ALBERTINI, Luigi
Nacque ad Ancona il 19 ott. 1871 da Augusta Monchi e da Leonardo, ricco e influente banchiere, costruttore e armatore. Tra il 1881 e il 1889 compì gli studi ginnasiali e liceali nei collegi di Senigallia e Macerata, e s 'iscrisse poi alla facoltà di giurisprudenza della università di Bologna. Nel 1892, per il fallimento che il padre, coinvolto in una sfortunata speculazione edilizia, era stato costretto a dichiarare, e per la morte a poca distanza di tempo sia del padre sia dello zio Cesare, l'A. si trovò privo della passata agiatezza e responsabile di una numerosa famiglia. Si trasferì allora a Torino, e in quella università si laureò nel 1893 con una tesi su La questione delle otto ore di lavoro, che venne pubblicata nel Giornale degli Economisti (cfr. le opere dell'A.). Divenuto assistente, insieme con P. Iannaccone, del prof. S. Cognetti De Martiis, prese a lavorare assiduamente nel "Laboratorio di Economia Politica", fondato dal Cognetti, che vi veniva educando a concezioni liberistiche decine di giovani studiosi. L'A., che in quest'ambiente si legò di molta amicizia con L. Einaudi, pure allievo del Cognetti, ebbe l'incarico di tradurre l'opera di D. Schloss sui Metodi di remunerazione industriale (Torino 1896), alla quale aggiunse un'ampia appendice Sulla partecipazione ai profitti nell'Impero Britannico; tradusse inoltre due monografie di G. Drage, sulle migrazioni del lavoro e sulla questione operaia in Germania, ambedue inserite nella "Biblioteca dell'Economista".
Alla fine del 1894, incoraggiato e aiutato da L. Roux, proprietario e direttore della Stampa, che lo incaricò di alcune corrispondenze, si recò a Londra, col proposito di approfondirvi i suoi studi di economia politica. A Londra rimase circa otto mesi ed ebbe modo di frequentare C. F. Moberly Bell, direttore amministrativo del Times, per mezzo del quale poté studiare l'organizzazione e il funzionamento del più autorevole giornale inglese. I contatti che l'A. poté avere in quel periodo con i circoli liberali inglesi furono di grande importanza nella formazione dei suoi orientamenti politici e della sua stessa personalità morale.
Tornato in Italia nell'agosto del 1895, ebbe incarico dal Roux di prendere parte al Congresso delle Banche Popolari in Bologna. Lì conobbe L. Luzzatti, che lo condusse con sé a Roma e gli affidò la direzione del giornale Credito e Cooperazione. Nella primavera del 1896 il Luzzatti, che già aveva messo l'A. in contatto con i suoi amici politici della Destra, lo presentò ad E. De Angeli, comproprietario del Corriere della Sera. Per interessamento del De Angeli l'A. fu assunto da E. Torelli Viollier, direttore di quel giornale, nella redazione, ottenendo dapprima l'incarico di recarsi come corrispondente a Mosca, in occasione dell'incoronazione dello zar, e a Budapest, per le feste millenarie ungheresi, e poi, al suo ritorno a Milano, il compito di curare l'organizzazione tecnica e amministrativa del Corriere come segretario di redazione.
Il 12 luglio 1898 il Torelli, ritirandosi dalla direzione del giornale, che lasciava a D. Oliva, affidava la direzione amministrativa all'A. Questi, nel biennio successivo, mettendo a frutto la preziosa esperienza londinese, apportò alla struttura tecnica e amministrativa del giornale grandi innovazioni, introducendo tra i primi in Italia le rotative cilindriche, adottando i sistemi inglesi di pubblicità, fondando il supplemento a colori La Domenica del Corriere (che raggiunse 1.500.000 copie di tiratura) e La Lettura, che affidò alla direzione di G. Giacosa, del quale nel 1900 sposò la figlia Piera.
Con la direzione dell'Oliva il Corriere della Sera aveva assunto una linea politica estremamente conservatrice, che l'A. non si sentiva di condividere: per due anni si tenne quindi estraneo alla parte politica del giornale, limitandosi ai suoi compiti tecnici; ma, nel luglio 1900, approfittando di una momentanea assenza dell'Oliva, ispirò al redattore capo Bonzatti, e fece pubblicare, un editoriale di critica al governo Pelloux, sino ad allora sostenuto dal giornale. L'Oliva si vide costretto alle dimissioni e l'A., che già nel gennaio aveva acquistato una caratura del Corriere per un sessantaquattresimo del capitale, divenne direttore del giornale e gerente della società proprietaria "Luigi Albertini e C.".
