Calabresi, Luigi
Nacque a Roma il 14 novembre 1937. Era il terzo figlio, dopo Adele e Wanda, di Paride, negoziante di vini e olii originario di Velletri, e di Amalia Podagrosi, casalinga di Ferentino. Nella capitale frequentò le scuole elementari all'Istituto Angelo Mai e le scuole superiori al San Leone Magno, ma completò il ciclo scolastico al liceo statale Giambattista Vico conseguendo la maturità da privatista nel luglio del 1958. Dalla famiglia ricevette una solida educazione cattolica, soprattutto dalla madre, desiderosa di farne un sacerdote. Frequentando la chiesa di Santa Pudenziana e le associazioni giovanili che lì si riunivano, ebbe modo di conoscere il gesuita Virginio Rotondi, uno dei più stretti collaboratori di Pio XII, che lo introdusse al movimento religioso Oasi – pensato come braccio spirituale da affiancare ai comitati civici di Luigi Gedda – del quale Calabresi fu membro attivo. Nel 1964 Rotondi lo affidò al suo stretto collaboratore don Ennio Innocenti, futuro confessore e punto di riferimento spirituale costante di Calabresi.
Nel febbraio del 1965 si laureò in giurisprudenza all'Università La Sapienza di Roma, discutendo una tesi sulla mafia con la votazione di 88/110; di lì a poco vinse il concorso per vicecommissario di Pubblica sicurezza e iniziò la sua carriera il 1° marzo 1966.
Nel novembre del 1966, partecipando al 46° corso di formazione per commissario di Pubblica sicurezza (PS), intervenne pubblicamente per dar conto dei motivi che lo avevano spinto a entrare in polizia e illustrare la sua linea d’azione. L'intervento fu registrato (Calabresi chiese di non essere nominato e le sue parole furono attribuite a un inesistente Luca Revel) e pubblicato nello stesso anno sulla rivista Epoca (n. 816). L’intervento – dal quale trapelava una forte dimensione religiosa e un cattolicesimo tradizionale e radicato – sarebbe stato ripubblicato dai giornali all’indomani della sua morte, divenendo noto come il 'testamento Calabresi'.
Dopo il periodo di prova cercò di ottenere un incarico a Roma o nel Lazio ma, stante il divieto di assegnare i funzionari di PS alle province di origine, dovette spostarsi, nell’agosto del 1966, al commissariato Monforte di Milano e, due mesi dopo, all'Ufficio politico della Questura centrale su richiesta del dirigente Luigi Fragnoli. Le sue prime importanti indagini riguardarono gli attentati dinamitardi compiuti a Milano tra il marzo del 1968 e la prima metà dell’anno successivo (alla Down Chemical, alla Citroën, allo stand Fiat alla Fiera di Milano con diciannove feriti, all’Ufficio cambi della Banca nazionale delle comunicazioni presso la Stazione centrale di Milano), durante le quali maturò la convinzione – destinata a consolidarsi nel tempo – di un coinvolgimento attivo degli anarchici.
Nel processo per gli attentati – i cui responsabili sarebbero poi stati individuati nei neofascisti Franco Freda e Giovanni Ventura – Calabresi fu accusato di subornazione di una teste, Rosemma Zublena, e l’Ufficio politico e Calabresi stesso di minacce e percosse durante gli interrogatori. Il 28 maggio 1971 la seconda Corte d’assise di Milano assolse con formula piena gli imputati dagli attentati del 25 aprile alla Fiera e alla Stazione centrale, che implicavano il reato di strage, ma li condannò per detenzione di esplosivo, fabbricazione di ordigni esplosivi, pubblica intimidazione tramite materie esplodenti, porto di esplosivi in luogo pubblico; contestualmente respinse le accuse a Calabresi e all’Ufficio politico (Archivio di Stato di Milano, Tribunale ordinario di Milano, Corte d’Assise, sentenza n. 42, 28 maggio 1971, registro generale n. 65/1970, b.10). Dopo la sentenza del 7 aprile 1976, con cui la Corte d'assise di appello confermò la sentenza riducendo le pene a tutti gli imputati, il caso fu definitivamente archiviato il 2 dicembre 1977, con la dichiarazione della Cassazione sull'inammissibilità del ricorso degli imputati.
