BREME, Ludovico Pietro Arborio Gattinara dei conti di Sartirana dei marchesi di
Nacque a Torino nel giugno 1780 (non 1781) da Ludovico Giuseppe e da Marianna Dal Pozzo dei principi della Cisterna. Il padre cercò di avviarlo alla carriera militare, ma poi non ne ostacolò la decisione d'abbracciare lo stato ecclesiastico. Dopo aver frequentato, nel 1799-1800, un corso di filosofia presso il seminario di Torino, il B. iniziò gli studi presso l'università, dove ebbe come influentissimo maestro l'enciclopedico abate T. Valperga di Caluso. Soppressa nel 1802, al ritorno dei Francesi, la facoltà teologica, continuò gli studi nella propria casa a mo' d'accademia. Ricevette l'ordinazione agli inizi del 1806, avendo differito il termine canonico per prolungare la permanenza a Torino, dove compì, come catechista, un "rude apprentissage" - come egli dice - presso un ospedale militare francese tra soldati insolenti e blasfemi ed ufficiali volterriani e libertini.
Nell'estate del 1806, nominato suo padre ministro dell'Interno del Regno d'Italia, il B. decise di trasferirsi a Milano. Qui, rifiutato un posto presso la direzione dell'Istruzione pubblica, proseguì quello studio della lingua e della letteratura armene che aveva iniziato a Tonno verso il 1804-1805 su incoraggiamento del Caluso.
Conosciuto don Giovanni Zohrab, monaco della Congregazione mechitarista armena dell'isola di San Lazzaro a Venezia e apprezzato cultore di studi biblici, nell'aprile del 1806 era stato sul punto di dare alle stampe un "Aperçu sur l'utilité de la Littérature Arménienne, come chi direbbe di bibliografia armena, o storia, o critica, o filologia" (lett. a Zohrab, 27 apr. 1806), poi non più pubblicato perché nel frattempo gli armeni Cerbied e Martin avevano stampato a Parigi un libro proprio sull'argomento. Curò invece la traduzione d'un componimento scritto in armeno dallo Zohrab (omaggiodei dottori armeni del Collegio di San Lazzaro a Venezia alle LL. AA. II. RR. il Principe Eugenio,Vice-re,e Augusta Amalia,Vice-regina, Venezia 1807) e dedicò. ogni sollecitudine per fare ottenere alla Congregazione armena (che visitò anche a Venezia) un assegno annuo e la protezione dei viceré.
Intanto, forse più per le brighe del padre che per ambizione, aveva intrapreso il cursum honorum alla corte del Beauharnais. Nel 1807, dopo essere stato eletto membro del Consiglio di Stato, era stato nominato da Napoleone elemosiniere della corte e vicario generale della Grande Elemosineria alle dipendenze di A. Codronchi, arcivescovo di Ravenna. Più accetto gli giunse, nel gennaio 1809, l'inatteso incarico dal viceré Eugenio di governatore della Casa dei paggi, cioè dei figli dei dignitari e ufficiali di corte.
Lo seduceva soprattutto l'opportunità di realizzarvi un moderno sistema educativo. Poiché i paggi non erano destinati all'attività speculativa degli scienziati e dei letterati, ritenne ragionevole sacrificare lo studio del latino e del greco alla "utile connoissance de langues vivantes européennes", e sostituire alla logica delle sole scienze esatte "un peu aussi de cette autre logique générale, la seule appliquable aux chances de la vie"; ma provocò scandalo e si attirò "le surnom d'idéologiste". D'altra parte però l'ideale didattico formulato dal B. nel Grand Commentaire, dove rievoca questa esperienza pedagogica, è probabilmente frutto di elaborazioni successive o quanto meno contestuali a quell'esperienza stessa, che appare quindi forse più occasione di formazione che occasione di verifica di quell'ideale. Questo consistette essenzialmente nel rifiutare metodi autoritari e coercitivi, nel respingere una pedagogia artificiosa e fondata su modelli fittizi (causa di meschinità, di disposizione all'intrigo, di tendenze aggressive, carrierismo, indifferenza verso il bene comune), nel collocare il "buon senso" "rappelé à toute son integrité" come supremo fondamento di "tout système d'éducation". (Accanto all'indubbia ascendenza roussoiana per quanto riguarda la salvaguardia della personalità dalle deformazioni della società si nota quindi l'influsso integrativo e correttivo delle teorie pedagogiche del teologo barnabita padre Gerdil).
Nel giugno 1809 alle altre occupazioni si aggiunse "il servizio presso le LL.AA. e l'obbligo d'un più frequente intervento a Corte durante il quadrimestre delle sue funzioni" (lett. al Caluso, 29 giugno 1809). Ebbe così modo di vedere spesso la viceregina Augusta Amalia, per la quale diceva talvolta messa, "e se mai se ne fosse spiritualmente innamorato non gli darei tutto il torto" osservava il Foscolo (Epistolario, Firenze 1956, V, pp. 290-291), con un po' di malizia, ma sottintendendo anche una verità.