Sotto la direzione dell'A. il Corriere della Sera ebbe uno sviluppo rapidissimo, e diventò il più importante giornale italiano e uno dei più autorevoli d'Europa. Fu migliorata la tecnica della composizione con l'introduzione delle linotypes e fu creato un nucleo numeroso ed estremamente specializzato di redattori, corrispondenti e inviati speciali, tra i quali i più in vista furono L. Barzini, E. Janni, R. Simoni, G. Emanuel, A. Fraccaroli, G. Amendola, G. A. Borgese, A. Tarchiani. L'A. si preoccupò anche di ampliare la parte del giornale dedicata ad argomenti letterari e artistici, che con il Torelli era stata assai limitata. Egli dedicò invece a tali argomenti l'intera terza pagina, e chiamò a collaborarvi i letterati italiani più famosi. Oltre a Baldini, Panzini e Bontempelli, dettero a essa popolarità soprattutto Pirandello e D'Annunzio. Il primo cominciò sin dal 1909 a pubblicare sul Corriere le sue novelle migliori, raccolte poi nei volumi La vita nuda (1911), Terzetti (1912), Le due maschere (1914), mentre il secondo vi pubblicò nel 1911-1912 Le canzoni della gesta d'oltremare,che costituiranno il IV volume delle Laudi,le Faville del Maglio (1911-1914) e quelle prose Per la morte di due amici (1912) riunite poi nel volume La contemplazione della morte. Furono inoltre creati altri due supplementi, il Romanzo Mensile e il Corriere dei Piccoli. Da una tiratura di 75.000 copie nel 1900 il Corriere della Sera passava a 150.000 nel 1906 e giungeva alle 700.000 e oltre del 1920-24.
La grande autorità raggiunta permise all'A. una completa autonomia sul piano politico, anche quando le sue campagne contrastarono con gli interessi degli altri proprietari, gli industriali cotonieri B. Crespi ed E. De Angeli, l'industriale della gomma G. B. Pirelli, l'architetto L. Beltrami, ai quali si aggiunse, in un secondo momento, l'industriale C. Frua. L'autonomia politica del direttore era del resto stabilita per contratto sin dal 13 luglio 1900.
Richiamandosi ai caratteri che nella stampa inglese distinguevano il Times, l'A. volle atteggiare il suo giornale a una posizione di estrema indipendenza rispetto alle parti politiche, preoccupato soltanto della salvaguardia dei supremi valori nazionali, della legalità costituzionale, della difesa della tradizione risorgimentale, della correttezza nei metodi parlamentari, elettorali, amministrativi. In effetti, piuttosto che essere al di fuori delle parti in lotta, il Corriere della Sera rappresentò per venticinque anni una delle tendenze fondamentali della vita pubblica italiana, fu un formidabile strumento di propaganda e di organizzazione per larghissime zone della borghesia italiana, alla quale si presentò come la principale forza di opposizione costituzionale, capace di proporre un'alternativa alla politica della classe di governo e infine di sostituirsi a essa, come infatti avvenne nel 1915.
