intronati - è perfettamente aderente al gusto comico-realistico del teatro senese contemporaneo; dall'altra appare ben difficilmente riconducibile alla seriosità un po' pedante che permea tutti gli scritti del C. in nostro possesso.
Negli anni giovanili e nel periodo della accademia modenese, sappiamo solo indirettamente (Tiraboschi e Muratori) che il C. tradusse assieme a Giovan Maria Barbieri poeti provenzali e compose una grammatica provenzale. Ancora il Muratori parla di una Dichiarazione sul Pater Noster e Sulla maniera d'ascoltar messa, scritte su invito del vescovo Foscherari, probabilmente per allontanare i sospetti di eresia. Il Sandonnini attribuisce anche al C. De la vita de li monaci. Un corpus inedito manoscritto (Ploncher) comprende: Sposizione de' Vangeli del Crisostomo, Racconto delle vite d'alcuni letterati del suo tempo, di cui Muratori e Tiraboschi pubblicano solo dei passi. Ludovico Vedriani indica le seguenti opere di C. andate perdute: Sopra l'ortografia; Sull'etimologia delle parole o delle novelle antiche; Cronache delle cose avvenute in patria. L. A. Muratori, in possesso di uno "zibaldone" manoscritto del C., pubblica a Berna, nel 1727, un volume di Opere varie critiche non più stampate, che comprende: Parere sopra l'aiuto che domandano i poeti alle Muse -eliminando ogni referenza irrazionale dell'invocazione (le Muse come "figura" dell'ispirazione del poeta) il C. definisce una nuova legittiniità del procedimento in quanto procedimento retorico, di innalzamento e di straniamento della materia poetica; alla luce di questa teoria il C. non manca di censurare l'uso errato che il Caro fa dell'invocazione -; Luogo dell'Elena d'Euripide ammendato; Luogo di Cesare nel terzo libro della Guerra civile ammendato; Come P. Bembo voleva dare ad intendere di sapere ed avere quello che non sapeva e non aveva; Quale fia la correzione di G. Ruscello sulle novelle di Boccaccio; Alcuni difetti commessi da G. Boccaccio nel Decameron (lo stesso Muratori dà notizia di numerosi altri capitoli di correzioni a Boccaccio, da lui non pubblicati perché materia troppo "fangosa"); De' predicamenti (sulla nozione di sostanza, definita attraverso categorie universali, in un procedimento deduttivo tipicamente aristotelico); Che le cinque voci di Porfirio non sono tante quante vogliono essere (sul "predicato" sempre in senso aristotelico); De' relativi (una semantica del relativo); Che cosa abbia la scienza comune o differente con l'arte (hanno in comune "la fermezza delle prove dimostrative": la scienza ha per oggetto cose che "per sapersi non possono venire all'atto",l'arte invece si occupa di oggetti sperimentabili, che devono però essere utili e onesti); seguono alcuni capitoletti su problemi etimologici; poi Sposizione di un verso di Petrarca; Esaminazione della prima ode di Orazio; Alcune cosette intorno alla Commedia di Dante;segue il commento a cinque canti del Purgatorio; Chiose alle Commedie di Terenzio, alla Repubblica, al Protagora e ad altri dialoghi platonici.