Il B. non fu insensibile al fascino femminile. Nell'autunno del 1911 divenne amico della contessa Anna Porro, che incontrò nella casa di campagna del conte Porro Lambertenghi, e s'abbandonò tutto "alla tranquillissima e incolpevole dolcezza di quell'amicizia". Quando nel giugno 1813 la contessa morì in un modo che riverberò un po' di luce sinistra su di lui, fu scosso da e spaventose inquietudini" e parve - come scrisse il Caluso alla contessa d'Albany - "volgere alla religione tutti i più caldi affetti". Anche se si accese di altre fiamme (per es. l'attrice Carlotta Marchionni, la cui bravura come quella della sua compagnia il B., che adorava "l'arte della scena" e frequentava molto i teatri milanesi, aveva esaminato in due articoli pubblicati sul Corriere delle Dame - cfr. Camporesi, Lettere, pp. 313-17 -, e che aveva guidato come regista nella interpretazione della sua opera teatrale Ida, (perduta come l'Ernestina), nessuna esperienza sentimentale lasciò tracce più profonde nell'animo del B. di quella che ebbe a protagonista la contessa Porro, poi fatta rivivere nella inquietante figura della Teresa de Il romitorio di Sant'Ida (singolarissimo frammento di romanzo edito dal Camporesi unitamente agli scritti biografici).
"Aucun homme - scrisse il Sismondi - n'avait un coeur plus amant, aucun homme n'avait plus besoin de toutes les affections de famille". In effetti lo stesso B. aveva confidato proprio al Sismondi nel novembre 1818 la sua sfortuna "de ne pas être marié", cioè di non "êtredeux légitiment, pour l'être tranquillement, et honorablement". Sipuò quindi concordare con il Sismondi che "l'état de prétre - o quanto meno il celibato dei preti cattolici - ne lui convenait pas". Pare difficile invece, sulla base di quanto il B. ha lasciato scritto, ritenerlo con il duca di Broglie "ouvertement libre penseur". Forse il duca aveva trovato talvolta il B. "un peu en belle humeur", ma la realtà è che, spietatamente sincero con, sé e con gli altri, il B. aveva una concezione severa e austera della religione: improntata come era di spiritualismo platonico-agostiniano-malebranchiano e influenzata anche di "spirito ginevrino", fu giustamente ritenuta dal Sismondi "philosophique" ed "éclairée".
Il B. distingueva lo spirito genuino del messaggio evangelico dalle "superfetazioni" dell'"odierno sistema cattolico in paragone del primigenio" (lett. al Caluso, 28 giugno 1814). Riteneva armonizzabile l'ortodossia cattolica con la civiltà moderna, e l'etica cristiana con "les lumières naturelles" (cfr. Appendice B del Grand Commentaire, e la lett. al Caluso sulla religione, in Camporesi, pp. 262-269), ma sdegnava la religione "tutta terrena. tutta umana. artifiziale, pomposa, lussureggiante, mitologica". La fede religiosa nel B., che pure conobbe crisi tormentose ("fluttuazioni" le disse nella lettera al Caluso sulla religione; sono note quella confidata al Caluso dopo la morte della Porro, e quella manifestata al Manzoni di passaggio per Torino al suo ritorno da Parigi da un B. in fin di vita, "squallido in vista e co' capelli ritti e pauroso a vedere" secondo la rievocazione - piuttosto maligna - del Tommaseo nei Colloquicol Manzoni [Milano 1954, p. 59]), è nello stesso tempo reclamata e testimoniata dal suo senso intimo. "Mon sens intime réclame une doctrine positive, un enseignenient sûr" - scrive nell'AppendiceB del GrandCommentaire. "Sentoe pregio e perfin adoro in me il testimonium animae naturaliter christianae"- scrive nella citata lettera al Caluso.
Nel giugno del 1810 il B. accettò per compassione di amministrare un ospizio destinato ai monaci regolari soppressi, avanti negli anni e privi di mezzi. Ma "e Paggi e amministrazione di Elemosineria, e Ospizio ecclesiastico, ed altre infinite molestie" (lett. al Caluso, 29 giugno 1510), oltre a compromettere maggiormente la sua fragile salute, gli facevano rimpiangere, nonostante gli attestati di stima (agli inizi del 1811 fu nominato cavaliere dell'Ordine della Corona di ferro), il "tanto tempo di meno in conto" da dedicare allo studio. S'interessava infatti vivamente alla vita culturale e, nei limiti del possibile, svolgeva una intensa attività letteraria. In quello stesso 1910 fu pubblicata a Milano una sua Epistola in versi sciolti all'illustre T. Valperga di Caluso, che gli meritò l'incoraggiamento del Monti. Nel 1811 apparve una edizione torinese ("la terza di tutte. e la seconda colla versione francese") dell'ode Recandosi l'Altezza Reale Augusta Amalia di Baviera vice regina d'Italia, Principessa di Venezia, aifanghi ed all'acque termali di Abano, insieme con un precedente sonetto, accompagnato questo da una traduzione latina, composto dal B. in occasione della partecipazione della viceregina ad un ricevimento offerto in suo onore dal marchese Breme nella sua villa campestre di Balsamo. A Milano nell'estate del 1812 fu stampata l'ode Pelprossimo arrivo in Milano dell'illustre T. Valperga di Caluso professore di lingue orientali..., della quale il Foscolo criticò la mancanza di naturalezza.
