ZUCCOLO, Ludovico.
– Nacque a Faenza il 18 settembre 1568 da Alessandro, membro del patriziato cittadino.
Dopo la nascita di Ludovico, Alessandro fu incriminato durante l’azione repressiva con la quale il S. Uffizio di Romagna, per ordine di Pio V, stroncò i consistenti focolai eterodossi presenti a Faenza (a essere incriminati furono anche un Gregorio Zuccolo, poi cronachista faentino, e diversi Rondanini, che portavano lo stesso cognome della nonna di Ludovico). Morto il padre in carcere prima che la pena a cui venne condannato (cinque anni come forzato al remo) fosse resa effettiva, e cresciuto in ristrettezze economiche (forse fu aiutato da Giacomo, fratello del padre, sacerdote e rettore in S. Margherita), Zuccolo aderì all’Accademia faentina degli Smarriti e per la sua povertà ebbe un incarico come lettore di filosofia nello Studio di Bologna (1607-08), dove si era immatricolato al corso di arti per poi laurearsi in filosofia il 13 luglio 1608 (Pissavino, 1984, p. 33 nota 23).
Trasferitosi a Urbino presso Francesco Maria II Della Rovere in qualità di segretario del duca e precettore del figlio Federico Ubaldo, forse introdotto a corte dal nobile faentino Gallieno Vitelloni, vi rimase dal 20 luglio del 1608 al 1617, tanto che per quel lungo soggiorno fu denominato il Picentino. Risale a questi anni anche la stampa dei primi scritti, che indicano come Zuccolo avesse scelto il dialogo quale genere più adatto a esporre questioni letterarie, giocose, filosofiche e (più tardi) politiche. Nel 1608 apparve Il Gradenico. Dialogo nel quale si discorre contra l’amor platonico, et a longo si ragiona di quello del Petrarca (Bologna, G.B. Bellagamba, dedicato al conte Alfonso Laderchi); nel 1613 L’Alessandro, overo della pastorale, et insieme tre egloghe (Venezia, A. Baba, fatto stampare dal nipote Giambattista Zuccolo che operava in Laguna nel campo dell’editoria); nel 1615 una prima raccolta che incluse i testi precedenti (Dialoghi. Della detta, e della disdetta. Della vergogna. Dell’amore de’ platonici, del Petrarca et Della gelosia. Del buon dì. Della pastorale, Perugia, A. Aluigi e fratelli); sempre nel 1615 il De honesto gloriae studio sive de vera virtute heroica liber (Venezia, A. Dei: una delle poche opere in latino, dedicata al duca di Urbino) e infine nel 1617 i Discorsi. Della gloria. Del genio. Della pena della discortesia (Venezia, A. Dei). Nel frontespizio di quest’ultima fatica Zuccolo si appellava membro dell’Accademia dei Filoponi, istituita a Faenza nel 1612.
Dopo avere abbandonato la corte montefeltrina, che – da quanto scrisse – lo aveva fatto sentire in servitù, nel 1617 viaggiò tra la Dalmazia e Ancona (ebbe un buon compenso per insegnare filosofia a Ragusa) per poi stabilirsi di nuovo a Faenza (1618), trascorrendo comunque buona parte del tempo a Venezia, dove prese a frequentare i circoli sarpiani e degli Incogniti, forse introdottovi da Domenico Molino, che fece da protettore. Tuttavia, nonostante l’appoggio di questi e dell’illustre aristotelico Cesare Cremonini, non riuscì a ottenere una cattedra nello Studio di Padova, e non l’ottenne neppure a Bologna (vedi i documenti riportati in Pissavino, 1984, appendice III). In quegli anni progettò di scrivere dei Discorsi sopra le storie di Quinto Curzio Rufo e pubblicò gran parte delle proprie opere per i tipi di Marco Ginammi, stampatore legato a Paolo Sarpi e ben vigilato dalla censura perché non in linea con gli indirizzi della Controriforma (impresse scritti criptolibertini come quelli di Francesco Pona, l’unica edizione seicentesca dei Discorsi di Niccolò Machiavelli apparsa al di qua delle Alpi; la prima versione italiana integrale dei Saggi di Michel de Montaigne e le opere di frate Bartolomé de Las Casas, utili ad alimentare la leggenda nera antispagnola).
Prime ad apparire per tipi di Ginammi – che forse Zuccolo aveva conosciuto a Ragusa – furono le Considerazioni politiche e morali sopra cento oracoli d’illustri personaggi antichi (1621; seconda ed. con una lettera apologetica, 1623), una serie di divaganti commenti sopra celebri sentenze di autori classici dedicata al cardinale Luigi Capponi, nella quale comparivano riferimenti alla tradizione epicurea e atomistica (Lucrezio) e spiccava l’Oracolo XI sulla ragion di Stato, che l’autore definì come la scienza per conservare un particolare assetto politico, buono o cattivo, in polemica con le opere di Giovanni Botero e Scipione Ammirato. Seguirono i Discorsi dell’honore, della gloria, della riputatione, del buon concetto (1623), in cui Zuccolo si confrontò con la tradizione stoico-classica circa le virtù e il dibattito contemporaneo sull’onore; il trattatello sulla Nobiltà commune et heroica (1625), che lo mise in conflitto con Alessandro Tassoni difensore della nobiltà di sangue; e l’ultima più completa raccolta dei Dialoghi (1625): quindici testi, alcuni già pubblicati con altro titolo, in parte dedicati alle passioni, in parte alla politica, tra i quali spiccano i tre dialoghi ‘utopistici’ l’Aromatario o vero Della Republica di Utopia, Il Porto o vero Della Republica d’Evandria, il Belluzzi o vero Della città felice.
