Zuccolo, Ludovico
Scrittore politico, nato a Faenza nel 1568 e ivi morto nel 1630. La complessa relazione che lo lega all’opera di M. si evidenzia osservando come anche l’attenzione da lui riservata a un genere, quello utopico, che dalla machiavelliana realtà effettuale resta ben lungi (in particolare nei dialoghi Il Porto, overo della Republica d’Evandria, L’Aromatario, overo della Republica d’Utopia e Il Belluzzi, overo della Città felice) finisca per tradire assonanze con la scrittura del Segretario fiorentino. Di fronte al fenomeno politico costituito dalla ‘indipendenza’ allora goduta dalla piccola repubblica del Titano, nel Belluzzi Z. sapeva richiamare la «maraviglia [...] di vedere un popolo debole di forze, e poco numeroso d’huomini conservare per tempo immemorabile la propria libertà fra mille rivolutioni, e guerre d’Italia» (Dialoghi, 1625, p. 161), echeggiando l’incipit del cap. i del primo libro dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio («Coloro che leggeranno quale principio fusse quello della città di Roma, e da quali datori di leggi e come ordinato, non si maraviglieranno che tanta virtù si sia per più secoli mantenuta in quella città»).
Profonda è la rivisitazione operata da Z. delle tematiche che da M. in poi costituirono il lessico corrente della politica – non foss’altro per la famosissima definizione di ‘ragion di Stato’ da lui prodotta (la ragion di Stato «tutta si rivolge intorno al conoscere que’ mezzi, e a valersene, i quali siano opportuni per ordinare o per conservare qualsivoglia costituzione di republica, qualunque ella si sia», Della ragion di Stato, in Politici e moralisti del Seicento, a cura di B. Croce, S. Caramella, 1930, pp. 27-28), a motivo della quale la critica più recente ha individuato nella sua opera una ricomposizione di quella frattura tra leggi e ragion di Stato che la tanto vulgata autonomia della politica perseguita dal Segretario aveva prodotto. Eppure, per quanto fossero importanti le differenze di prospettiva politica, e fosse proclamato a chiare lettere il distacco critico da M., non possono sfuggire i calchi evidenti operati sulle opere del Segretario fiorentino, con una trama di letture e di citazioni che rimodulano, nell’architettura conservativa propria della trattatistica sulla ragion di Stato, temi e problemi che la riflessione machiavelliana aveva saputo suscitare.
Differenti si presentano i relativi transiti biografici, non foss’altro – da un lato – per l’attività politica espletata in prima persona da M. e – dall’altro – per l’esperienza cortigiana e il ruolo burocratico di segretario vissuti da Z. sempre al servizio di personalità ecclesiastiche eminenti. Oppositive restano poi le prospettive ideologiche nella pur comune fede repubblicana: l’esaltazione della Venezia di Paolo Sarpi e del senatore Domenico Molino, infatti, costituiva il leitmotiv della riflessione di Z., che dovette difendersene nell’epistola premessa al testo della seconda edizione (1623) delle sue Considerationi politiche e morali sopra cento oracoli d’illustri personaggi antichi: «Chi mi tassa d’esser inclinato al nome Veneto, pensa di biasimarmi e forse mi loda». Z. non manca, tuttavia, di manifestare un sincero apprezzamento per gli ordini della Repubblica romana descritti da Polibio (e tali che «i Filosofi hanno mai saputo fingere per imaginatione, o descrivere in carte Republica eguale a quella Romana», Considerationi, 1621, p. 15), tanto da ricomporre in unica sintesi («buone erano le leggi, incorrotti i costumi, formidabili l’arme, e sì mirabile la costitutione della Repubublica») quella trama di relazioni tra buone leggi e buoni ordini, buoni costumi e buona educazione, buone leggi e buone armi di cui M. aveva saputo dichiarare la necessità, dalla sintetica formula di Discorsi III xxxi 4 («E benché altra volta si sia detto come il fondamento di tutti gli stati è la buona milizia, e come dove non è questa non possono essere né leggi buone, né alcuna altra cosa buona, non mi pare superfluo riplicarlo», si cita qui e di seguito da N. Machiavelli, Opere, a cura di C. Vivanti, 1° vol., 1997), a quella ben più ampia e articolata di Discorsi I iv 1 che si apriva alla riflessione sulle determinanti sociali degli assetti costituzionali propri alla Repubblica romana:
Né si può chiamare in alcun modo con ragione una republica inordinata, dove sieno tanti esempi di virtù, perché li buoni esempli nascano dalla buona educazione, la buona educazione dalle buone leggi, e le buone leggi da quelli tumulti che molti inconsideratamente dannano; perché chi esaminerà bene il fine d’essi, non troverà ch’egli abbiano partorito alcuno esilio o violenza in disfavore del commune bene, ma leggi e ordini in beneficio della publica libertà.