Effettivamente gli esperimenti poetici del B. (ricordiamo anche il sonetto In vista de' colli di Bardassano composto il 7 luglio 1814 e pubblicato la prima volta dal Calcaterra, mentre altri versi si leggono qua e là nell'epistolario) sono classicheggianti, scarsamente originali e stilisticamente forzati. Tuttavia il Romanò osserva giustamente che possono facilitare l'"esegesi del suo sistema critico" del quale "sono l'anticipazione metaforica".
Tra l'aprile e il maggio del 1813 circolò la voce che il B. fosse stato nominato vescovo di Pavia, prima, e di Cremona, poi. Questa seconda versione, "sparsa e stabilita neIruniversale credenza a Torino" (lett. al Caluso, 4 maggio 1813), fu ritenuta "assolutamente falsa" sia dal B. sia dalle autorità milanesi. Dovette avere comunque un sicuro fondamento, se il Sismondi scrisse che gli fu offerta per tre volte la mitra e se nel Grand Commentaire ilB. scrisse di avere rifiutato l'episcopato quando il Santo Padre era prigioniero a Savona, e che egli (che del resto nel 1810 aveva confessato al Caluso di considerare "spinosissima" e "troppo antigeniale" la dignità episcopale) non aveva né il coraggio della rinuncia, che gli pareva inseparabile dall'esercizio delle responsabilità ecclesiastiche, né provava "cette sympathie toute humaine" suscitata dal prestigio mondano delle "hautes dignités" della Chiesa.
Nell'aprile 1814 il B. si trovò coinvolto nello "spaventoso rivolgimento" di quei giorni culminato nell'eccidio del ministro Prina. Responsabile della sorte dei 3 allievi della Casa dei paggi, fatta segno "alle cieche e briache voglie di un popolaccio", riuscì a scongiurare il saccheggio tre volte minacciato. Nel maggio seguente, deciso a riacquistare la cittadinanza piemontese, presentò le dimissioni sia da governatore dei paggi sia dagli altri incarichi, ma la Reggenza di Milano lo pregò di attendere finché non fosse decisa la sorte di quell'istituzione. In settembre, dopo aver reso i conti agli "ottusi e sospettosi e meccanici amministratori teutonici", tornò in seno alla famiglia dalla quale era vissuto separato per sette anni "di quasi l'intera lunghezza della Città". Intanto, desideroso di "stabilità" e "indipendenza", mentre si era affrettato a far visita al re sardo e a invocare anche attraverso il Caluso una e carica abatesca" nella sabauda Torino, coltivava la speranza che gli stessi Austriaci, trasformando la Casa dei paggi in collegio militare, gli permettessero di continuare a soddisfare quella passione - come nota l'Oreglia D'Isola - "per le attuazioni pedagogiche", che si sarebbe manifestata anche più tardi con il tentativo di dar vita in Tonno a una scuola lancasterima (cfr. lett. al Pellico, 17 marzo 1820). Cadute entrambe le illusioni, decise ad un tempo di rimanere a Milano (che era pur sempre un "foyer de pensée" rispetto alla tetra Tonno separata "dal commercio scientifico europeo" e dove l'attraeva quasi soltanto la devozione al Caluso) e di consacrarsi interamente all'"esclavage de piume et de parole".
La crisi politica dell'aprile fu così l'occasione non soltanto per il chiarimento, ma anche per l'avvio ad attuazione della sua autentica vocazione culturale ed etica, destinata a concretarsi nel primo quinquennio della Restaurazione (ultimo della sua vita) in scritti, polemiche e iniziative che non solo documentano l'apporto dato dal B. alle battaglie ideali del tempo, ma rispecchiano i fermenti, i valori e i limiti stessi di tutto il primo Romanticismo italiano. Questi scritti, che hanno a monte una frenesia insaziabile di informazione e di comunicazioni (testimoniata da scambi epistolari, da incontri nel suo sempre affollato palco della Scala e nei saloni del paterno "vieux palais sombre et magnifique" in Borgonuovo, da polemiche, da viaggi "culturali"), analizzano spietatamente la realtà culturale, morale e politica contemporanea, ne denunciano veementemente tutte le aberrazioni e, in base all'idea della perfettibilità umana e sociale attinta al patrimonio del siècle des lumières, invocano appassionatamente un rinnovamento radicale delle idee e delle coscienze.
L'abate poitrinaire (che aveva trasformato il cartesiano "Cogito ergo sum" nel suo "soffro adunque esisto", e le cui "epigrammatiche scontentezze" il Cantù attribuiva alla malattia che lo consumava), il pamphlétaireenragé (che sapeva essere anche salonnier dotato di volta in volta di irresistibile verve odi ironia graffiante, quando non correva - assalito dalle sue inquietudini "exquises et profondes" - a rifugiarsi nella solitudine del lago di Como o ad abbandonarsi alla "jouissance aérienne" della musica, frutto supremo dell'originale creatività dello spirito), era semplicemente un uomo che "pensa e sente per proprio conto e da per sé" e che traeva dalla propria coscienza l'impulso incoercibile a smascherare ogni tirannide e volgarità - contro le quali portava "in cuore un parlamento intero di opposizione" - e a non lasciare ai posteri "più nulla da dire contro l'attuale Postribolo italiano".
