Avvocato, professore, uomo politico e magistrato, Luigi Borsari è una delle voci più rappresentative della cosiddetta paleocivilistica italiana. Giurista di vasti interessi e di solida preparazione tecnica, lega la sua fortuna scientifica all’importante Commentario del Codice civile italiano (1871-81). A lungo assimilato a un modello di giurista esemplato sul prototipo francese della ecole de l’exégèse, Borsari è stato oggetto negli ultimi anni di una crescente attenzione da parte della storiografia giuridica, che ha messo in rilievo la delicata opera di mediazione culturale svolta dal giurista ferrarese nel quadro degli imponenti processi di trasformazione che interessarono la penisola nel corso del 19° secolo.
Luigi Borsari nasce a Ferrara il 28 agosto 1804. Conseguita nel 1824 la laurea in giurisprudenza presso l’Università di Bologna, si dedica a tempo pieno alla professione forense, muovendo dall’incarico pubblico di 'difensore dei rei' (titolo con il quale a Ferrara era designato l’avvocato dei poveri) e distinguendosi ben presto per le sue doti di penalista. All’inizio degli anni Quaranta, la sua fama di avvocato guadagna rilievo nazionale grazie al patrocinio svolto nella celebre causa Bergando, che si conclude nel 1846 con la (clamorosa) assoluzione della propria assistita (D’Urso 2011, p. 410).
Salito alla cattedra di testo civile (ossia diritto romano) presso la pontificia facoltà di Giurisprudenza di Ferrara il 18 settembre 1845, Borsari partecipa attivamente alla nuova stagione politica italiana culminante nei moti del 1848, allineandosi alle posizioni del cattolicesimo liberale. Eletto alla Camera dei deputati romana il 15 giugno 1848, avvia un’intensa collaborazione con la «Gazzetta di Ferrara», dalle cui pagine oltre a perorare la causa dell’indipendenza nazionale, critica vivacemente l’indirizzo conservatore del governo pontificio, battendosi in modo particolare contro la censura ecclesiastica. Nello stesso anno dà alle stampe Una questione israelitica, un opuscolo di denuncia contro il trattamento discriminatorio riservato dalle leggi pontificie agli ebrei e ispirato a principi di libertà ed eguaglianza.
Incompatibili con l’orientamento politico del governo restaurato, le convinzioni liberali di Borsari determinano nel maggio del 1850, dietro provvedimento del Consiglio di censura, il suo allontanamento dall’insegnamento universitario. Tornato all’avvocatura – scelta obbligata, a conti fatti, più dall’indole naturale, che dalla ritorsione governativa –, Borsari pubblica i trattati sull’enfiteusi (Il contratto d'enfiteusi, 1850) e sulle ipoteche (Giurisprudenza ipotecaria dei vari Stati d'Italia, 1856), due veri e propri punti di riferimento per la riflessione civilistica del tempo. Nel 1859 declina l’offerta di Massimo d’Azeglio (allora Commissario regio per le Romagne) per il ministero di Grazia e giustizia, ma nel 1860 è deputato al Parlamento subalpino (VII legislatura), nonché docente di diritto processuale civile (dal 1860 al 1862) a Bologna. Nel frattempo, la collaborazione prestata al monumentale Commentario del codice di procedura civile per gli Stati sardi (6 voll., 8 tt., 1855-63) curato da Pasquale Stanislao Mancini, Giuseppe Pisanelli e Antonio Scialoja, si concretizza con l’uscita a stampa, nel 1861 – quale terzo volume dell’opera –, dell’importante Trattato delle prove.
La sopraggiunta unificazione legislativa del Regno d’Italia inaugura per Borsari una nuova importante stagione riflessiva. Con essa, infatti, la sua produzione scientifica tende a coincidere con quella di annotatore e commentatore di codici. Nell’arco di un buon quindicennio vedono la luce i commentari dei codici di procedura civile (1865), di commercio (1868-69) e il più importante e fortunato Commentario del Codice civile italiano (4 voll., 1871-81), intervallati soltanto dal trattato Della azione penale (1866), in cui si misura con uno dei temi più delicati di ambito processual-penalistico. Consigliere di Corte d’appello a Bologna e di Corte di cassazione a Torino e Firenze, muore a Ferrara il 19 aprile 1887.
Distesa lungo il trentennio che va dagli anni Cinquanta agli Ottanta del 19° sec., l’opera di Borsari costituisce una delle testimonianze più rappresentative di quel lungo periodo di transizione politica e giuridica che è l’Ottocento italiano. Di esso, la voce del giurista ferrarese riflette complessità e ambivalenze, convinzioni e incertezze, divenendo in qualche misura lo «specchio fedele e puntuale della grossa crisi di assestamento che la jurisprudentia subisce nel trapasso dall’antico regime al diritto codificato» (Grossi 1976-77, p. 206).