Nel 1968 Calabresi aveva incontrato Gemma Capra, figlia dell’imprenditore tessile Mario. Si sposarono il 31 maggio 1969, con quattro celebranti tra i quali Virginio Rotondi, e il questore di Milano Giuseppe Parlato come testimone. Dopo il viaggio di nozze in Spagna e in Portogallo – solo viaggio all’estero registrato sul suo passaporto – Calabresi riprese servizio il 21 giugno. Dal matrimonio nacquero tre figli: Mario (1970), Paolo (1971) e nel dicembre del 1972, a pochi mesi dall’uccisione del padre, Luigi.
Nel maggio 1968 Calabresi fu promosso commissario aggiunto. Nei primi anni a Milano emerse come una figura di 'poliziotto nuovo', sia per l’aspetto, curato anche nell’abbigliamento, sia per una modalità di gestione dei conflitti orientata al dialogo. Quest’attitudine, riconosciutagli anche da una parte del Movimento studentesco, fu esemplificata dalla foto, pubblicata dai giornali, nella quale Calabresi era intento a mettere in salvo Mario Capanna, dirigente del Movimento, dalla rabbia dei poliziotti durante i funerali dell’agente di PS Antonio Annarumma, ucciso il 19 novembre 1969 a Milano in una manifestazione (Capannna, 1988, pp. 81 s.).
Benché le fonti ministeriali non forniscano ulteriori elementi su questa fase della sua attività, e non siano disponibili presso la Questura di Milano, si possono identificare tre principali filoni di indagine. Calabresi seguì le indagini collegate alla morte di Giangiacomo Feltrinelli; fu, anzi, il primo a identificarne il corpo dopo essersi presentato «inaspettato e non graditissimo ospite» nella caserma di via Moscova e aver imposto la presenza della polizia nell’inchiesta (Giannuli, 2008, p. 173). Fu, contestualmente, coinvolto nelle indagini che portarono alla scoperta del covo dei Gap (Gruppi di azione partigiana) di Via Subiaco 7 e nelle prime inchieste sulle Brigate rosse. Poco prima di morire, infine, compì una serie di viaggi in Friuli-Venezia Giulia e in Svizzera per indagare su un traffico di armi con i paesi dell’est, in funzione di contrasto alla diffusione del comunismo; una vicenda che anni dopo sarebbe stata ricondotta al progetto Gladio. Secondo la moglie, soprattutto le inchieste sul traffico di armi avrebbero poi indotto Calabresi a maturare altre convinzioni sulle sue indagini.
Nelle sue memorie, infatti, Gemma Capra sottolinea la ritrosia del marito a parlare del proprio lavoro, con l’eccezione della vicenda Pinelli: in quella circostanza non solo la mise a parte delle tensioni con i propri superiori, ma lamentò di esser stato lasciato solo a gestire il processo e la campagna di stampa per una responsabilità che riteneva non sua. Calabresi, in particolare, le aveva confidato i propri dubbi sulla partecipazione di funzionari dello Stato agli attentati: «Gemma, ricordalo: menti di destra, manovali di sinistra» (Capra, 1990, p. 54). Questo aspetto ha acquisito rilievo nella recente letteratura che, pur continuando a contestare il ruolo di Calabresi nella gestione delle indagini sulla strage di Piazza Fontana e sulla morte di Giuseppe Pinelli, lo ha considerato una vittima inconsapevole del meccanismo volto a contrastare l’ascesa delle sinistre nella prospettiva della cosiddetta 'strategia della tensione'.