Il 1º apr. 1515 morì il Caluso. L'amicizia per quell'uomo, che l'Affieri chiamava "maestro" e che il Gioberti definirà "l'uomo più dotto d'Italia" era stata per il B. un provvidenziale compenso alle privazioni "d'agi, d'indipendenza, di fortuna, di salute", ma soprattutto - nonostante le differenze (nel Caluso per es. prevaleva quel gusto classico e quella passione per la filologia e l'erudizione umanistica che il B. bollava con parole pesanti) - una fonte autonoma di insegnamento di equilibrio e di saggezza (cfr. l'opuscolo del B., Degli studi e della virtù di T. Valperga di Caluso..., Milano 1815, e gli scritti del Calcaterra su questi rapporti). Quando verso la fine dell'anno il B., che si era sentito "si isolé, si abandonné", incontrò a Milano la Staël (che rivide una seconda volta alla vigilia del suo primo viaggio a Coppet, nel luglio 1816, e alla quale si legò d'entusiastica ammirazione), non solo ritrovò quel "fort attachement immédiat et personnel" che gli necessitava per interessarsi "aux autres objets" poter comunicare con essi, e che gli era appunto mancato con la morte del Caluso, ma ritrovò in quella "immortale", e nel "dottissimo" A. W. Schlegel, quel tramite con la moderna cultura europea di prevalente ispirazione idealistica che il Caluso aveva incarnato nei confronti del patrimonio ideologico-culturale settecentesco e piemontese di prevalente ispirazione illuministica. Tentando la saldatura (che sul piano speculativo non poté non essere un difficile compromesso) del fondo comune a questi due patrimoni culturali e ideali, il B. si pose come intermediario vivo e attivo tra razionafismo e idealismo da una parte, e tra "fondo nazionale" e cultura europea dall'altra. E poiché non poche posizioni della Staël coincidevano con non poche sollecitazioni del Caluso e della tradizione subalpina (rifiuto del materialismo, del sensismo, dell'edonismo; la stessa apertura verso il kantismo e la stessa esaltazione di Bacone, in cui la conoscenza viene fondata "sull'armonia della testimonianza sensoria con i dati primari della coscienza"), dall'insegnamento dell'autrice di De l'Allemagne ilB. non derivò tanto idee nuove, quanto conferma e corroborazione di idee primamente assimilate dal terreno storico-ideologico piemontese settecentesco che aveva, con quello rappresentato dalla Staël, un chiaro punto di convergenza ideologica (sottolineato da più studiosi) nel riconoscimento della coscienza come sede dell'attività spontanea e autonoma dello spirito. Ora, come nella valorizzazione della libera creatività della coscienza individuale si evidenzia il nucleo essenziale - non originale, ma caratterizzante e illuminante - del pensiero del B. in tutte le sue articolazioni e in tutte le sue manifestazioni, così nell'opera di restaurazione dei valori morali, religiosi, estetici e anche politici, di quella coscienza, si incarna e si consuma la sua importante missione etico-culturale, ad un tempo originale e di significato moderno.
In questo contesto vanno letti gli scritti più significativi del B., a cominciare dal Discorso intorno all'ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani, ilprimo di quei "manifesti" (le Avventure letterarie d'un giorno del Borsieri uscirono nel settembre e La lettera semiseria del Berchet fu pubblicata nel dicembre) con cui ebbe inizio nel 1816 la battaglia romantica in Italia.
Lo scritto - uscito il 1º luglio - prendeva le mosse dalle discussioni e recriminazioni, improntate a un malinteso nazionalismo e degenerate in scandalistici attacchi personali, suscitate dall'articolo della Staël sulla utilità delle traduzioni. Una satira proveniente da Pisa sulla "vecchia pitonessa" e il suo "spirito Lemure", cioè quello Schiegel che lo stesso B. riconosceva non essere buono "qu'à être lu", era stata infatti pubblicata sul fiorentino Le Novelle letterarie e poi sullo Spettatore italiano di Milano con postille "piccanti", mentre altri attacchi erano apparsi sul Corriere delle Dame.