Di contro al conflitto cooperativo tra patrizi e plebei che M. aveva posto a fondamento della potenza romana, la teoria della conservazione politica declinata nelle pagine di Z. si trasformava nel costante imperativo della concordia (Discorsi dell’Honore..., 1623, p. 123: «Per la conservatione della Republica sempre si ricercano i Cittadini amici e concordi tra di loro»), ora costruita sull’amicizia tra cittadini posta a sigillo del dialogo Il Molino, ora dipinta, nel Belluzzi, come istanza ottativa che solo la nascosta realtà di San Marino poteva testimoniare. Nell’uno e nell’altro caso le condizioni divisive riportate nei Discorsi machiavelliani erano ricomposte, non grazie alla mediazione politica e alla ridefinizione degli assetti istituzionali, bensì nella individuazione di condizioni prepolitiche che, sorta di ammortizzatori sociali, si trasformavano in forti dinamiche di pacificazione civile: l’amicizia scambievole fra patrizi e plebei che doveva animare Venezia; l’ideale aristotelico della mesòtes trascritto nella comune povertà che Z. assegnava alla repubblica del Titano. Tuttavia, il repubblicanesimo di Z. non si distanziava da quello machiavelliano solo per l’esaltazione del modello veneziano, o per le differenti regole di stabilizzazione e coesione sociale proposte, ma soprattutto per il fondamento assiologico che doveva permeare la comunità. Omaggio che fosse alla cultura nobiliare barocca, e ancorché in altra pagina la Repubblica fosse presentata come organizzazione in cui è diffusa la distribuzione della virtù (Considerationi, 1621, p. 76), non la virtù, bensì l’onore era per Z. il valore che doveva animare la città: «se perfetta Politia si desse in atto, ben riuscirebbero affatto d’accordo il zelo dell’Honore, et l’amore della virtù; ma nel governo non fornito di compiuta perfettione pare, che communemente torni più in acconcio al vivere Civile il zelo dell’Honore». Infatti, proseguiva, nessuna città «per bene ordinata che sia, né popolo, quantunque egregiamente istrutto, potranno mai salire a grande altezza di potenza, ed d’Imperio, se non vi salgono per la via dell’Honore» (Discorsi dell’Honore..., cit., p. 133).
Descritte in questo modo le polarizzazioni ideologiche che illustrano la posizione di Z. di fronte a M., le pagine delle Considerationi, così come quelle dei Discorsi e dei Dialoghi, denunciano una trama ora di argomentazioni decisamente critiche nei confronti di M., ora di minuziose messe a punto, a testimonianza di una tradizione per nulla esile che dalle pagine del Segretario fiorentino ha scandito la riflessione politica italiana successiva e trovato nel faentino un autore pronto a ricalcare alcuni aspetti metodologici e metapolitici della prosa machiavelliana (per es., avvertiva con argomentazione tratta dal Principe iii 27 che «quando il rimedio sia sì tardo che la febre divenuta etica non possa risanarsi, converrà [...] che la Città o rimanga quasi cadavero, oppur divenga preda degli estranei», Dialoghi, cit., pp. 181-82), come a richiamarne evidenti topoi.
Così, dura è la critica rivolta contro il cap. xvii del Principe, quando Z. apostrofa i «Moderni Politici, i quali si sono o nella empia scola del Machiavello, o nella tirannica di Cornelio Tacito addottorati», perché «danno per avvertimento a’ Principi, che procurino più di farsi temere, che di farsi amare» (Considerationi, cit., p. 133). Non meno serrato attacco Z. portava al cap. xviii del capolavoro machiavelliano. Descrivendo come il mendacio avrebbe reso il mondo disumano, e perciò bestiale, il faentino operava un’evidente allusione all’immagine machiavelliana di «golpe» e «lione»: «Dove è bugia senza alcuna verità non può a niun modo mantenervisi la conversatione, et il commercio humano. Chi dal Mondo leva la conversatione, et il commercio, viene, quasi novella Circe, a trasmutar gli huomini in bestie» (Considerationi, cit., p. 147).