Sin dall'esordio politico dell'A., durante la crisi del 1900, si delineò quella che fu poi la costante linea politica del Corriere della Sera: da una parte, la polemica contro l'ostruzionismo sistematico dell'opposizione, di cui l'A. non riesce interamente a vedere il valore di difesa delle istituzioni liberali, delle quali egli tanto si preoccupa, dall'altra, la polemica contro la confusione e la debolezza della classe di governo, che gli sembrano provate nell'occasione dal tentativo, giudicato anticostituzionale e inopportuno, del Pelloux di trasformare il regime parlamentare in senso autoritario. Incertezza di prospettiva, mancanza di idealità morali e politiche della classe dirigente, sono i punti centrali della polemica venticinquennale dell'A. Nel suo giudizio, Giolitti ne è l'espressione massima, rappresenta la rinunzia della parte liberale alle sue idee e ai suoi interessi di fronte alle pretese economiche e politiche della sinistra socialista. La prassi politica giolittiana è il nemico costante del Corriere: non c'è aspetto dell'opera di governo di Giolitti che non sia puntigliosamente ed acremente commentato giorno per giorno dall'A. Il suo riformismo, la sua politica economica, finanziaria, doganale, i suoi atteggiamenti in politica estera sono, secondo l'A., tutte espressioni di una fondamentale mancanza del senso dello stato, tutti espedienti per mantenersi al potere più a lungo possibile "senza attriti, né dispiaceri" (L. A., Venti anni di vita politica, I, 322). Di fronte alla decadenza che l'A. vede derivarne nel costume politico italiano, le sue simpatie vanno alla rigidità politica, all'austerità di carattere di un Sonnino, di un Salandra, di un Cadorna. Ma questi uomini sono, nel pensiero di A. che ne scorge i limiti, poco più che punti di riferimento, simboli di quella tradizione politica e morale della Destra storica, del vigoroso e aristocratico senso dello stato che l'aveva animata, al quale l'A. si sente spiritualmente vicino. Con l'intento di ricollegarsi a quelle tradizioni, il Corriere viene elaborando un programma politico che si contrappone punto per punto alla azione del governo. Una serie di campagne condotte da autorevolissimi collaboratori mettono in evidenza di fronte alla opinione pubblica, con un'efficacia che a nessun uomo politico o di studi sarebbe stata possibile senza lo strumento prezioso del giornale dell'A., tutti i problemi creati o soltanto non risolti dall'opera del governo. L. Einaudi attacca senza posa dalle colonne del Corriere la politica doganale e finanziaria di Giolitti, smaschera l'assalto alle finanze statali e agli interessi dei consumatori condotto dagli industriali protezionisti e dalle cooperative operaie, propone instancabilmente soluzioni liberistiche ai problemi economici del paese. La questione dello sviluppo economico e politico del Mezzogiorno è imposta alla coscienza nazionale dalle inchieste e dagli studi che scrittori insigni come P. Villari, F. S. Nitti, G. Mosca, M. Ferraris conducono senza posa sin dal 1905. Persuaso che la rottura del monopolio giolittiano nel meridione potrà rinnovare la vita politica e parlamentare italiana, l'A. appoggia sistematicamente tutti gli uomini politici meridionali, Salandra, Orlando, Nitti, Amendola. Persino per Gaetano Salvemini, che si presenta come candidato antigiolittiano nelle elezioni di Barletta del 1913, il Corriere della Sera conduce con U. Oietti un'energica azione di sostegno. L'appoggio al Salvemini, tuttavia, non fu che un episodio, determinato dalla costante antigiolittiana del Corriere: in effetti, nulla era più lontano dal democratismo e radicalismo del Salvemini dell'atteggiamento politico dell'A. che era essenzialmente un conservatore illuminato. Ne è espressione la sua posizione costantemente negativa rispetto a ogni allargamento del corpo elettorale e rispetto alla proporzionale, che riterrà in larga parte responsabile della crisi dello stato liberale, sino al punto di appoggiare la riforma elettorale proposta dal primo ministero Mussolini. Così pure, di fronte ai successi dei socialisti nelle elezioni del 1909, del 1913, del 1919, se, da una parte, sente l'esigenza di risolvere la situazione per via costituzionale, chiamando i socialisti a condividere la responsabilità del governo, dall'altra poi, quando questa possibilità concretamente si presenta, finisce sempre per respingerla, come un cedimento, un insano riconoscimento della parte liberale di non saper governare senza il consenso dei suoi avversari. Così nel 1910, quando Giolitti offre a Bissolati un portafoglio nel suo gabinetto; così durante la crisi del dopoguerra, quando, dopo aver compiuto, nel settembre 1920, un passo personale presso Turati per indurlo, durante l'occupazione delle fabbriche, alla collaborazione governativa, cambia decisamente parere e si oppone, nel 1921, alla proposta giolittiana di