Attaccando con veemenza la triplice alleanza - come la chiamò nel Grand Commentaire -del patriottismo ipocrita, del glaciale pedantismo e del malcostume letterario, destò un "sussurro sguaiato e ridicolissimo in quel turpe vespaio" (cfr. lett. al Confalonieri, 28 ag. 1816) dei "tristi e ipocriti zelatori della così detta gloria letteraria d'Italia" e dei "fetidi pedanti". Nonostante l'ambizione di sviluppare il tema della natura della poesia, l'opera - come ha posto in luce il Romanò - rimase in una sfera di problematica morale, sfiorando appena con allusioni quel tema e limitandosi a proporre la revisione ab imis dei presupposti, della finalità e della natura della poesia. Essendo questa dal B. ricondotta alla radice intima della natura umana e identificata in originale e sincera creatività, il problema estetico-letterario veniva quindi essenzialmente esaminato sotto. il profilo della riforma da realizzare nell'intima struttura dell'uomo stesso. Anch'egli, del resto, come avrebbe scritto l'anno dopo nel Grand Commentaire, lasciava che i suoi lettori traessero le conseguenze dal Discorso nel quale - forse perché accordava il vecchio e il nuovo - aveva additato come esempio di "perfetta lirica romantica" l'ode Le rovine del castello di Saluzzo della poetessa Diodata Saluzzo, che peraltro, se pure per "ragioni" e per "inquietudini" dal B. riconosciute "plausibili" e "fondatissime", aveva rifiutato la dedica del Discorso. Le "conseguenze" che i lettori avrebbero dovuto trarre principî letterari esposti nel libro riguardavano (Calcaterra) soprattutto il problema del linguaggio sviluppato nell'Appendice E del Grand Commentaire che costituirebbe il complemento naturale del Discorso (ilRomanò ritiene che quello linguistico sia il solo argomento letterario sviluppato nel Discorso insenso attivo) e aiuterebbe a comprendere i quattro articoli di commento alla Propostadi alcune correzioni ed aggiunte al "Vocabolario della Crusca" del Monti, pubblicati tra maggio e settembre del 1819 sul Conciliatore. Quello scritto del B. e questi articoli (accanto ai quali è opportuno leggere le due lettere a A. Eyraud, 13 sett. 1909 e 19 luglio 1910, sull'apprendimento del linguaggio) non illustrano tuttavia una concezione romantica della lingua ("creazione immediata dello spirito che sente, immagina e pensa"), ma mostrano piuttosto la propria origine illuministica e enciclopedistica, e particolarmente l'influsso del Saggio sulla origine della lingua;del Cesarotti, con il richiamo all'"idioma universalissimo d'Europa" e alla "grammatica intellettuale universale" (cfr. la fine analisi fattane dal Romanò con particolare riferimento alla teoria della "parole" interne, come civiltà interiore, cui deve corrispondere la parola esterna, cioè la lingua come forma storica).
Il vero interesse del B. per il comportamento morale e la politica culturale, anziché per le lettere e la critica letteraria in senso stretto, venne l'anno dopo ancor più evidenziato con la pubblicazione del Grand Commentaire sur un petit article par un vivant remarquable sans le savoir, anch'esso motivato - anche se convogliò considerazioni e spunti precedenti o estranei - da un fatto di costume, cioè dalla pubblicazione di biografie tendenziose, relative a lui e a suo padre, sulla Biographie des hommes vivants, appendice della monumentale Biographie universelle ancienne et moderne, in corso di pubblicazione a Parigi ad opera dei fratelli Michaud e avente collaboratori prestigiosi come Ginguéné e Sismondi, che poi sorvegliò la stampa del Grand Commentaire a Ginevra, dove uscì in settembre.
L'autore delle due voci Breme venne identificato nel fanatico abate, realista e antinapoleonico, Aimé Guillon, già noto per l'astio contro i letterati italiani e per una polemica con il Foscolo, e che era stato insegnante di francese nella Casa dei paggi. Nel libro però il B. seppe "sortir de son sujet personnel sans sortir de sa conscience" e, riesaminando la sua vita e le sue idee, analizzò le condizioni politiche, morali, religiose e culturali di quell'epoca che aveva registrato alla grave crisi di regime produttrice d'ipocrisia e di sospetto. Oltre ad essere - come l'epistolario - fonte primaria d'informazione biografica, il Grand Commentaire, con le Appendici sui problemi etico-politico, religioso, della libertà e della tirannide e sulla questione linguistica, si presenta quindi come un importante documento storico in cui, al di là e attraverso problemi e principi, sono denunciati comportamenti e responsabilità di personalità, di istituzioni e di gruppi sociali. Nel Grand Commentaire (che secondo il Pellico fece a Milano "un rumore terribile", e fu attaccato dai "gazzettieri" austriacanti come Bertolotti, F. Pezzi e G. B. Sardagna, mentre il governo si mostrò tollerante), sono rispecchiati e riassunti con maggiore organicità - nonostante i difetti d'impianto del libro - i temi della polemica bremiana, le componenti del suo pensiero, le sue concezioni, le sue speranze, le sue illusioni.