Tra il '49 e il '63, in un lungo arco di tempo che comprende gli anni della polemica con il Caro, il C. compone le Giunte alle Prose del Bembo:nel '72, ad opera di Giovanni Maria Castelvetro, sono edite le Giunte al primo libro delle Prose;quelle agli altri due libri sono stampate per la prima volta a Napoli nel 1714 da Vitaliano, a cui erano pervenute manoscritte dal Muratori. Il serrato commento che il C. oppone al testo bembiano in realtà più che interessare in quanto intervento sul linguaggio che, correggendo le posizioni del Bembo, porti un contributo al dibattito sul volgare, contribuisce a delineare il metodo critico dei Castelvetro. In fondo le posizioni originali enunciate dal C. sono riconducibili a due o tre motivi ricorrenti: la tendenza a ridurre l'influenza della cultura romanza sulla formazione della cultura italiana. sia al livello linguistico-lessicale (dove si ricostruisce l'iter etimologico di alcune parole in diretta derivazione dal latino) sia al livello di tradizione poetica (il C. sostiene che la scuola siciliana precede storicamente quella provenzale per cui in ambito italiano è da ascrivere la nascira della poesia volgare). Quanto al giudizio sull'uso del latino o del volgare il problema è da inserire, per una migliore comprensione, nella prospettiva generale in cui il C. considera i fenomeni artistici e linguistici, comunque "comunicativi". Dato che ambedue i tipi di comunicazione si formalizzano solo a partire da una convenzione tra i due poli entro i quali i fenomeni si realizzano - cioè autore e pubblico, emittente e ricevente -, occorre tener presente, nella definizione dei particolari codici comunicativi, la situazione storica di emissione e di fruizione del linguaggio. Se dunque l'uso del latino è reso impossibile dalla mancanza di parametri adatti a definire esattamente le qualità del lessico e delle costruzioni grammaticali, in quanto tali parametri sono patrimonio solo del popolo che parla la lingua viva, altrettanto impossibile diviene proporre i codici stilistici e lessicali trecenteschi, come avveniva nel Bembo, che risulterebbero inadeguati alla espressività cinquecentesca. Per il C. dunque la vigilanza che un pubblico, un popolo parlante, esercita sul linguaggio è assoluta - il che però non esclude che all'interno di una peculiare istituzione letteraria, come la poesia petrarchista, sia lecito fissare i canoni di una tradizione aulica metastorica -, tanto da arrivare ad affermare clie il successo di una lingua è collegato all'uso che ne fa il popolo. Allora i criteri di giudizio su una lingua sono difficilmente generalizzabili, ma piuttosto relativi alle diverse situazioni storicoculturali dei parlanti; per poter teorizzare una scelta linguistica come fa il Bembo, occorre tener conto di tutto ciò: le corti italiane, che non hanno saldi contatti con il popolo, parlano un linguaggio irrigidito ed improponibile. Diversa è invece la condizione della corte pontificia che, data la sua natura accentratrice e sopranazionale, è andata istituendo un codice linguistico al tempo stesso solido, duttile, ed esteso ad un gran numero di parlanti. Pur senza esplicitare una sua definitiva posizione in proposito, il C. sembra incline a privilegiare il volgare parlato in Roma; ma i criteri di questa scelta sono del tutto singolari, empirici, non legati ad una concezione aristocratica della cultura (intesa nell'accezione moderna globale), ma piuttosto ad una concezione autoritaria di essa, del potere che essa va acquistando, della obbligatorietà delle sue funzioni, una volta che siano state definite nella pratica.
Le rime del Petrarca brevemente sposte portano la data del 18 ott. 1545; anchesse però furono stampate postume, a Basilea nel 1582. Il Raimondi afferma che molte annotazioni presenti nella stampa di Basilea furono aggiunte al testo in epoca successiva al '45. La tradizione dei commentari petrarcheschi, in questa prima metà del Cinquecento, permaneva ricca e vivace: uno dei commentatori cronologicamente più contigui al C. è B. Daniello (1541) che ancora, con forza, ricerca nel Petrarca il modello di un mondo sentimentale ed intellettuale, organizzato in un equilibrio e un ordine perfettamente rispondenti a quelli postulati dal classicismo, La opera di C. è dunque in qualche modo dirompente: ridotto Petrarca e la sua poesia ad universo letterario altamente formalizzato ma pur sempre derivante da procedimenti letterari definibili dal critico, non rimane alcuno spazio per una interpretazione neoplatonica del Canzoniere, che vi delinei un itinerario d'amore, alla conquista del sublime (degli oggetti e dei segni che li esprimono). Il C. non rivendica né lo status del filosofa né del teosofo, ma del filologo, anzi del grammatico. Con