accogliere i socialisti nel governo. La medesima posizione conservatrice l'A. assume verso i cattolici, dei quali, con intransigenza ispirata anche essa alle tradizioni della Destra storica, depreca dapprima la costituzione in corrente politica autonoma, e poi il peso sempre maggiore assunto nella vita pubblica, come lesivi della laicità dello Stato. La battaglia dell'A. contro ogni intrusione clericale nella vita statale italiana è praticamente senza requie, sino all'episodio ultimo del voto contrario al Concordato, dato insieme con soli altri cinque senatori. Ma il laicismo dell'A. si collega anche strettamente al suo antigiolittismo: il tentativo di Giolitti di allargare le basi dello stato liberale eliminando il sovversivismo dei clericali, con l'indurre questi, attraverso le alleanze elettorali, ad aderire alle istituzioni parlamentari, non gli sembra altro che un ennesimo espediente per conservare il potere, più spregiudicato del solito, perché dimentico delle tradizioni laiche del liberalismo, più pericoloso, perché "deformava la figura del partito liberale" (Venti anni di vita politica, I, 157): contro questa politica l'A. afferma di preferire "dieci, venti sovversivi di più alla Camera" all'invadenza degli innaturali alleati e all'"effetto morale dell'alleanza" nelle file liberali (ibid., II, 10). Ma al formarsi poi, e all'affermarsi di un partito politico cattolico, naturalmente la sua ostilità non viene meno, e lo induce a indicare il fatto come una delle ragioni fondamentali della paralisi e poi del crollo dello stato liberale.
Un momentaneo consenso alla politica di Giolitti si ebbe soltanto per la guerra libica. L'attenzione del Corriere della Sera ai problemi di politica internazionale fu sempre accentuatissima, e in costante polemica, da una parte, contro il disinteresse personale di Giolitti verso di essi, dall'altra, contro il velleitarismo di quei gruppi e di quelle correnti che confluiranno poi nel movimento nazionalista. Alle loro pretese l'A. reagì energicamente nel 1908, quando, in occasione dell'annessione della Bosnia e dell'Erzegovina da parte dell'Austria, dimostrò che la situazione nell'Europa orientale non era cambiata sostanzialmente, e che, del resto, un'azione del governo italiano verso l'Austria per ottenere compensi non avrebbe potuto essere condotta a fondo e sarebbe stata pertanto lesiva del prestigio italiano. Con la partecipazione, poi, al congresso delle Nazionalità oppresse dell'aprile 1918, s'impegnò a sostenere dopo la fine del conflitto le aspirazioni indipendentistiche delle minoranze slave dell'Impero austro-ungarico e, nello spirito del Patto di Roma che aveva concluso il congresso, si oppose alle pretese nazionalistiche sulla Dalmazia, rilevando anche che l'annessione di quelle terre non sarebbe stata utile militarmente, e avrebbe creato ai confini orientali pericolosi fermenti autonomistici tra la prevalente popolazione slava, oltre che un permanente contrasto con lo Stato iugoslavo.
Pure non mancarono nelle posizioni del Corriere in politica estera e militare toni che rafforzarono e facilitarono il diffondersi di diversi temi della propaganda nazionalistica. Così per la campagna di Libia, sostenuta non per motivi economici o militari, ma come un impegno d'onore, una questione più morale che territoriale, ritenendo anzi che materialmente l'Italia si indebolisse, piuttosto che rafforzarsi, andando in Africa; così per le continue richieste tendenti a fortificare l'esercito e a epurarlo dagli elementi massonici, e le campagne "per sollevare l'opinione pubblica", dei generali F. Pistoja, G. Perrucchetti, C. Porro, G. Bompiani, L. Malnoni d'Intignano.
Con la guerra mondiale la posizione dell'A, trionfa del suo tradizionale avversario, Giolitti: il Corriere della Sera diviene il portavoce e la guida riconosciuta del gruppo eterogeneo degli interventisti, e l'opposizione costituzionale guidata dall'A. (che il 30 dic. 1914 era stato nominato senatore), dal Salandra e dal Sonnino passa alla direzione del paese. Il ruolo dell'A, è fondamentale, dapprima nel creare il clima che rese possibile l'intervento, tanto che un interventista come il Salvemini arriverà ad affermare (cfr. Albertini 1914-15), che, senza il contributo del giornale albertiniano, l'intervento non sarebbe stato possibile; poi, a guerra dichiarata, nel mantenere i contatti e sanare i dissidi tra il Salandra e il Cadorna, del quale sostenne sino all'ultimo la condotta di guerra, anche in contrasto con persone, come l'Amendola e il D'Annunzio, alle quali era legato da personale amicizia. Dopo la fine del conflitto, poi, seppure bilanciata dall'equilibrata posizione sul problema della Dalmazia, la esaltazione compiuta dal Corriere della Sera della guerra italiana contribuì ad alimentare alcuni motivi che finirono poi per assere assorbiti ed esasperati dalla polemica dannunziana e nazionalistica.