Vi viene inoltre ribadita l'opposizione al sensismo e al razionalismo, incapaci di comprendere il senso intimo della divinità, il nobile slancio dell'eroismo e l'accensione poetica del cuore, cioè il genio delle arti, e per conseguenza produttori d'ateismo, d'egoismo e di pedantismo. Viene ribadita l'armonia dell'esperienza religiosa, etica ed estetica, quindi l'unitarietà della lotta alle tirannie letterarie e alle tirannie religiose e politiche. In nome dell'assoluta libertà e autonomia dell'io, in cui è stata ravvisata un'eco dell'individualismo insofferente dell'Alfieri e del Baretti, e cioè del filone anarcoide della tradizione piemontese, come viene stigmatizzata la nefasta "filosofia dell'analisi", così viene denunciata, per fare dei casi concreti, la mancanza di autenticità spirituale e dignità morale della vecchia e nuova aristocrazia e di un potente ministro come il Prina (troppo ligio a quel Napoleone contro i cui abusi il B. aveva mascherato per sette anni "une âme révoltée"). Al Prina, pochi giorni prima della tragica fine, aveva ricordato che, se non si regna "pour le bonheur de la société", "il ne faut pas régner", provocando l'interruzione minacciosa: "L'Abbé, vous n'irez pas loin" (GrandCommentaire, pp. 136-143).
Nel gennaio 1818 il B. pubblicò due articoli sulla traduzione del Giaurro del Byron fatta da Pellegrino Rossi, poi raccolti nell'opuscolo Il Giaurro,frammento di novella turca,scritto da Lord Byron e recato dall'inglese in versi italiani da P. Rossi. Osservazioni, Ginevra 1818. Il "patetico" era assunto (Romanò) come "termine comprensivo della sensibilità poetica contemporanea" nelle sue "ragioni storiche anzitutto, e poi culturali, fisiche, filosofiche"; si insisteva "intorno al valore della presenza umana nella poesia", cioè sulla poesia "psicologica"; la teoria delle parole interne acquistava "più risentita necessità", divenendo la parola "la cifra di tutto un universo, e il nesso che rende esplicito l'incontro tra l'uomo e il mondo della natura e delle forme".
Queste Osservazioni colpirono l'attenzione del Leopardi che, ritenendole "pericolose", anche se "acute e ingegnose e profonde", s'affrettò a scrivere il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, e a mandarne la prima parte all'editore A. F. Stella perché la pubblicasse sullo Spettatore. Se questo fosse avvenuto - il Discorso leopardiano vide invece la luce soltanto nel 1906 - ne sarebbe verosimilmente seguita una interessante polemica B.-Leopardi (le posizioni rispettive, negli aspetti estetici, morali e gnoseologici, sono state puntualizzate dal Calcaterra in IManifesti, pp. 28-39). Dalla pubblicazione delle Osservazioni del B. scaturì invece una polemica più modesta. Egli aveva attaccato alcune idee dei Cenni critici sulla poesia romantica di C. G. Londonio, che sin dal 1816 era entrato nella battaglia tra romantici e classici schierandosi con questi ultimi, ma dimostrando moderazione e spirito conciliativo. Il Londonio replicò alle critiche del B. con la Appendice ai Cenni critici sulla poesia romantica, e il B. rispose con le Postille di L. di Breme sull'Appendice ai "Cenni critici sulla poesia romantica" del signor C. G. Londonio, Milano 1818.
Nell'autunno 1818 il B. fu coinvolto in una più memorabile polemica. Nel saggio Essay on the Present Italian Literature, pubblicato a Londra quell'anno da J. C. Hobhouse, era stata definita "idle enquiry" la polemica tra classici e romantici. Il B., offeso e irritato, mandò allo scrittore inglese una lunghissima lettera (16 pagine), purtroppo perduta, nella quale smascherava come vero autore del saggio il Foscolo, cui rinfacciava tra l'altro di aver fatto "des arrangements" con i generali austriaci Bellegarde e Ficquelmont per fare un giornale. Il B. aveva già scritto, protestando e accusando lo Hobhouse, pure al Byron, che, come già lo Hobhouse con il Foscolo, passò la lettera all'interessato. Le lettere del B. (, a giudicare dalla e "filippica" redatta in risposta dallo Hobhouse con la collaborazione del Foscolo) non dovevano essere state molto meditate, ma raggiunsero lo scopo. Byron, divertito, soffiava sul fuoco. Le brevi biografie, inclusa quella elogiativa del Foscolo, erano effettivamente opera dell'italiano, ma la frase incriminata era stata scritta dall'Hobhouse (Vincent, p. 28).
Il B. già nel 1816 aveva ideato con il Pellico e con il Borsieri un giornale "drammatico" e "morale" dal titolo IlBersagliere, al quale avevano promesso di collaborare la Staël e lo Schiegel, il Sismondi e P. L. Ginguené, nonché il Foscolo; e nel 1817 aveva partecipato in casa Porro Lambertenghi alla ideazione di una specie di Spettatore d'avanguardia. Agli inizi del 1818, impaziente d'attendere, progettò un ambizioso Messaggiero delle Alpi, con P. Rossi direttore per la redazione straniera e se stesso per quella italiana. Fallito però anche questo disegno per la rinuncia dei collaboratori italiani, nell'estate del 1818 s'impegnò alacremente nella fondazione del Conciliatore,foglio scientifico-letterario, che sarebbe stato pubblicato bisettimanalmente a partire dal 3 settembre 1818 fino al 17 ottobre 1819.