minime aperture, nella parte iniziale dell'Esposizione, allabiografia dell'autore secondo i dati rinvenibili nei sonetti, l'ottica razionalistica del C. ricerca soltanto le strutture semantiche del testo per confrontarle con l'impalcatura lessicale e grammaticale, verificarne la pertinenza e la coesività. L'acribia critica ed intellettuale è totalmente devoluta ad una scienza letteraria, capace di definire i procedimenti testuali e la loro razionalità. Ma ad una modernità del C., in senso scientista (come piacque al Della Volpe che recuperò alle proprie categorie - l'"aseità" ecc. - il razionalismo riformista del C.), occorre porre limiti precisi. L'analisi, ripetiamo, rigorosamente testuale, che il C. compie di Petrarca, come d'altronde di Dante e di altri, è tutta al livello di contenuto: gli stessi rilevamenti grammaticali che pure il letterato modenese compie con assiduità o sono al livello di critica di improprietà lessicali oppure di rinvenimento di stilemi sintattici tradizionali di cui egli mette in dubbio l'appropriatezza del contesto poetico. Gli sfugge dunque tutta la dimensione metalinguistica del testo, non distingue tra denotazione e connotazione riconducendo la seconda alla prima, ed infine appiattisce il gioco metaforico di certi versi (appunto ignorandone il livello connotativo) ridotto spesso ad un meccanico allegorismo. È chiaro come da un simile smontaggio il Canzoniere, testo quanto mai legato alle qualità metalinguistiche, ne esca a pezzi: i giudizi sui singoli sonetti, e soprattutto sui Trionfi, sonoper lo più negativi: una pervicace volontà di ridimensionamento conduce gli oggetti, le situazioni narrate ad una sospirosa e un po' banale vicenda sentimentale. La canzone della Vergine, a proposito della quale il Dolce, nel proprio Commentario, diceva che Petrarca vi appariva non meno divoto religioso che buon poeta per il C. diventa un tentativo di nobilitazione dell'amor profano, incerto nell'intenzione e maldestro nel risultato, tecnicamente tutto sbagliato. Sulla funzione storica dell'Esposizione del C. dice già abbastanza questa diversificazione con i commenti precedenti, di cui quelli di Dolce e di Daniello sono rilevanti esempi: tra crisi del petrarchismo (Baldacci) o scrupoli di filologo (Raimondi), il C. sfronda la letteratura di tutte le responsabilità gnoseologiche attribuitele: è su questa linea la teorizzazione, nel commento alla Poetica, del rinvenimento del fine della poesia non nella verità, ma nel diletto che essa apporta attraverso il discorso ornato.
Secondo il Tiraboschi è al '63, cioè al primo soggiorno svizzero, che è databile la Esaminazione sopra la Retorica a Caio Herennio. Il commento al trattato ciceroniano, che il C. considera anonimo, è l'occasione per una sua personale definizione dell'arsdicendi. L'impronta generale è, al solito, pratica, eliminando le ascendenze filosofiche (aristoteliche) che riconducevano la retorica allo stesso rango della poetica, come griglia conoscitiva del mondo intero. Ricordiamo l'inizio della Retorica:"La retorica è analoga alla dialettica: entrambe riguardano gli oggetti che è proprio di tutti gli uomini conoscere". Il C. sottolinea il carattere strumentale, "tecnico" delle categorie e norme retoriche. Esse hanno la funzione di venire incontro alle carenze dei mediocri oratori o mediocri scrittori. La retorica non ha qualità proprie, ma può essere buona o cattiva, a seconda che sia o no dalla parte della giustizia: proprio da questo dipende la distinzione tra "arte" e "ufficio" della retorica. Intendendo la retorica come un procedimento dimostrativo di una tesi, il C. distingue tra un momento della dimostrazione che è ontologicamente dato, dunque imprescindibile, ed uno che è invece affidato alla creatività del "dicitore": sono date le cause dell'argomento, quelle che permettono di motivare la tesi; sono create le prove, cioè la formalizzazione delle cause: "la inventione, la dispositione, l'elocutione la memoria e la profferenza sono del dicitore e da lui sono trovate ed adoperate". Si veda come la concezione "funzionale" della retorica prenda l'avvio da un rilievo crescente dato agli oggetti del reale, che, non più filtrati dal reticolo del discorso, come avveniva nei procedimenti della dialettica, premono ora, a loro volta, sul discorso stesso, dettandogli modalità e finalità. Ancora un esempio della prospettiva pratica scelta dal C. per le sue teorizzazioni, l'abbiamo nell'accenno al ruolo del pubblico che è un elemento condizionante, per il C., di ogni elaborazione artistica o comunque comunicativa. Il pubblico è per il retore l'avversario da convincere: è su di lui quindi che vanno scelti e calibrati i procedimenti organizzativi ed esornativi del discorso.