Il 12 dicembre 1969 Calabresi fu tra i primi a entrare nel salone della Banca nazionale dell’agricoltura di Piazza Fontana dopo l’esplosione della bomba che aveva causato la morte di tredici persone in quel giorno e di diciassette complessivamente, e il ferimento di ottantasette. Incaricato delle indagini, privilegiò da subito la matrice anarchica, convinto che la qualità dei bersagli scelti dagli attentati di quei mesi indicasse una simbologia nemica propria della sinistra. Questa interpretazione divenne pubblica il 15 dicembre, quando Stampasera scrisse: «Il dottor Calabresi, funzionario dell’ufficio politico della questura, ritiene che i responsabili dell’attentato siano anarchici o cinesi. Dice "è una forma di sterilità politica, un segno di impotenza che sta proprio ad indicare fazioni o gruppi che diversamente non riescono a farsi strada"» (R. Lugli, Milano città sgomenta, in Stampasera, 15 dicembre 1969). L’eco delle parole di Calabresi, intese come la posizione della Questura, fu rilevante e suscitò forti reazioni a partire dalla dura presa di posizione di Antonio Giolitti, la sera stessa nel telegiornale del secondo canale Rai. Fu questa una delle prime occasioni in cui nello spazio pubblico Calabresi si trovò a incarnare il volto di quello Stato al quale una larga parte dell’opinione pubblica attribuiva la responsabilità sostanziale della strage di Piazza Fontana. La scelta di indirizzare le indagini principalmente, se non esclusivamente, verso il movimento anarchico era interpretata come volta a offuscare la ricerca dei veri colpevoli. E in termini analoghi fu letta la morte di Pinelli (avvenuta in modalità mai chiarite): ulteriore esempio di impunità delle istituzioni dello Stato e dei suoi uomini.
Da questo punto di vista, per quanto separate, la biografia di Calabresi non può essere distinta da quella di Pinelli e dalla sua morte. Pinelli e Calabresi si conoscevano da tempo, anche se la qualità del rapporto è stata ed è tutt’oggi oggetto di discussioni e polemiche. Alcuni, come Marco Pannella nell’audizione alla Commissione stragi del 28 gennaio 1998 (Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, 29° seduta, 28 gennaio 1998), ne hanno parlato quasi come di un’amicizia, altri come di semplice conoscenza (Sofri, 2009, p. 27). Le parole di Gemma Capra e di Licia Rognini, vedova di Pinelli, confermano una relazione di stima e di rispetto reciproco, pur da posizioni politicamente contrapposte. Nel Natale del 1968 si erano scambiati dei libri: Calabresi aveva regalato a Pinelli Mille milioni di uomini di Enrico Emanuelli, ricevendo da Pinelli L'antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. Durante il processo intentato al giornale Lotta continua in seguito alla querela di Calabresi del 20 aprile 1970, lo stesso Calabresi rivendicò l’amicizia con Pinelli suscitando «incidenti», secondo uno dei telegrammi del prefetto Libero Mazza coi quali quasi quotidianamente il Dipartimento sicurezza della Presidenza del consiglio veniva informato sull’andamento del processo e sulle presenze di pubblico in aula e nell’edificio (udienza del 15 ottobre 1971).
La sera stessa della strage Calabresi e il suo superiore Antonino Allegra decisero di interrogare Giuseppe Pinelli, pur convinti che non fosse direttamente coinvolto, ma ritenendo che avesse o avrebbe potuto avere informazioni utili sugli ambienti in cui l’attentato era stato pensato e organizzato, permettendo così di identificarne gli autori. Pinelli, che aveva ripetutamente incontrato Calabresi, si convinse a seguire in motorino l’automobile degli inquirenti fino alla Questura per quello che gli era stato presentato come un interrogatorio rapido.
Quarantunenne, sposato con due figlie, dipendente delle Ferrovie dello Stato, era una delle figure di primo piano del movimento anarchico milanese. Il suo fermo fu prolungato e illegale: superò le 48 ore senza essere confermato dall’autorità giudiziaria e si svolse in condizioni di fortissima pressione psicologica, senza che Pinelli potesse mangiare, né dormire. Nella notte tra il 15 e il 16 dicembre, Pinelli precipitò dalla finestra dell’ufficio di Calabresi dove era in corso l’interrogatorio, al quinto piano del palazzo della Questura. Trasportato agonizzante all’Ospedale Fatebenefratelli, morì poco dopo.