Nell'ottobre del 1921 l'A. fu delegato a rappresentare il governo italiano alla conferenza per il disarmo navale a Washington. In quell' occasione egli affidò la responsabilità del giornale al fratello Alberto, ma ne mantenne l'effettiva direzione sino a che, nel 1925, non ne fu allontanato dal fascismo.
Di fronte a questo la posizione dell'A. fu, agli inizi, favorevole. Egli credette di scorgervi una salutare reazione alla marea montante del socialismo, e partecipò alla illusione, quasi generale tra gli esponenti del liberalismo, che il movimento fascista potesse essere incanalato nelle normali vie costituzionali. Il dilagare, tuttavia, delle violenze fasciste e la manifesta impotenza dei poteri statali a controllare il fenomeno, lo indussero, sin dall'agosto 1922, a prendere una posizione di polemica e di deprecazione. Un'ultima operazione tendente a portare il fascismo nell'ambito della legalità statutaria fu compiuta dall'A., nei giorni immediatamente precedenti la marcia su Roma, sollecitando la crisi extraparlamentare del ministero Facta e la formazione di un governo di coalizione comprendente i fascisti. Fallito anche quest'ultimo tentativo, il Corriere della Sera invocò invano il mattino del 28 ott. 1922 la resistenza dei poteri legali. Da allora, l'opposizione dell'A, al nuovo regime fu decisa, senza le incertezze che caratterizzarono per due anni ancora alcuni dei maggiori esponenti del liberalismo: dalle colonne del Corriere della Sera e dal suo posto di senatore egli non si stancò di levare la sua protesta per lo Statuto violato, per la libertà perduta. In senato, al discorso del 28 maggio 1923, in cui insisteva sulla necessità di tornare alla normalità, abbandonando l'uso dei decreti legge, seguì quello del 13 giugno, nel quale ammoniva che la solidità dei governi non si fonda sulla forza materiale, ma sui consensi. La protesta dell'A. raggiunse i toni più coraggiosi ed elevati dopo il delitto Matteotti. Nel discorso del 24 giugno 1924, proclamò la sua opposizione netta al fascismo, denunziando la soppressione della libertà come necessità intrinseca del regime. Invano Mussolini, per guadagnarsi l'A., gli aveva offerto, il 30 ott. 1922, il posto di ambasciatore a Washington, che egli aveva decisamente rifiutato. Da allora gli attacchi, le minacce, le violenze contro l'A. e il Corriere della Sera furono in continuo crescendo, sino a che il 29 nov. 1925 Mussolini riuscì a far tacere l'opposizione del Corriere facendone estromettere l'A. e il fratello Alberto. In segno di protesta contro l'allontanamento dell'A., la maggior parte dei redattori del giornale si dimise. La fine del Corriere della Sera dell'A. suscitò grande impressione in Italia e all'estero, e il Times parlò di "una perdita seria per la civiltà europea".
Nel 1926 l'A. si trasferì da Milano a Roma. Acquistata la tenuta di Torre in Pietra nell'Agro, egli nè intraprese, con l'aiuto del figlio Leonardo e del genero N. Carandini, la bonifica e la trasformazione.