La Sposizione a XXIX canti dell'Inferno dantesco venne edita per la prima volta a Modena nel 1886 da G. Franriosi. Le vicende del commento del C. sono varie: sembra che l'intera esposizione della Commedia sia andata perduta, insieme con altre opere, a Lione nel '67. Il Tiraboschi attribuisce anche al C. delle postille in margine all'edizione landiniana del 1497: il Franciosi nega la paternità, riproposta recentemente da R. Melzi delle chiose. È certo che il commento castelvetresco deve molto a quello di Landino: sull'aristotelismo di base che informa, come si è visto, tutto il metodo esegetico del C., si sovrappongono dei toni neoplatonici e ficiniani, soprattutto per quello che riguarda i concetti di "amore" e di "bene". L'atteggiamento del C. nei confronti del poema dantesco è in fondo molto meno dissacrante di quello conservato nei confronti di Petrarca. La motivazione può essere di una maggiore funzionalità della Commedia, rispetto al Canzoniere, al metodo critico del Castelvetro. Sezionando la poesia dantesca, anche conl'occhio al solo senso denotativo, l'universo di discorso che ne emerge è molto più vasto, ricco e diversificato che in Petrarca. Cioè la Commedia, dal punto di vista "comunicativo",sembra trasmettere molte più informazioni del Canzoniere. Da questo ne consegue il giudizio che sui due poeti darà il C. nella esposizione della Poetica: "Dante dee essere sopraposto al Petrarca, avendo impiegato quelli lo stile in poema grande e magnifico... et questi in poema picciolo e modesto". La struttura della poesia qualifica lo stile che gli dà forma. Quanto al nome di "commedia",oltre ad una dichiarazione di modestia da parte di Dante nell'attribuirsi una materia umile, il C. vi vede un motivo "funzionale": "che egli abbia nomata questa opera comedia, perché in essa si contengono molte e acerbe riprensioni".
La Poetica d'Aristotele volgarizzata e sposta è completata a Vienna nel 1567: viene pubblicata nella stessa città nel 1570. Una seconda edizione esce a Basilea nel 1576, con evidenti manipolazioni, forse di Giovanni Maria Castelvetro: l'intenzione evidente era quella di eliminare quelle frasi che potevano risultare sgradite all'ortodossia cattolica.
La tradizione critica del secolo aveva già fissato in Aristotele, come in Platone ed in misura diversa in Orazio, una delle fonti d'autorità da cui derivare categorie e procedimenti per la definizione di una scienza letteraria, o più latamente estetica. Il concetto fondamentale di "imitazione" fu una sorta di passe-par-tout teorico capace di far slittare il pensiero critico dal naturalismo aristotelico (imitazione della natura), all'idealismo platonico (imitazione delle idee) o infine alla codificazione retorica oraziana (imitazione dei caratteri umani nei modelli classici). Naturalmente i tre filoni hanno un apdamento altamente irregolare, fatto di sovrapposizioni, di equivoci, di usi impropri di categorie. Altro Leitmotiv di questa trattatistica è rinvenibile nelle finalità attribuite alla poesia, o all'arte in genere, oltre alla definizione dei mezzi di cui questa può disporre per raggiungerla. Il compito della poesia è un compito essenzialmente conoscitivo: deve educare ed istruire e la retorica è il suo strumento migliore, quello che differenzia la poesia dalle altre arti, in quanto permette di "movere" lo spettatore o il lettore, di sollecitarne l'attenzione e la partecipazione (Vida, Daniello, Fracastoro, Robortello). Ma se il modus dicendi viene privilegiato come tecnica che informa ogni sistema poetico, il piano del contenuto non può essere per questo lasciato ad arbitrio dell'autore: su tale punto assistiamo ad un progressivo spostamento del discorso. Fino a circa la metà del secolo (Barilli, in Poetica eRetorica, indica in Fracastoro lo spartiacque cui si allude) predomina una concezione filosofica della poesia che ha la funzione privilegiata di astrarre dalla natura e di attingere ad una sorta di universalità degli oggetti (secondo l'ascendenza neoplatonica, inaccessibile per le altre arti o scienze). Questo o attraverso una sorta di onniscienza del poeta (Fracastoro) che può intervenire su qualsiasi materia (la retorica intesa come griglia conoscitiva, formalizzante la natura, permette questo miracolo), oppure attraverso una sorta di astrazione "determinata" (Robortello), per cui l'oggetto della poesia - azioni o personaggi - si fissa in un modello tipico, conchiuso ed omogeneo, dotato di "pertinenza" linguistica. Il C., tra queste due posizioni, opera la consueta azione di ridimensionamento del problema. La differenza che egli teorizza tra storia e poesia è quella consueta tra vero e verisimile (anche in Daniello e Robortello, poi in Tasso): solo che la verisimiglianza è una qualità che, se pure si avvicina al "tipico" teorizzato da Robortello rimane