Tutta iscritta nella lezione machiavelliana contenuta in Discorsi II x 2 («Dico pertanto non l’oro, come grida la comune opinione, essere il nervo della guerra, ma i buoni soldati: perché l’oro non è sufficiente a trovare i buoni soldati, ma i buoni soldati sono ben sufficienti a trovare l’oro») era poi la riflessione che Z. dispiegava nelle sue Considerationi, ampliandone la portata con avanzare la distinzione tra guerra offensiva e difensiva. Infatti, «se ben fu detto che nervi belli pecunia, non però si dee premere tanto nella copia di denari, quanto nel numero di soldati ben disciplinati, i quali sono atti a far loro preda l’argento e l’oro degli inimici»; ma Z. sapeva riconoscere che «nella [guerra] offensiva il più delle volte bellum se ipsum alit, ma nella difensiva bisognano denari in gran quantità, per potere tirare innanzi l’impresa» (Considerationi, cit., pp. 364 e 366). E forte eco machiavelliana dichiarava altro passo del Discorso dell’Honore, in cui si discettava – come recitava il titolo del cap. xx – Se più vaglia a contenere i popoli in officio il zelo della religione, o lo stimolo dell’Honore: «Gli antichi Romani, e Greci arditamente incontravano l’arme nimiche, e spargevano il sangue per zelo dell’Honore; i nostri Martiri di miglior voglia si sottomettevano al ferro, et al fuoco, per non dispiacere a Dio». Sembra, così, che Z. intenda ripercorrere la pagina dei Discorsi (II ii 2) ove M. osservava che «avendoci la nostra religione mostro la verità e la vera via, ci fa stimare meno l’onore del mondo: onde i gentili, stimandolo assai, ed avendo posto in quello il sommo bene, erano nelle azioni loro più feroci». Tuttavia,
il faentino si discostava dalla lezione machiavelliana non solo modificandone il campo del confronto inerente la «diversità della religione nostra dalla antica», ma qualificandolo attraverso differenti forme politiche – «il mezo della religione torna forse più in acconcio a i Principi; quello dell’Honore alle Republiche» – e, soprattutto, attribuendo a religione e a onore due ben distinte funzioni: «Proprio officio dell’Honore è tenere gli huomini per lo dritto sentiero nella vita Civile; primiera cura della religione è il rendere gli animi puri, e mondi nel cospetto di Dio». Non solo: se non mancava in Z. la consapevolezza della diffusione di atteggiamenti nicodemitici, pratica a lui plausibilmente non ignota, per nulla machiavelliano risultava l’explicit del capitolo, in cui veniva a rimodulare le ragioni della superiorità della religione:
Aggiungi, che la riverenza del culto divino più agevolmente puossi con le finzioni, e con le hipocrisie mascherare, che il conseguimento (per così dire) dell’Honore: il quale perciò rimane più sicuro per la vita civile. [...] Nondimeno negli animi di dovero ben disposti lo stimolo dell’Honore in rispetto del zelo della religione, lo splendore della gloria riesce fumo quasi oscuro, o pure horrida nebbia. Non gran fatto si stima il fiore, quando si possa ottenere il frutto; e di premio mortale poco si tiene conto, mentre si speri di conseguire il celeste (Discorsi, cit., pp. 105-06).
Grande sintonia, invece, si manifesta in Z. con il lamento machiavelliano per un’Italia divisa e asservita allo straniero, tema che informa l’ultima sua opera, pubblicata postuma, Discorso dello Amore verso la Patria:
Hora apunto è tempo di favellare dell’amore della patria a i nostri huomini, perché natione straniera tiene ristretta nelle unghie meza Italia, una altra minaccia di fare del resto. I pretesti di giurisdittione, che pretendono, o pure esercitano gli uni, e gli altri sopra la Italia, sono nati dal nostro poco amore verso la patria, il quale ci ha fatto degenerare in costumi alieni. [...] ma quando saremo tutti Italiani, e non più Francesi, Spagnoli, o Tedeschi, quando ci uniremo insieme nell’amore verso la patria, tutti i pretesti delli stranieri svaniranno in nebbia, le ragioni tutte si convertiranno in fumo. L’Italia sarà albergo degli Italiani, non de i forestieri (Discorso dello Amore verso la Patria, 1631, pp. 2-3).