In un clima segnato dal trauma della strage di Piazza Fontana, un evento di per sé periodizzante nella storia repubblicana, la morte di Pinelli rafforzò la convinzione di larga parte dell’opinione pubblica che lo Stato e i suoi esponenti fossero soggetti attivi nel duro conflitto politico che attraversava l’Italia di quegli anni, disposti a muoversi al di fuori della legge, sicuri della propria impunità. Mentre Piazza Fontana fu considerata come una 'strage di Stato', secondo il titolo di un fortunato e influente libro di inchiesta pubblicato nel giugno del 1970 dalla casa editrice Samonà e Savelli (La strage di Stato: controinchiesta), la morte di Pinelli fu ricondotta alla responsabilità quasi esclusiva di Calabresi.
La convinzione di un coinvolgimento diretto delle istituzioni e dei suoi uomini fu acuita dalle ricostruzioni fornite dalla Questura per spiegare la morte di una persona fermata durante un interrogatorio nei propri locali. Mentre Pinelli era agonizzante in ambulanza verso l’ospedale, il questore di Milano Marcello Guida sostenne pubblicamente la tesi del suicidio, affermando che Pinelli «era fortemente indiziato di concorso in strage […] il suo alibi era crollato […], è stato un gesto disperato […] una specie di autoaccusa […] si è visto perduto» (Dondi, 2015, p. 187).
La spiegazione di Guida, che legava direttamente la morte di Pinelli all’attentato di Piazza Fontana attribuendo il suicidio alla consapevolezza del ferroviere quanto al coinvolgimento degli anarchici nella strage, era stata avallata in maniera più o meno esplicita dai due dirigenti che avevano gestito direttamente il fermo e l’interrogatorio di Pinelli: il commissario capo Antonino Allegra e il suo vice commissario Calabresi. Questa ricostruzione fu subito contestata dalla stampa, che sottolineò le vistose lacune e contraddizioni considerandole espedienti per garantire la copertura e l’impunità di Calabresi, benché non fosse il dirigente di più alto grado dell’Ufficio che aveva gestito il fermo e l’interrogatorio. Tale identificazione era riconducibile soprattutto a tre fattori: in primo luogo alla personale conoscenza di Calabresi che poté facilmente convincere Pinelli a seguire l’automobile degli inquirenti in Questura per quello che gli era stato presentato come un interrogatorio rapido e che non si rivelò tale; in secondo luogo, fu Calabresi a condurre l’interrogatorio, insieme ad altre cinque persone, ovvero gli agenti di PS Vito Panessa, Giuseppe Caracuta, Carlo Mainardi, Pietro Mucilli e il tenente dei carabinieri Savino Lograno; infine, era quello di Calabresi l’ufficio dal quale Pinelli precipitò.
L’idea di uno Stato connivente con i suoi uomini trovò forza nel maggio del 1970, quando il pubblico ministero Giovanni Caizzi chiuse le indagini preliminari con un’istanza di archiviazione dell’intera istruttoria sulla morte di Pinelli, quale fatto del tutto accidentale. Poche settimane dopo, il 3 luglio, il giudice istruttore Antonio Amati accolse tale istanza con un decreto di impromovibilità dell’azione penale.