pur sempre'immanente alla materia trattata, senza pretese mentalistiche o idealistiche. La verità prima di essere nelle parole è nelle cose (così anche in Scaligero); sono queste ultime a condizionare ogni principio di formalizzazione. L'importanza di ciò emerge allorché si tratta di definire il ruolo del poeta che, delimitata la sua zona d'intervento - il probabile, non l'accaduto - diviene un tecnico della formalizzazione, provvisto di strumenti specifici - la retorica - e di finalità adeguate - il dilettare. Come sottolineava Della Volpe, c'è una riduzione dell'universo di discorso del poeta, tesa ad una ricerca di scientificità. In nome di questa ricerca il C. muove, all'inizio del commento, delle accuse ad Aristotele: innanzi tutto la Poetica gli si presenta come un testo disomogeneo e frammentario, più un repertorio di luoghi teorici da analizzare che un coerente sistema speculativo. Minori sarebbero state queste lacune se Aristotele avesse fatto precedere la Poetica da una Storia: è in questa infatti che bisogna cercare il vero. mentre in quella la verisimiglianza; e la seconda precede, logicamente ed empiricamente, la prima - l'empiria del C. segue un procedimento deduttivo e rovescia in tal modo la accezione che "verisimile" aveva presso l'idealismo neoplatonico - così come il "rappresentato" precede il "rappresentante"; in tal modo viene anche postulata una ontologia della verità che fa giustizia di ogni ambizione gnoseologica della retorica. La retorica diviene allora una mera tecnica, applicabile ai diversi tipi di discorso: anche il discorso della storia può avere una sua retorica. Nel ritrarre la verisimiglianza la poesia attua un particolare tipo di imitazione della natura: questa imitazione può essere nei modi o nella materia ma, come si è detto, il ruolo del poeta emerge proprio dalla fusione dei due livelli, dalla "maniera della materia".
Altra distinzione fra storia e poesia: la storia usa materia "data" e parole comuni, la poesia materia "trovata" e parole composte. La materia data è: 1) "forma delle cose animate ed inanimate"; 2) "azioni di cose non animate"; 3) "azioni umane". Questo ultimo punto è comune alla poesia, che, si è detto, vi deve applicare un procedimento di astrazione. Poi il C. passa a definire i modi dell'imitazione artistica: c'è un modo narrativo ed uno rappresentativo. Il modo narrativo ha la proprietà di far uso di un solo tipo di segni, quelli linguistici. Questi imitano le parole e le cose: le prime indirettamente, le seconde direttamente (una embrionale distinzione tra linguaggio e metalinguaggio). La narrazione non ha obbligo alcuno di unità, a differenza della rappresentazione: e ciò perché il C. è attento a motivare empiricamente ogni carattere attribuito al genere letterario. La poesia si distingue in severa (lode, epopea, tragedia) e piacevole (giambo, villania, commedia). L'epopea, pur avendo materia comune alla tragedia, ha la "diversità del verso, la licenza delle lingue, la lunghezza delle favole, il modo narrativo, la rassomiglianza dei simili e dei maggiori" (Poetica, p. 61); al contrario la tragedia si presenta come un nucleo molto più omogeneo e rigorosamente definito. Alla definizione della tragedia è dedicata la terza parte del commento del C.: il problema della catarsi, centrale dell'estetica aristotelica e soggetto alle interpretazioni più diverse nella trattatistica rinascimentale - sino a risolversi nell'edfficazione dello spettatore controriformista - acquista nel C. un inusitato rilievo razionalistico. Nell'osservare la rappresentazione delle passioni, lo spettatore è partecipe dell'infelicità che tocca ai buoni e si indigna per la felicità ottenuta dai cattivi: essendo difficile conciliare ciò con la teoria del diletto a cui deve tendere l'opera letteraria, ecco il C. rovesciare la situazione affettiva di cui si è detto, attraverso un processo di razionalizzazione. Rattristandosi per la punizione della virtù e indignandosi per la premiazione del vizio, lo spettatore "verifica" i propri giudizi morali, i propri criteri di giustizia; la soluzione del C., forse solo abile via di uscita dalla contraddizione a cui era giunto il suo discorso, offre in realtà un brillante momento di luce sul processo di gratificazione che regola la fruizione dell'opera teatrale o letteraria. Gratificazione che, come avverte il C., non è meccanica partecipazione ai "messaggi" dell'opera, ma si situa al livello delle strutture profonde della fruizione estetica, sul piano di una fruizione non disinteressata del prodotto artistico, ma funzionalizzata all'economia psichica del singolo fruitore (con il Freud dei Motti di spirito, si potrebbe dire che il dispendio affettivo provocato dalla tragedia è equilibrato dalla attesa preconscia di questo dispendio e dal consenso ad esso).