Qui sta in buona sostanza l’interesse che, ancora oggi, la pagina di Borsari suscita per la storia della cultura giuridica italiana. Nel fatto, cioè, che essa rappresenta, proprio per la sua intima trasparenza storica (per la sua irrimediabile ‘inattualità’, si potrebbe dire), un punto di riferimento essenziale per comprendere la complessa linea di trasformazione della penisola verso la modernità giuridica.
Sull’ideale terreno di confine che corre tra vecchio e nuovo si colloca, in primo luogo, l’interesse di Borsari in materia di enfiteusi e di regime ipotecario, punti d’avvio di una riflessione civilistica che si snoda coerente fino ai commentari degli anni Ottanta, e che rappresenta – nella pur ampia varietà degli interessi di ricerca coltivati – la parte più rilevante della sua vasta produzione.
Bersaglio di una classica invettiva individualistica e liberale, intesa ad accentuarne i profili di incompatibilità con il «rapido movimento del commercio della terra e colla necessità del credito fondiario» (A. Graziani, Del concetto storico e razionale della enfiteusi, «La Temi. Giornale di legislazione e di giurisprudenza», 1856, 5, p. 110), l’istituto dell’enfiteusi è recuperato da Borsari in nome dell’intima «forza delle cose», sulla convinzione che piuttosto nel «bisogno economico» che nella «ragione del legislatore» dovesse esserne individuato il reale fondamento (Il contratto d'enfiteusi, cit., p. XXXIV). In linea, dunque, con la riabilitazione promossa anni addietro da Pellegrino Rossi – tra i primi a rilevare polemicamente il silenzio interessato del Code Napoléon in materia –, il contratto enfiteutico può in tal modo essere sottratto alla necessaria fine del regime feudale che per secoli l’aveva avvinto, e valorizzato come «pianta che alligna in ogni secolo civile», che per nutrirsi non abbisogna d’altro che della semplice «associazione della materia e dell’opera, della proprietà e dell’industria» (pp. XXXIV-XXXVI).
Il bisogno che spinge Borsari a confrontarsi con il tema enfiteutico, è lo stesso che qualche anno più tardi lo induce a misurarsi con la disciplina ipotecaria: ossia la consapevolezza della necessità di ripensare l’istituto alla luce del «movimento universale del mondo economico, e […] dei progressi industriali» (Giurisprudenza ipotecaria dei vari Stati d'Italia, cit., p. 171). Muovendo da tali premesse metodologiche, Borsari individua nella tutela e nella promozione del credito fondiario la vera missione dell’ipoteca. Una finalità del tutto estranea al mondo romano e non sufficientemente valorizzata dagli ordinamenti giuridici moderni, che avrebbe dovuto guidare il processo di riforma legislativa dell’istituto (nel duplice senso di una progressiva emancipazione dal sistema francese e della corrispondente affermazione di un punto di vista ‘italiano’), e per mezzo della quale si sarebbe potuta realizzare la
combinazione felicissima per cui il capitale si sottrae dai pericoli del commercio adagiandosi nella terra senza immobilizzarsi con essa; laddove il proprietario, senz’abbandonare il retaggio degli avi […] può soddisfare i suoi bisogni più urgenti con la speranza di liberarsi dalla obbligazione nella comodità del tempo (p. 17).
Due campi di tensione percorrono l’opera borsariana: il primo, legato a ragioni biografiche e culturali (oltre che generazionali), corre lungo il confine che divide (e unisce) l’antico al moderno, l’educazione giovanile «alla scuola del diritto romano» (Commentario del Codice civile italiano, 1° vol., 1871, 1, p. 14) alla matura attività di commento ai codici unitari. Due percorsi tradizionalmente alternativi, i simboli stessi della spaccatura giuridica europea postrivoluzionaria, che nel giurista ferrarese incontrano un loro singolare punto di convergenza, il motivo di una efficace quanto transitoria saldatura.
Emblematica da questo punto di vista la riflessione di Borsari in tema di proprietà. La pagina borsariana non fa che esprimere una convinzione diffusa nella «paleocivilistica» italiana (Grossi 1976-77, p. 208): e cioè che «il diritto di godere e disporre della cosa nella maniera più assoluta» di cui parla il codice civile (art. 436), non esaurisca in realtà il fenomeno proprietario nella sua complessità storica, ma si limiti a definirne un modello astratto, archetipico, la cui assolutezza ideale si sarebbe dovuta confrontare necessariamente con le complicazioni della vita associata. In questo caso, la difficoltà a costruire uno schema giuridico di proprietà coerente con il suo archetipo filosofico-politico, quale era stato messo a punto dalla riflessione giusnaturalista, si traduce in una notevole opera di «relativizzazione» (Grossi 1976-77, p. 275) del fenomeno appropriativo, che lascia trasparire la persistente incombenza di una concezione di dominium tipicamente medievale.