In quei testi Zuccolo si rivelava come un critico della società idealizzate in cui si immaginava la comunanza dei beni, si confrontava con quelli che riteneva i modelli istituzionali migliori del suo tempo (la Repubblica oligarchica di Venezia, ma anche la monarchia temperata francese), polemizzava con il lusso e celebrava il mito della libertà politica, che nel Belluzzi è incarnato da San Marino, moderna ma più equilibrata città Stato di tipo spartano. Menzionato con interesse da Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere, il dialogo fu scritto in una circostanza tutt’altro che astratta. Come scrisse lo stesso Zuccolo il 12 febbraio del 1624 in una lettera inviata da Madrid alla comunità sanmarinese, con la prossima devoluzione di Urbino San Marino rischiava di essere circondata dai domini pontifici, «con tanto pregiudicio della sua libertà» (cit. in Pissavino, 2007, pp. 234 s.).
Sempre per i tipi di Ginammi nel 1625 Zuccolo curò l’edizione del De coniectandis cuiusque moribus et latitantibus animi affectibus semeiōtikē moralis, seu De signis di Scipione Chiaramonti e nel 1629 avrebbe dato alle stampe Il secolo dell’Oro rinascente nell’amicitia tra Nicolò Barbarigo e Marco Trivisano, un’operetta in cui esaltò il sodalizio tra due patrizi veneziani, il più anziano e facoltoso Barbarigo, il più giovane e impulsivo Trevisano, che alcuni anni prima – dopo che il secondo aveva difeso pubblicamente l’onore del primo – si erano legati in un sodalizio esaltato in molte scritture che ebbero una risonanza europea e fu lodato da Sarpi, Fulgenzio Micanzio e Nicolò Contarini. L’‘eroica amicizia’ si inserì nel contesto critico che, dopo gli anni dell’interdetto, vide una netta frattura in seno alla classe dirigente della Serenissima tra i patrizi ‘poveri’ (appoggiati da Rinieri Zeno e da Trevisan) e i ‘ricchi’ (spalleggiati dal doge Giovanni Cornaro), dando occasione perché si riflettesse in una chiave tutta politica sulla virtù dell’amicizia (la ‘civile conversazione’, specie se tra uomini di condizione sociale diseguale) come pilastro per la conservazione di un buon ordine della comunità. Del resto, era stato questo il tema di uno dei Dialoghi del 1625, il Molino, in cui Zuccolo aveva inscenato una discussione tra il suo protettore e lo stesso giovane Trevisan.
Partito dall’Italia nel 1623, l’anno della morte di Sarpi, Ludovico si diresse alla volta di Madrid come segretario del nunzio apostolico Innocenzo Massimi, al quale nello stesso anno dedicò un Discorso delle ragioni del numero del verso italiano. Più tardi vescovo di Catania, Massimi avrebbe perorato la causa della liberazione di Tommaso Campanella dal carcere e si recava in Spagna per sorvegliare il progetto di sancire per via di matrimonio un’alleanza tra gli Asburgo e gli Stuart che poteva favorire il ritorno della Corona inglese al cattolicesimo. Due anni dopo Zuccolo tornò in Italia e si stabilì a Bologna, entrando in rapporto con l’aristotelico Camillo Baldi; ma si trovava a Roma quando il suo nome giunse alle orecchie del S. Uffizio con la chiamata di correo scaturita dalle «spontanee comparizioni» di un portoghese di nome João Monteiro davanti agli inquisitori (29 novembre e 18 dicembre 1625). L’uomo, infatti, disse di avere conosciuto il faentino, in possesso di scritti antigesuitici e intenzionato a scrivere una storia dei suoi tempi, e depose di avere discusso con lui dell’impostura delle religioni («un pretesto de prencipi per tenere in freno i popoli») e della mortalità dell’anima: teorie che Zuccolo avrebbe difeso, turbando il teste pentito, con ampie citazioni tratte da Aristotele, Epicuro e Galeno. Inoltre Monteiro raccontò ai giudici di fede di avergli sentito dire che Sarpi, come molti altri a Venezia, in Italia, in Francia e in Germania, era un convinto «ateista» (docc. pubblicati in Ginzburg, 1967, pp. 1126-1228).