Altro momento di notevole interesse è nella definizione della "favola". Il C. afferma che il compito della tragedia non è l'imitazione dei "costumi",ma delle azioni, dei comportamenti, che si realizza appunto nella "favola" - con un'accezione dunque non lontana dalla fabula dei formalisti russi. La favola deve essere verisimile (il "meraviglioso" è ammesso purché non intacchi questa verisimiglianza), conchiusa, di giusta misura per venire incontro alle esigenze del pubblico. Da qui deriva anche l'affermazione dell'unità di luogo, di tempo e d'azione che il C. deriva dal testo aristotelico: oltre a permettere una maggiore coerenza della favola, quindi una più diretta fruibilità, essa tiene presenti l'esigenze anche fisiche del pubblico che non può assistere a rappresentazioni troppo lunghe senza disagi, né, d'altra parte, può dar credito a vicende di diversi giorni, racchiuse nel giro di poche ore. I criteri dell'opera dunque sono derivati in primo luogo dal suo essere formata in una situazione socioculturale: il pubblico è elemento determinante e per la materia della imitazione artistica e per i suoi modi. Dirà ancora il C. che la favola richiede doti di credibilità e questa credibilità va commisurata esclusivamente sui parametri di un pubblico popolare, e di un popolo semplice e incolto. Se il rilievo dato all'elemento del pubblico già emergeva in precedenti trattatisti (Robortello, ad esempio), solo nel C. la nozione di pubblico cessa di essere generica ed astratta, per identificarsi con il popolo incolto, possessore di una specie di sensibilità media che detta al letterato i termini del codice artistico da utilizzarsi. Anche da questo emerge il carattere di convenzionalità che il C. attribuisce al linguaggio letterario: la convenzione stipulata tra autore e fruitore richiede una coerenza di tutto il prodotto artistico. È così che il "credibile" non è un predicato degli oggetti reali, ma una qualità relativa alla situazione storica.
Il C. passa poi a definire i vari tipi di favola, attraverso una ricognizione di situazioni narrative che potrebbero lontanamente apparentarsi a quelle teorizzate dai formalisti russi. Quindi interviene sui problemi più specifici di tecnica linguistica: dopo aver affermato che il verso della tragedia risponde soprattutto all'esigenza di essere meglio udito e ricordato, grazie al ritmo, dagli spettatori, affronta temi di fonetica e di grammatica. Un'altra singolare anticipazione la si può trovare là dove, a proposito della grammatica dei sostantivi, il C. distingue, all'interno di questi, tra elementi significanti ed elementi non significanti: viene subito alla mente la moderna teoria della doppia articolazione di Martinet (monemi e fonemi).
Ma questi "avvicinamenti",pure stimolanti dell'ingegnosità del C., devono essere tutti ricondotti alle tesi centrali dell'opera del letterato modenese: una critica razionalistica della cultura, che ne tenta una ridefinizione scientifica: dunque empiria rigorosa nella indagine, perfino gretta, miope; processi puntualmente deduttivi nell'astrarre norme e leggi dalla materia indagata; fiducia assoluta in una ontologia del vero, che non è pertinente, se non indirettamente, alla poesia; convinta affermazione della convenzionalità del codice poetico che, se, nei modi e nella materia, è formulato dal poeta, deve trovare la risposta determinante nel pubblico. All'interno di questa convenzionalità si può fondare la scienza poetica: che è coerenza del prodotto artistico, compiutezza dei suoi livelli del contenuto e della espressione, riduzione della retorica a tecnica poetica. In questa prospettiva si moltiplicano per il C., all'interno del discorso letterario, i segni metalinguistici: le metafore non permettono nessuna apertura poetica (in senso jakobsoniano), ma sono devolute alla funzione, tutta interna, di spia del livello linguistico. Scrive il C. nel Parere sopra l'aiuto che domandano i poeti alle Muse:l'aiuto è necessario solo se al poeta occorre sottolineare l'altezza, l'eccezionalità della materia. Ma se la materia è già di per sé "alta",allora l'invocazione è del tutto inutile. Il passo tende a ridurre la letteratura alle sue doti affabulative, ad affermare la specificità, la validità interna del suo linguaggio.