"Je me suis mis à la tête de cette organisation et en suis venu à bout" scriveva l'8 settembre alla Albany, dopo aver instancabilmente propagandato presso amici italiani e stranieri il programma steso dal Borsieri. Ma a parte le dichiarazioni del B. ai suoi corrispondenti, dalle quali risulta aver dato il nome al periodico, ed esserne stato in certo senso il "fondatore", non pochi contemporanei ne attestano il ruolo di principale ispiratore e sostenitore. "Chief support" del Conciliatore lo dichiarò sir Ch. Morgan in una nota all'Italy di sua moglie; "direttore" lo chiamò l'antiromantico corcirese Mario Pieri nelle sue memorie; inquieto animatore dell'impresa appariva in un rapporto di polizia; a lui, quasi fosse editore del periodico, si rivolse la Saluzzo per deplorare una "infedele citazione" di alcune sue righe e il console sardo a Milano L. Bonamico per protestare (mentre una protesta ufficiale veniva presentata a Vienna) a nome del suo governo - sobillato dal Galeani Napione di cui il Conciliatore aveva demolito uno scritto antiliberale - per l'accenno al "minuetto del re di Sardegna" che era contenuto in un articolo di E. Visconti.
Con riferimento alle varie interpretazioni date ai termini "conciliatore" e conciliazione, l'Oreglia D'Isola (Due lettere inedite...) scrive che il B. fu "fondamentalmente conciliatore di tutti i gruppi se non nella almeno attraverso la sua persona". Il B. ricondusse esplicitamente a un significato politico quei termini ("Les esprits libéraux se rangent sous notre bannière, et les autres lèvent la masque et se déchirent en rage impuissante: voilà ce que j'entendais moi pour concilier et "Conciliateur"", scriveva al Sismondi verso l'ottobre). Se ne ricava che nel liberalismo e nel patriottismo fu visto il cemento della concordia tra le discordie dei gruppi partecipanti a quell'"impresa nazionale" (Rerum concordia discors), e che nel combattere l'assolutismo e nel "conservare viva la scintilla del patriottismo", per usare una frase del Pellico, va identificata la funzione fondamentale del periodico. Nonostante la prudenza dei redattori non tardò ad accorgersene il governo austriaco, che proprio su due articoli di trasparente contenuto politico (una recensione del Sismondi e la seconda parte del saggio del B. sull'opera di E. Lémontey, Essai sur l'établissement mmarchique de Louis XIV) fece cadere la scure della censura ponendo così fine alla pubblicazione.
Le vessazioni censorie erano state ininterrotte nei quattordici mesi precedenti. Il B. (cui il Calcaterra attribuisce - crediamo fondatamente - l'opuscolo anonimo La Censureautrichienne pour l'Italie. Factum sur le "conciliatore" de Milan, che denunciava, dopo la sospensione, "i sistemi essenzialmente ipocriti del governo austriaco", dava alcuni saggi dei tagli imposti ed esponeva le intenzioni degli scrittori del Conciliatore), sin dal 1818 pensava di riunire in una Patologia del Conciliatore le mutilazioni (lett. al Confalonieri, 13 nov. 1818) o di scrivere (lett. alla Albany, 25 ottobre) "un second volume du Grand Commentaire" nel quale pubblicare "le plus bel et complet assortiment d'anecdotes austrogothiques" che era andato raccogliendo da quattro anni sulla "prétendue sagesse des gouvernements légitimes".
A quest'ordine di problemi, cio a unaè "prospettiva" politico-nazionale, il B. si dedicò nell'ultimo periodo di vita. quando, dopo la morte tragica del fratello Filippo, avvenuta quasi negli stessi giorni in cui era stato soppresso il Conciliatore aveva preso la risoluzione di seguire la famiglia a Torino per potersi dedicare all'assistenza e all'educazione dei figli dello scomparso. Il trasferimento, avvenne a cavallo del febbraio-marzo 1820. Quantunque con la salute ormai irrimediabilmente compromessa e amareggiato per ritrovarsi in un "gran ghetto di ebrei tutti falliti" e per la vergogna di essere voluto "ridivenire Piemontese", il B. s'impegnò nel tentativo di dar vita a una scuola lancasteriana e si mise a frequentare diplomatici stranieri, particolarmente il duca Dalberg, ambasciatore di Francia e noto liberale, mentre spiava in patria e all'estero i segni dell'affermazione del buon senso che "vuol farsi strada qua con celie e scherni, là con stili e coltelli, altrove con tutta la pompa del nazionale risentimento". Per ora in Piemonte registrava, soltanto "celie", "la noia universale" e "la nausea e lo sdegno delle persone onorate" verso i reazionari, mentre l'insurrezione trionfava in Spagna. Il B. non vide lo scoppio dei moti in Piemonte. La sua salute in maggio precipitò e, dopo tre mesi di "penosissima" malattia, morì, a Torino, il 15 ag. 1820.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Torino, Sez. I, Consolati nazionali,Milano, mazzo 8(B. a L. Bonamico); Torino, Biblioteca Reale, n. 17669, Poesie Patrie, 382ms., e lett. del B. a G. Grassi; Ibid., Biblioteca Civica, Fondo Cossilia, XCVI(B. a Galeani Napione); Ibid., Duomo, Registro parrocchiale,Nascite, 1780, E 93v;Ibid., Accademia delle scienze (B. a G. Grassi); Arch. di Stato di Milano, Acquisti e doni,Dono Salvotti, nn. 33-46(sono comprese lettere di Filiberto di Breme sulla malattia e morte del B.); Ibid., ProcessiPolitici,Processo di Milano (cartella 29, pezza C e 38) e Processo di Venezia, pezza 779;Ibid., Processo ai carbonari, cartelle 62, nn. 11, 32, 36e 53; e 63, n. 41;Arch. di Stato di Mantova, Carte Acerbi, b. 1; Bagnolo Piemonte, Arch. di Casa Malingri (B. al Caluso); Cologno Monzese, Arch. Casati (B. al Confalonieri); Montpellier, Bibliothèque de la Ville (B. alla Albany); Pescia, Biblioteca Comunale (B. al Sismondi); Venezia, Isola di San Lazzaro, Arch. dei monaci mechitaristi ( B. a G. Zohrab ). Per altre fonti cfr. Camporesi, cit. più oltre. Nessun autografo del B. fu trovato nell'archivio della famiglia Breme, esplorato nell'anteguerra dal Cian.