È vero allora che la proprietà, intesa nel suo «concetto metafisico», non è che la manifestazione verso l’esterno del dominio (assoluto) che l’individuo ha di se stesso, l’espressione e la condizione essenziale della propria libertà e moralità. Al tempo stesso, però, «essendo un complesso di diritti», la proprietà «può suddividersi e separarsi, estrinsecando taluno di codesti suoi elementi costitutivi che formano altri rapporti giuridici non meno reali» (Commentario del Codice civile italiano, cit., 2° vol., 1872, § 843, p. 132). Ipoteca, servitù e usufrutto non sono così per Borsari meri iura in re aliena, come tali incapaci di intaccare l’essenza del fenomeno proprietario, ma vere e proprie restrizioni «intrinseche» del diritto di proprietà, che provocano la «disgregazione» di una parte degli elementi che la compongono e ne determinano la «imperfezione» (p. 132).
La dialettica rosminana tra ‘proprietà’ e ‘diritto di proprietà’, assunta da Borsari a fondamento teorico della propria operazione ermeneutica, realizza in sostanza una consapevole opera di mediazione culturale, grazie alla quale – fatto salvo, e riaffermato, il modello filosofico di proprietà – riesce a sopravvivere in pieno Ottocento codicistico una concezione essenzialmente de-tipicizzata del dominio, ancora ‘somma’ più che ‘sintesi’ di poteri, riunione occasionale di attributi aventi ciascuno la propria autonomia, ciascuno singolarmente la stessa natura dell’intero.
Lontana da quello stereotipo esegetico che ancor oggi è chiamato a identificare, in chiave storiografica, uno degli indirizzi dominanti della cultura giuridica ottocentesca (italiana ed europea), la pagina di Borsari presenta, dunque, le complessità e le ambivalenze tipiche dei periodi di transizione, divenendo rappresentativa delle oscillazioni teoriche di una generazione intera di giuristi. Attraverso il filtro di un sapere tecnico-giuridico e di uno strumentario concettuale figli entrambi della tradizione di diritto comune – che Borsari ha modo di consolidare nei lunghi anni di esercizio dell’avvocatura –, è la continuità tra passato e presente, tra codificazione e tradizione romanistica, piuttosto che l’idea della cesura epocale, a essere esaltata, attenuandosi di conseguenza «la rappresentazione di un ordinamento tutto da ricondurre alla sola volontà del legislatore» (Cazzetta 2004, p. 193). Borsari ha ben presente la critica storicistica contro il principio dell’onnipotenza legislativa, e non fatica ad ammettere con Friedrich Karl von Savigny
che il legislatore non adempie all’alta sua missione se non ritraendo il diritto che già preesiste nella pubblica coscienza dal suo stato di mera apprensione scientifica al grado di statuto obbligatorio (Commentario, cit., 1° vol., p. 12).
Allo stesso tempo, però – in quanto capace di realizzare un’inattesa convivenza teorica tra codice e tradizione –, il richiamo storicistico alla continuità dei principi del diritto romano (comune) finisce per trasformarsi in un argomento efficace da opporre proprio ai seguaci di Savigny: a ben guardare, in fin dei conti, lungi dall’essere «l’atto puro di una volontà sfrenata» diretta a «distruggere la scienza», «la codificazione tanto avversata dalla scuola storica è […] antica e parte sostanziale della storia» stessa (pp. 8-12).
È a quest’altezza teorica, dove ontologismo rosminiano (e vichiano) e storicismo di matrice savigniana si uniscono a sorreggere, contro il culto illuministico della volontà del legislatore, il culto risorgimentale della razionalità dei principî del codice, che sul discorso borsariano si innesta un secondo grande campo di tensione. Legato a quella ardente passione per l’indipendenza italiana che i rivolgimenti del 1848 scatenano nel giovane giurista ferrarese, esso si manifesta sottoforma di una costante valorizzazione del nesso tra diritto e identità nazionale. Un obiettivo di ricerca condiviso da buona parte della scienza giuridica coeva, che in Borsari esprime, accanto a un’esigenza tutta culturale di emancipazione dal modello francese, l’aspirazione generazionale a quella uniformità di diritto che è vista come esito necessario dello stesso movimento risorgimentale.
Va letta in questa chiave l’attenzione che Borsari riserva al problema del metodo. Sottrarsi al modello francese, e far emergere una specificità giuridica ‘italiana’, non significa respingere tout court l’approccio esegetico. Il codice stesso, del resto, «procedendo con metodi non essenzialmente scientifici trascina, a così dire, il commentatore, e gli toglie in certo modo la libertà del metodo» (Commentario, cit., 1° vol., p. 17). Significa al contrario, saper «sposare al Codice la scienza»; tenersi egualmente distanti «da un particolarismo empirico e gretto, e da un teorizzare vago e astratto», secondo quel tipo di saggezza misurata che «distingue il nostro senno pratico e positivo» (Giurisprudenza ipotecaria, cit., pp. 8, 11).