Infine il C. opera una riduzione dello status del letterato: scriverà nel 1543 al Calori (A. Calogerà, Raccolta di opuscoli scientifici e filologici, XXXVII, Venezia 1747, pp. 75-92), a proposito delle traduzioni, che in queste biasimava coloro che "lasciate le parole attendono al senso solo" e invece richiedeva ai traduttori l'accorta cura della resa filologica, senza ambizioni di "ricostruzioni" poetiche. Non interessa qui naturalmente il problema, al centro di un dibattito tradizionale, quanto la nuova misura del letterato che da queste come da altre pagine affiora: si direbbe un filologo umanista, se avesse maggior fede nei miti del classicismo. Ma qui siamo, evidentemente, in una fase di ripiegamento, per quanto riguarda la progettazione intellettuale, quel pensiero construens che aveva animato l'intera metà del XV secolo. Il C. impersona una modernità acutamente accorta del fallimento, o dell'inadeguatezza ai tempi, del ruolo trionfalistico, onnisciente rivestito dal letterato. Quando, accanto alle avversità dell'esistenza, si fa strada in lui un desiderio malcelato di potere - quel potere che gli è costantemente messo in discussione sul piano pubblico, politico o accademico -, il C. si sforza di rinvenirlo solo là dove il prestigio personale appare inattaccabile, nella sfera letteraria. La letteratura simula la modestia, evita le responsabilità conoscitive che non gli appartengono, ma si fabbrica strumenti efficaci, adatti allo smantellamento di istituzioni e di tradizioni. Molti, successivamente, da Tasso a Gravina, ai teorici del classicismo francese, a Vico, compresero le aperture implicite nel pensiero del C.: questi programmò solo l'uso pratico immediato che poteva ricavare da certi strumenti critici e il potere, ancora, che poteva derivargliene.
Opere: Riassumiamo le notizie sulle opere del C., citate nel corso della trattazione: Giunte alle prose del Bembo:al 1° libro, [Basilea] 1572, al II e al III, Napoli 1714; Le rime del Petrarca brevemente sposte, Basilea 1582, altra edizione Venezia 1756; Esaminatione sopra la retorica a Caio Herennio, Modena 1653; Sposizione a XXIX canti dell'Inferno dantesco, Modena 1886; Correttione d'alcune cose del dialogo delle lingue di Benedetto Varchi, Vienna 1572; Ragione d'alcune cose segnate nella canzone d'Annibal Caro "Venite all'ombra dei gran gigli d'oro", Venezia 1572; La Poetica d'Aristotele volgarizzata e sposta, Vienna 1570, altre edizioni Vienna 1576, Napoli 1616, Milano 1826, 1827, 1831; Opere varie critiche non più stampate, a cura di L. A. Muratori, con biografia del C., Berna 1727.
G. Patrizi
Fonti e Bibl.: Per la ricostr. delle vicende biografiche del C. si veda: S. Pallavicini, Istoria del concilio di Trento, II, Roma 1657, p. 225; L. A. Muratori, Opere varie critiche di L. C. con la vita dell'autore, Berna 1727; G. Fontanini, Della eloquenza ital.,Roma 1736, pp. 383-388; G. Tiraboschi, Biblioteca modenese, I, Modena 1781, pp. 434-485; III, ibid. 1783, pp. 433-441; VI, ibid. 1786, pp. 61-82 (L. Castelvetro, Vita di L. C.); C. Cantù, Gli eretici d'Italia, II, Torino 1866, pp. 154, 167-168; G. Ploncher, Della vita e delle opere di L. C., Conegliano 1879; T. Sandonnini, L. C. e la sua famiglia, Bologna 1882; B. Fontana, Docc. vat. contro l'eresia luterana in Italia, in Arch. della R. Soc. rom. di storia patria, XV (1892), pp. 434-435; D. A. Capasso, Note crit. su la polemica tra A. Caro e L. C., Napoli 1897; G. Cavazzuti, L. C., Modena 1903; L. Frati, Di alcune lettere ad E. Foscarari, in Arch. stor. ital., LXXIV(1916), pp. 140-147; L. v. Pastor, Storia dei papi, VI, Roma 1922, p. 494; VII, ibid. 1923, p. 490; F. C. Church, I riformatori ital., Firenze 1935, I, pp. 84-85, 362; II, pp. 102, 200; D. Cantimori, Eretici ital. del Cinquecento, Firenze 1939, pp. 553-556; P. O. Kristeller, Iter Italicum, I-II, ad Indicem.