Bibliografia: Opere politiche: Considerationi politiche e morali sopra cento oracoli d’illustri personaggi antichi, Venezia 1621, 1623; Discorsi dell’Honore, della Gloria, della Riputatione, del Buon Concetto, Venezia 1623; Dialoghi, Venezia 1625; Nobiltà commune et heroica, Venezia 1625; Il secolo dell’oro rinascente nella amicitia fra Nicolò Barbarigo e Marco Trivisano, Venezia 1629; Discorso dello Amore verso la Patria, Venezia 1631, 16732. Edizioni moderne: l’oracolo xi, Della ragion di Stato, delle Considerationi è stato riedito in Politici e moralisti del Seicento, a cura di B. Croce, S. Caramella, Bari 1930, pp. 25-41, e in A. Sarubbi, P. Scudieri, I teorici della ragion di Stato. Mito e realtà, Napoli 2000, pp. 146-59. Per i dialoghi utopici si veda: La Repubblica d’Evandria e altri dialoghi politici, a cura di R. De Mattei, Roma 1944; il dialogo Il Belluzzi è stato ripubblicato separatamente, con il titolo Il Belluzzi ovvero la città felice, a cura di A.A. Bernardy, Bologna 1929, e a cura di B. Widmar in Scrittori politici del ’500 e ’600, Milano 1964; il Discorso dello Amore verso la Patria si legge in Scrittori politici dell’età barocca, scelta e introduzione di R. Villari, Roma 1998, pp. 597-638.
Per gli studi critici si vedano: F. Meinecke, Die Idee der Staats räson in der neueren Geschicte, München-Berlin 1924 (trad. it. Firenze 19772, pp. 123-25); V. Di Tocco, Ideali d’indipendenza in Italia durante la preponderanza spagnuola, Messina 1926; B. Croce, Ludovico Zuccolo e l’italianità, in Id., Uomini e cose della vecchia Italia. Serie prima, Bari 1927, pp. 183-99; B. Croce, Storia dell’età barocca in Italia, Bari 1929, pp. 93-97; C. Ginzburg, Una testimonianza inedita su Ludovico Zuccolo, «Rivista storica italiana», 1967, 4, pp. 1122-28; Convegno di studi in onore di Lodovico Zuccolo nel quarto centenario della nascita (Faenza 15-16 marzo 1969), Faenza 1969 (in partic. R. De Mattei, La Repubblica d’Evandria di Ludovico Zuccolo, pp. 19-40; B. Nediani, La personalità di Ludovico Zuccolo, pp. 51-62; L. Firpo, Ludovico Zuccolo politico e utopista, pp. 75-92); R. De Mattei, Il problema della ragion di Stato nell’età della Controriforma, Milano-Napoli 1979, in partic. pp. 109-28; R. De Mattei, Il pensiero politico italiano nell’età della Controriforma, tt. 2, Milano-Napoli 1982-1984, passim; P. Pissavino, Ludovico Zuccolo. Dall’audizione a corte alla politica, Firenze 1984; P. Pissavino, Un discorso inedito di Ludovico Zuccolo, in Studi politici in onore di Luigi Firpo, a cura di S. Rota Ghibaudi, F. Barcia, 2° vol., Milano 1990, pp. 253-94; G. Borrelli, Ragion di Stato e Leviatano. Conservazione e scambio alle origini della modernità politica, Bologna 1993, pp. 170-83; V. Frajese, La politica di Ludovico Zuccolo e l’ambiente sarpiano. Contributo all’interpretazione di testi pubblici dissimulati, «Il pensiero politico», 1995, 2, pp. 151-77; M. Sénellart, Le problème de la raison d’État de Botero à Zuccolo, in Figures italiennes de la rationalité, a cura di C. Menasseyre, A. Tosel, Paris 1997; P.C. Pissavino, Le ragioni della repubblica. La Città felice di Lodovico Zuccolo, San Marino 2007.