Da quanto sappiamo non fu avviata alcuna indagine; e tuttavia la denuncia (non si sa se rispondente al vero) può servire a mettere allo scoperto quanto negli scritti di Zuccolo è intuibile sotto traccia: ovvero la sostanziale estraneità del faentino all’obbedienza cattolica e il continuo ricorso a tecniche di simulazione ‘libertine’ nell’esporre le proprie opinioni al pubblico, non senza evidenti eco machiavelliane. Per averne una prova basterà guardare alle Considerazioni e alle pagine (anti)utopistiche scritte contro Thomas More, reo di avere disegnato una repubblica «a somiglianza del monastico», priva di virtù militare, di capacità di difesa, e dunque di libertà (Aromatario, in Dialoghi, 1625, p. 258). Del resto, se nell’Evandria abbozzò una città Stato ideale (posta in una penisola dell’Asia, di fronte all’isola di Utopia) in cui la religione non rivestiva alcun ruolo, avendo in mente l’ordinamento repubblicano e oligarchico di Venezia ma anche di Ragusa, nell’Aromatario – di cui l’inquisitore di Venezia aveva bloccato la stampa nel 1616 perché non aveva gradito che More fosse attaccato nominalmente, pur non essendo stato «dichiarato per santo» (come rilevò acidamente l’autore in una lettera a Camillo Giordani del 24 settembre, edita in B. Nediani, Altre diciannove lettere..., 1960, p. 371) – Zuccolo iniziò l’esposizione da una serie di domande non seguite da risposte: «Che luogo nella Città tengano i sacerdoti? Chi gli crei? Chi comandi loro?» (Dialoghi, 1625, p. 243). A quella data chiedersi chi dovesse comandare sui chierici, pur configurando una città ideale, non era privo di rischi; sicché non stupisce che dopo la deposizione di Monteiro Zuccolo partisse da Roma alla volta di Napoli e della Sicilia, dandosi per malato senza lasciare traccia per due anni.
Ricompare nel 1627 a Bologna come segretario del cardinale Bernardino Spada da Brisighella, legato pontificio nella città, e qui (oppure a Faenza) Zuccolo sarebbe morto nel 1630, forse a causa dell’epidemia di peste (l’anno di morte si leggeva in una lapide faentina che oggi non esiste più: B. Nediani, Dieci lettere inedite..., cit., p. 178). Nulla sappiamo della moglie e di un figlio, a cui pure accenna in alcune epistole.
Lasciò alcuni scritti inediti. Pare perduto un resoconto dei successi veneziani e spagnoli nella guerra anticorsara in Dalmazia del 1617 (ibid., p. 181); è perduto anche un dramma pastorale dal titolo La Berta (a cui accenna nella sua corrispondenza). Inediti restarono poi alcuni componimenti poetici, mentre postumo apparve un Discorso dello amore verso la Patria (Venezia, E. Deuchino 1631, ristampato nel 1673 per i tipi di Pinelli), nel quale Zuccolo esaltava le virtù civili svalutando, in modo indiretto, quelle religiose. Manoscritta restò infine la discettazione del 1606 De quantitate solis contra vulgatas astrologorum et philosophorum opiniones (edita in Pissavino, 1984, pp. 117-138), che lo mostra attento al dibattito scientifico del tempo. Nel 1663, in funzione antipapale e in occasione della guerra di Castro, apparve in Germania una traduzione ampliata dell’Oracolo sulla ragion di Stato per opera di Johann Garmers (Dissertatio de ratione status. Accedunt Acta et controversiæ inter pontifices Urbanum VIII, Innocentium X et Odoardum Farnesium ducem Parmæ, Hamburg, Z. Hertel). Quasi dimenticato nel corso del Settecento, nonostante la vena utopica che aveva caratterizzato la sua produzione, Zuccolo sarebbe stato riscoperto nel XX secolo da Friedrich Meinecke e da Benedetto Croce, che lo ritennero un importante pensatore politico del barocco italiano, mentre altri ne hanno ridimensionato originalità e indipendenza intellettuale (Roberto De Mattei e Luigi Firpo). Più di recente la sua figura è stata connessa alla circolazione del libertinismo erudito nel primo Seicento (Carlo Ginzburg, Vittorio Frajese) e alla riflessione politica sull’amicizia (soprattutto Peter N. Miller, che ha ripreso l’importante studio di Gaetano Cozzi).
Opere. Edizioni moderne: Il Belluzzi, ovvero La città felice, a cura di A.A. Bernardy, Bologna 1929; l’Oracolo sulla ragion di Stato, in Politici e moralisti del Seicento, a cura di B. Croce - S. Caramella, Bari 1930, pp. 25-41; La Repubblica d’Evandria e altri dialoghi politici, a cura di R. De Mattei, Roma 1944; P. Pissavino, Un discorso inedito di Ludovico Zuccolo, in Studi politici in onore di Luigi Firpo, II, a cura di S. Rota Gribaudi - F. Barcia, Milano 1990, pp. 253-294; Scrittori politici dell’età barocca, a cura di R. Villari, Roma 1998, pp. 597-638 (contiene il Discorso dello Amore verso la Patria); I teorici della ragion di Stato. Mito e realtà, a cura di A. Sarubbi - P. Scudieri, Napoli 2000, pp. 146-159 (altra ed. dell’Oracolo sulla ragion di Stato); Discorso delle ragioni del numero del verso italiano, a cura di M. Mancini, Manziana 2005.
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