Quali fonti e letteratura relative alle opere del C. ed alla sua connotazione ereticale si vedano, invece: A. Caro, Lettere familiari, a cura di A. Greco Firenze 1957-1961, ad Indicem;B. Varchi, L'Ercolano ovvero il dialogo delle lingue, in Opere, Trieste 1859; T. Tasso, Del poema eroico e dell'arte poetica, Bari 1964; F. Buonamici, Discorsi poetici nell'Accad. fiorentina in difesa d'Aristotele, Firenze 1567; G. B. Vico, La scienza nuova, in Opere, a cura di P. Rossi, Milano 1959, pp. 419 s.; G. B. Marino, Lettere, a cura di M. Guglielminetti, Torino 1966, ad Ind.;L. Crasso, Elogii d'huomini illustri, Venezia 1666, p. 65; L. Vedriani, Dottori modonesi, Modena 1665, pp. 167 e ss.; G. M. Crescimbeni, Commentariintorno alla historia della volgar poesia, Roma 1702, I, pp. 5, 14-16, 140; II, p. 231, 434; III, p. 250; G. Gravina, Scritti critici e teorici, a cura di A. Quondam, Bari 1973, ad Ind.; L. A. Muratori, Primo esame, in Esami di vari autori sopra il libro intitolato Biblioteca dell'eloquenza italiana, Roveredo 1739; G. Torelli, Paesaggi e profili, Firenze 1816, p. 2; G. Tiraboschi, Storia della lett. ital., Milano 1833, IV, p. 146; G. Carducci, Rime di F. Petrarca, Livorno 1876, pp. XXXIV-XXXV; G. Saintsbury, A history of criticism and literary taste, London 1802; R. Scrivano, Il razional. critico di L. C.,in Cult. e letter. nel '500, Roma 1966, pp. 169-182, G. Cavazzuti, L. C. e la comm. "Gli Ingannati",in Giorn. stor. della lett. ital., XI, (1902), pp. 343-65; A. Fusco, La poetica di L. C.,Napoli 1904; G. Bertoni, G. M. Barbieri e L. C., in Giorn. stor. d. lett. ital.,XLVI (1905), pp. 383-400; J. E. Spingarn, La critica ital. nel Rinascimento, Bari 1805, passim;H. B. Charlton, C.'stheory of Poetry, Manchester 1913; C. Trabalza, Critica letter., Milano 1815, II, pp. 178-179, 186-191; G. Toffanin, La fine dell'Umanesimo, Milano 1920, pp. 173 s.; V. Vivaldi, Storia delle controversie linguistiche in Italia...,Catanzaro 1925, I, passim;G. Bertoni, Intorno a tre letterati modenesi, in Giorn. stor. della lett. ital.,LXXXV (1925), pp. 373-79; R. Bray, La formation de la doctrine classique en France, Paris 1927, ad Indicem;G. Guerrieri Crocetti, G. B. Giraldi e il pensiero critico del sec. XVI, Milano 1932, pp. 203 s.; C. S. Baldwin, Renaiss. literary theory and practice…, New York 1939, passim;E. Garin, Medioevo e Rinasc.,Bari 1954, pp. 124-49; L. Baldacci, Ilpetrarchismo ital. del '500, Milano 1957, pp. 157-164; B. Croce, Poeti e scritt. del pieno e del tardo Rinasc.,Bari 1958, II, pp. 85, 93, 151; F. Ulivi, L'imitazione nella poetica del Rinascimento, Milano 1959, pp. 89-99; R. Montano, L'estetica del Rinascimento e del Barocco, Napoli 1962, pp. 141-145; A. Mango, La commedia in lingua del '500, Roma 1966, p. 110; R. Melzi, C.'s annotations to the Inferno, Paris 1966; W. Romani, L. C. e il problema del tradurre, in Lettere ital, XVIII(1966), pp. 152-79; R. Barilli, Poetica e Retorica, Milano 1969, pp. 79 s.; F. Donadi, Un commento inedito del C., in Lettere italiane, XXII(1970), pp. 554-81; G. Della Volpe, Le poetiche del '500, in Opere, V, Roma 1973, pp. 103 s.; R. Barilli-E. V. Moretti, La letteratura e la lingua, in Letteratura italiana. Storia e testi, Bari 1973, IV, 2, ad Indicem.
V. Marchetti-G. Patrizi