Alamanni, Luigi
, La presenza di D. nell'opera dell'A. (1495-1556) crea un fitto intreccio di ricalchi e risonanze, anche nei contesti in cui la voce del poeta appare soverchiata da più scoperte reminiscenze petrarchesche o virgiliane. Spesso si tratta soltanto di tono, di una più corposa sonorità, di una libertà nelle scelte del linguaggio lirico, dietro la quale si sente un'autorizzazione più ampia di quella offerta dal modello petrarchesco: ma non di rado il ricalco affiora esplicito, in coincidenza con situazioni emozionali particolari, diverse da quelle più tipicamente liriche. Così avviene quando nel Canzoniere dell'A. (specie dal '20 al '35) si insinuano più frequentemente i temi petrarchescamente eterodossi della delusione o dell'invettiva politica, le malinconie dell'esiliato, le sue ansie di libertà. Vi sono poi casi in cui versi della Commedia divenuti esemplari e proverbiali sono trasferiti di peso dall'A. nelle sue rime, dove assumono il valore di un'asseverazione quasi epigrafica (cfr. Versi e Prose, ediz. cit. in bibl., II 405). Se si pensa al destino dell'A. e di molti della sua generazione, agli esuli sconfitti nelle lotte per la conservazione delle libertà repubblicane, ai perseguitati dalla signoria medicea, non stupisce ritrovare in questa esperienza poetica forti tracce di una sensibilità che si è educata su D., ben oltre le risonanze puramente letterarie del modello, attraverso la riscoperta di affinità elettive, autobiografiche, profondamente morali.
Si potrebbe insomma paradossalmente affermare che l'A. porta nel suo dantismo accenti ed esperienze che saranno tipiche di quello risorgimentale. E ciò è più evidente in quella parte della sua produzione poetica in cui il trauma del fallimento politico e dell'esilio si manifesta più a nudo, attraverso l'invettiva e la satira: il segno e anche il limite del dantismo dell'A. è appunto nelle sue tredici Satire, mentre nelle Elegie lo stesso dolore si colora di situazioni e toni più convenzionalmente virgiliani e nei sonetti si disperde (salvo eccezioni) in morbidezze mitiche, allusive (cfr. ediz. cit., I 33 e 45). Non resta che indicare nelle Satire (il genere già implica determinate scelte di linguaggio e di rappresentazione all'interno dell'offerta dantesca), qualche tipico episodio di suggestioni o di vere e proprie sovrapposizioni. A volte l'A. ricorda personaggi danteschi in veste di esemplari morali (" Né si vergogni il nostro gran toscano / d'una Cianghella, un Lapo Salterello / ch'or chi mille ne vuol, non cerca invano ", I 256). La satira dell'avaro richiama subito la lupa dantesca: " Come lunge ha da sé la dritta via / chi per posa trovar sempre s'affanna / e dopo il pasto ha più fame che pria ", I 240). Altrove è la memoria, quasi il riflesso condizionato, di una rara rima dantesca, trasferita ad altro contesto (dramma fiamma: ibid. 245). Ma queste (e tante altre possibili spigolature del genere) non sono che spiragli rivelatori, secondari episodi, rispetto al significato che l'esempio e il conforto del precedente dantesco offriva, in senso ben più ampio e totale, al tormento umano e politico dell'A., segnato (come molti della sua generazione) da forti residui di savonarolismo.
Bibl. - L.A., Versi e Prose, a c. di P. Raffaelli, Firenze 1859, 2 voll.; H. Hauvette, Un exilé florentin à la cour de France au XVIsiècle: L.A., Parigi 1903; F. Bonfa, L'A. poeta, Mantova 1909; C. Angeleri, Lo spirito di libertà di L.A., in " Idea " VIII (1956) 49. Per l'aneddoto che l'A. leggesse a Francesco I la Commedia, vedi l'Hauvette cit. e F. Maggini, in " Bull. " XVII (1910) 204.