L'ultima manifestazione pubblica del suo pensiero politico fu il discorso al senato del 12 maggio 1928, quando dichiarò la sua opposizione all'instaurazione della Camera dei Fasci e delle Corporazioni. Dopo, trascorse gli anni del suo volontario isolamento a rimeditare la sua esperienza di uomo politico e di giornalista, ponendo mano a un'opera che, più che un'autobiografia, voleva essere una storia d'Italia nel primo venticinquennio del secolo, al quale progetto non fu forse estraneo un elemento di reazione polemica alla Storia d'Italia del Croce, che l'A. non accettava nei suoi giudizi sostanzialmente favorevoli a Giolitti. Il primitivo progetto, tuttavia, subì una digressione, per l'esigenza che l'A. avvertì di chiarire a se stesso uno dei problemi centrali della sua ricostruzione, quello delle origini della guerra mondiale, per il quale considerava insufficiente e unilaterale la documentazione sin lì posseduta. Perciò intraprese la raccolta di un larghissimo materiale sull'argomento, giungendo sino a far intervistare dal suo collaboratore L. Magrini tutti i protagonisti reperibili della vicenda, ricavandone testimonianze, chiarimenti e documenti preziosi, sino allora ignoti alla storiografia del conflitto. Il risultato di queste ricerche fu un'opera, che è tuttora tra le più aggiornate sull'argomento, con una documentazione larghissima e in parte originale, tecnicamente eccellente, se si eccettui qualche aspetto particolare per il quale l'A. non riuscì a controllare i suoi sentimenti e risentimenti politici, come nel caso del disinteresse sistematico per la politica della S. Sede, quasi a vendicare con il silenzio l'intervento ritenuto illecito della Chiesa nelle cose politiche. Ma anche così l'opera è da considerarsi sinora insostituibile, e un meritato riconoscimento è stata la traduzione inglese, patrocinata dall'università di Oxford. Di interesse pari a Le origini della guerra del 1914 sono le memorie, alle quali l'A. riprese a dedicarsi non appena ebbe completato la prima opera. Esse abbracciano il periodo che va dall'ingresso dell'A. al Corriere della Sera sino alla fine della guerra mondiale. La narrazione vi procede generalmente separata e parallela per la politica internazionale e per quella interna, ma i risultati sono ineguali: mentre la parte dedicata alla politica estera presenta la medesima ricchezza d'informazione, lo scrupolo documentario, la sorveglianza critica del primo lavoro, la trattazione dei problemi di politica interna è condotta essenzialmente sulla base della collezione del Corriere,ed è quasi una ricerca di conferme alle tesi politiche del giornale, dalle quali l'A. mai si discosta, se non per qualche attenuazione di giudizi su uomini o vicende particolari. Si tratta in ogni caso di una testimonianza di grande valore, ed è da deprecare che essa sia rimasta incompiuta. La narrazione, secondo il programma dell'A., avrebbe infatti dovuto spingersi sino al 1925, al momento, cioè, della sua estromissione dal Corriere,ma l'A. non riuscì a raccogliere che pochi e frammentari appunti sul periodo del dopoguerra, essendo sopravvenuta la morte il 29 dic. 1941, in Roma.
Sue opere sono: La questione delle Otto ore di lavoro, in Giornale degli Economisti, s. 2, VIII (1894), pp. 1-23, 241-260, 351-378, 455-486, ristampata in volume, Torino 1894; Le origini della guerra del 1914, Torino 1943; In difesa della libertà, Milano 1947; e infine Venti anni di vita politica, 5 voll., Bologna 1950-1953.