Eccentrico rispetto al più battuto itinerario civilistico, ma coerente con l’obiettivo di definizione di un’identità giuridica nazionale, è infine il volume che Borsari dedica allo studio dell’azione penale (Della azione penale, 1866) e che costituisce l’ultima opera a carattere monografico della sua produzione. In questo caso, il desiderio di offrire «una nobile e salutare reazione del genio italiano onde […] cessi il bisogno assoluto, il bisogno tirannico che ci siamo formati, dei libri francesi» (p. 10), si traduce in una vera e propria opera di smontaggio del punto di vista ‘francese’ in materia, identificato per l’occasione con il Traité de l'action publique et de l'action civile en matière criminelle (1837) di Jean-Henri-Claude Mangin. La conclusione di Borsari è inequivocabile: il principio di cui all’art. 68 dello Statuto albertino, in base al quale «la giustizia emana dal re – è fuori delle nostre tradizioni nazionali» (Della azione penale, cit., p. 193). La genesi della formula andava ricercata, al contrario, proprio in Francia, coerente con un’idea di azione penale come «atto di parte» (e vicina all’antica immagine della vindicta), che sopravviveva nell’ordinamento italiano per «quella poca avvertenza che si usa quando si copia», ma che doveva ritenersi ormai incompatibile con i principi di un moderno Stato costituzionale.
Per me, esistendo uno Stato costituzionale, uno Stato fondato nel diritto, l’azione penale pubblica non è esercitata nell’interesse di nessuno, neppure nell’interesse della società […]: il pubblico Ministero non è l’agente della società, come sempre si dice, non fa gli affari della società, nei giudizii penali. Tutto questo è nel diritto e nel solo scopo del diritto; il pubblico Ministero è un magistrato della giustizia, come il giudice stesso (p. 186).
Periferiche rispetto ai temi caldi del dibattito giuridico ottocentesco e agli stessi interessi prevalenti del giurista ferrarese, le consapevoli ed equilibrate riflessioni di Borsari in tema di giustizia e azione penale, paradossalmente, sono tra quelle che più hanno retto all’usura del tempo, che a distanza di un secolo e mezzo dalla loro redazione sono tornate di maggiore attualità e interesse. Riportate in vita, si potrebbe dire, da un dibattito politico raramente altrettanto equilibrato e consapevole.
Una quistione israelitica, Ferrara 1848.
Il contratto d'enfiteusi, Ferrara 1850.
Giurisprudenza ipotecaria dei vari Stati d'Italia, che comprende le legislazioni dello Stato pontificio, del Regno lombardo-veneto, del Regno delle due sicilie [...], Ferrara 1856.
Trattato delle prove, 3° vol. del Commentario del Codice di procedura civile per gli Stati sardi, a cura di P.S. Mancini, G. Pisanelli, A. Scialoja, Torino 1861.
Il Codice italiano di procedura civile annotato per cura del cavaliere Luigi Borsari, Torino 1865.
Della azione penale, Torino 1866.
La pratica del Codice di procedura civile italiano, ossia Formolario degli atti giudiziarii più importanti nei procedimenti civili e commerciali, Torino 1867.
Parole alla giovine curia, «Gazzetta ferrarese», 26 ottobre 1868; rist. Ferrara 1868.
Codice di commercio del Regno d'Italia annotato da Luigi Borsari, 2 voll., Torino 1868-1869.
Commentario del Codice civile italiano, 4 voll., 6 tt., Torino-Roma-Napoli 1871-1881.
Conferenze sul diritto costituzionale tenute nella libera Università di Ferrara il 22, 29 dicembre 1878 e 5 gennajo 1879, Ferrara 1879.
E. Vidari, Necrologio di Luigi Borsari, «Il Filangieri», 1887, 12, p. 256.
Necrologio, «Annuario della libera Universita di Ferrara», 1887-88, pp. 10 e seguenti.
G. Turbiglio, Commemorazione di Luigi Borsari, in Quinto Centenario di fondazione della libera università di Ferrara. Relazione delle feste celebrate in Ferrara nell'Aprile 1892 e discorsi accademici, Ferrara 1892, p. 119.
L. Scolari Sellerio Jesurum, Borsari Luigi, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 13° vol., Roma 1971, ad vocem.
P. Grossi, Tradizioni e modelli nella sistemazione post-unitaria della proprietà, «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 1976-77, nr. monografico: Itinerari moderni della proprietà, tomo I, pp. 202-338.
G. Franceschini, Luigi Borsari nel centenario della morte, «Atti dell'Accademia delle scienze di Ferrara», 1986-88, pp. 247 e seguenti.
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