La bibl. a stampa sul B. è sterminata. Si tralasciano per brevità (ma con qualche eccezione) carteggi, memorie e altre opere dei letterati e intellettuali coevi al B. (Monti, Foscolo, Albany, Pellico, Confalonieri, Stendhal, ecc.), come anche le opere generali sul Primo Romanticismo e la critica romantica, gli scritti sulla Milano della Restaurazione e dell'epoca del Conciliatore, indicando invece le pubblicazioni concernenti il B. più direttamente ed esplicitamente: Biographie des hommes vivants..., Paris 1816, I, p. 475 (poi in Biogr. Univ., Paris 1854, V, p. 467); G. C. Sismondi, Notice nécr., in Revue Encyclopédique, VIII (1820), pp. 47, 7-80; Lady [S.] Morgan, L'Italie, Paris 1821, I, pp. 57, 122 e 196 (nota di Ch. Morgan); G. Montani, in Antologia, n. 42 (1824), pp. 17 s.; P. Maroncelli, Addizioni alle "Mie Prigioni" di S. Pellico, Parigi 1833, pp. XXXVII, 31-35; [A. Vannucci], L. di B. e sue quest. col Foscolo, in Mem. della vita e degli scritti di G. Montani, Capolago 1843, pp. 103 ss. (v. anche il cap. II: Breme,la Stäel e la Francia, pp. 29-48, e l'App. III: C. Botta e i romantici, pp. 116-20); J. C. Hobhouse, baron Broughton, Italy: Remarks made in several visits from the year 1816 to 1854, London 1859, p. 33; C. Cantù, IlConciliatore e i carbonari, Milano 1878, pp. 52-72 e passim;V. de Broglie, Souvenirs..., I-IV, Paris 1886, ad Indicem;C. Dejob, Madame de Staël et l'Italie, Paris 1899, pp. 124-130; G. Muoni, L. di B. e le prime polem. intorno a Madama di Satël ed al romant. in Italia, Milano 1902; E. Bellorini, L. di B., in Fanfulla della Domenica, 24 ag. 1902; E. Levi, Foscoloe Hobhouse,e Lord Byron e di B. e Monti e Pindemonte..., in Rass. bibliogr. della letter. ital., XVII (1909), 10-12, pp. 301-326; M. T. Porta, Madame de Staël e l'Italia, Firenze 1909, passim;E. Bellorini, IlConciliatore e la censura austriaca, in Scritti vari di erudiz. e di critica in on. di R. Renier, Torino 1912, passim;A. Segre, Il "minuetto del re di Sardegna" ed un incidente tra "Il Conciliatoro" ed il gov. sardo nel dicembre 1818, in Fanfulla della Domenica, 20 ag. 1916; L. di Breme, Polemiche, a cura di C. Calcaterra, Torino 1923 (con bibl.). A. Cajumi, Un patrizio polemista, in La Stampa, 8 genn. 1924; G. Ortolani, Figure del Risorgimento: L. di B., in IlMarzocco, 10 febbr. 1924; F. Picco, L. di B., in La Cultura,s. 5, III (1924), pp. 557-560; P. P. Trompeo, Nell'Italia romantica sulle orme di Stendhal, Roma 1924, passim;C. De Courten, Milano romantica e la Francia della Restaurazione, Milano 1925; P. Negri, Romanticismo piemontese, in La Cultura, s. 5, IV (1925), pp. 492-502; P. Gobetti, Risorg. senza eroi,Studi sul pensiero piemontese nel Risorg., Torino 1926, pp. 109-14; V. Cian, Gli alfieriani-foscoliani Piemontesi e il Romanticismo lombardo-piemontese del primo Risorgimento, Roma 1934, pp. 30-66, 75 e passim (utile particol. per i rapporti di B. con G. Grassi); D. 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