Fonti e Bibl.: Oltre che nel cit. Venti anni di vita politica, la maggior parte delle notizie sulla vita dell'A, sono in A. Albertini, Vita di L. A., Roma 1945. Utili testimonianze quelle di A. G. Bianchi, Il senatore L. A., Milano 1919, O. Alvaro, Luigi Albertini, Roma 1925, A. Pozzi, Come li ho visti io, Milano 1947, pp. 11, 35-54, 101, che dà alcune informazioni sul periodo romano dell'A. Documenta una particolare attività dell'A., quella di collezionista d'arte, E. Modigliani, La collezione di L. A., Roma 1942. B. Croce dà notizia di una breve polemica epistolare con l'A., a proposito dei giudizi favorevoli a Giolitti espressi nella sua Storia d'Italia dal 1871 al 1915: Venti anni fa. Ricordo della pubblicazione di un libro, in Quaderni della Critica, marzo 1948, n. 10, p. 110. Lettere del Carteggio D'Annunzio-Albertini sono pubblicate in Il Mondo, del 16 e 26 febbraio, 5, 12, 19 e 26 marzo 1949. Sulla personalità dell'A. nel suo complesso, notevoli gli scritti di N. Valeri, Luigi Albertini, in Lezioni di storia moderna. Appunti intorno alla crisi del primo dopoguerra, Milano 1956-57, pp. 160-165, e di P. Alatri, Luigi Albertini, in Belfagor, VIII (1953), pp. 51-74, ristampato in Le origini del fascismo, Roma 1956, pp. 445-482 (sull'A. cfr. anche pp. 125-126, 274-275, 317-318, 391-392, 508-511, 513-514, 517-518, 520-521, 526-531 e passim); di minore interesse L. Lodi, Luigi Albertini, in Giornalisti, Bari 1930, pp. 113-120 e passim, e A. Galletti, Luigi Albertini e la lotta liberale, in Nuova Antologia, LXXXI (1946), pp. 395-407. Importanti giudizi di A. Gramsci in Borghesia ed emigrazione, in Antologia della Rivoluzione liberale, a cura di N. Valeri, Torino 1948, pp. 453-456 (discorso parlamentare del 18/5/1925), Il Risorgimento, Torino 1949, pp. 80, 99, Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura, Torino 1949, pp. 157-158, Passato e Presente, Torino 1951, p. 52; di P. Gobetti in Coscienza liberale e classe operaia, Torino 1951, pp. 94-95 e passim; di C. Rosselli, in Liberalismo socialista, in La Rivoluzione liberale, 15 luglio 1924; di D. Mack Smith, Storia d'Italia dal 1861 al 1958, Bari 1959, pp. 560-561, 576-577, 581-582, 594-595 e passim. Sull'atteggiamento dell'A, verso i cattolici si vedano A. C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino 1948, passim; G. De Rosa, L'Azione Cattolica, I, L'Opera dei Congressi (1874-1904), Bari 1953, pp. 318-321 e passim, II, Dall'Enciclica "Il fermo proposito" alla fondazione del Partito Popolare (1905-1919), Bari 1954, pp. 228-232, 361-363 e passim; Id., Storia del Partito Popolare, Bari 1958, pp. 283-284 e passim. Sull'A., l'intervento e la guerra, cfr. O. Spellanzon, L'intervento nelle memorie di Luigi Albertini, in Quaderni di Cultura e Storia sociale, I (1952), pp. 62-64; G. Salvemini, Albertini 1914-15, in Il Mondo, 9 febbraio 1952; G. Quazza, Albertini, Giolitti e la guerra, in Il Mulino, I (1952), pp. 628-637. Sui rapporti dell'A, con l'Amendola, si veda G. Carocci, Giovanni Amendola nella crisi dello Stato italiano, 1911-1925, Milano 1956, pp. 38-42, 44-49, 59. Sull'A, e il fascismo, cfr. L. Emery, Il congresso del Partito Liberale, in La Rivoluzione Liberale, 19 ottobre 1922, ora in Antologia della Rivoluzione Liberale, cit., p. 482; A. Monti, Interventismo, neutralismo e fascismo, in La Rivoluzione liberale, 30 ott. 1923, ristampato in Antologia della Rivoluzione Liberale, cit. pp. 393, 396; U. Morra, Il signor Albertini, in La Rivoluzione Liberale, 22 aprile 1924; G. Salvemini, Benedetto Croce, Boston 1948, passim; A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo, Firenze 1950, pp. 391-392 e passim; A. Caiumi, I manutengoli, in Il Ponte, VII (195 ì), pp. 15, 76-80; O. Salvemini, I manutengoli del fascismo, ibid., VIII (1952), pp. 419-428.; N. Valeri, Organizzarsi o morire, in Il Mondo, 3 maggio 1955, Giolitti e Albertini, ibid.,17 maggio 1955, Borghesia e Quinto Stato, ibid., 31 maggio 1956, Da Giolitti a Mussolini, Firenze 1956, pp. 181-183 e passim; L. Salvatorelli-G. Mira, Storia d'Italia nel periodo fascista, Torino 1956, pp. 234-236, 413-414 e passim; F. Turati-A. Kuliscioff, Carteggio, VI, Torino 1959, passim. Sulle opere storiografiche dell'A. si vedano particolarmente F. Curato, La storiografia delle origini della prima guerra mondiale, in Questioni di storia contemporanea, I, Milano 1952, pp. 512-514, e P. Alatri, Interventismo, fascismo, resistenza nella recente storiografia, in Belfagor, IX (1954), pp. 62-67.