Questa duplice decisione, che dal punto di vista giudiziario chiudeva il caso, ne segnò al contrario la fragorosa riapertura dal punto di vista politico e può essere considerata come un passaggio decisivo nella vicenda, anche biografica, di Calabresi, perché saldò insieme la campagna di contestazione del ruolo e dell’azione dello Stato nella strage di Piazza Fontana con la personalizzazione di Calabresi quale unico riconoscibile responsabile della morte di Pinelli, segnando in questi termini l’avvio della fase più dura e organizzata della campagna di stampa contro di lui. Attraverso vignette e articoli Calabresi divenne il 'commissario defenestratore', 'l’assassino' di Pinelli, agente dei servizi segreti, probabilmente il poliziotto più noto e detestato d’Italia. La campagna dai giornali si estese rapidamente a una sfera più ampia, coinvolgendo artisti e intellettuali e arrivando alla mobilitazione di consigli comunali, consigli scolastici, assemblee studentesche, associazioni e movimenti vari che in tutt’Italia presero posizione contro 'l’assassino' Pinelli. L’Unità scrisse che «in molti ambienti lo chiamano commissario uomo beat della Cia, probabilmente a causa di un lungo soggiorno negli Usa del funzionario con scopi non chiari» (11 gennaio 1970), e Lotta continua sostenne che Calabresi avesse compiuto un viaggio in America nel 1966 e frequentato un corso della Cia e che nel 1967, all’arrivo in Italia del generale Edwin A. Walker, legato alla destra razzista americana, gli avesse fatto «da gorilla e da accompagnatore nei salotti Sifar-Sid e gli presenta alcuni colleghi generali, quali Aloia e De Lorenzo» (n. 5, 21 febbraio 1970). Ancora nel 1988 questa tesi era diffusa e radicata nell’opinione pubblica, tanto che in un fortunato saggio sulla storia del terrorismo in Italia Calabresi era presentato come «poliziotto cresciuto alla scuola della Cia» (Bocca, 1988, p. 92). Il suo nome in realtà era stato confuso con quello di Lorenzo Calabrese, già questore di Milano e direttore dell’Ufficio affari generali, uomo molto vicino ai servizi segreti. La sovrapposizione tra i due sarebbe stata indotta da un’agenzia giornalistica vicina al direttore dell’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno Federico Umberto D’Amato e poi rilanciata dalla stampa (Giannuli, 2008, pp. 186 s.); peraltro, una confusione tra i due nomi fu riproposta negli stessi atti giudiziari, nei quali il commissario Calabresi era frequentemente indicato come Calabrese (come nel processo per gli attentati del 1968 e del 1969).
La campagna di stampa si inseriva in una più generale modalità di indagine della 'controinformazione', che contestava le verità istituzionali e le ricostruzioni della strage fornite dalle istituzioni e dai partiti istituzionali con l’obiettivo di identificare i veri attori, responsabili e moventi di quella che sarebbe poi stata definita 'strategia della tensione'. In questa prospettiva, la campagna contro Calabresi per molti motivi rappresentò un salto di qualità nel conflitto politico-mediatico. Il nemico non era più una figura astratta come lo Stato o la classe, ma diventava una persona fisica, reale, tangibile, che poteva essere concretamente raggiunta attraverso le informazioni personali che il giornale cominciò a pubblicare: indirizzo dell’abitazione, tragitti usuali, luogo di lavoro, numeri di telefono (cfr. Panvini, 2008; Dondi, 2015). La controinformazione finì per elaborare una sorta di canone, di stile di costruzione e diffusione delle notizie, che pur veicolate principalmente al di fuori dei canali istituzionali, ebbe un ruolo significativo nel dibattito pubblico, con forte presa sull’opinione pubblica, e si manifestò soprattutto in due testi influenti. Da una parte il pamphlet La strage di stato: controinchiesta, scritto dal Collettivo di controinformazione su piazza Fontana, introdusse la differenza morale e di valore tra Calabresi e il suo superiore Allegra: il primo negativo in quanto uomo della Cia, il secondo commissario buono, perché mosso da dubbi ma reso impotente dalla costante presenza negli interrogatori del brigadiere Vito Panessa, uno dei collaboratori più fedeli di Calabresi. Il secondo pamphlet importante per la costruzione mediatica della figura di Calabresi fu Pinelli. Una finestra sulla strage, pubblicato dall’editore Feltrinelli nell’ottobre del 1971 e firmato dalla giornalista Camilla Cederna, che fin dall’inizio aveva seguito l’intera vicenda per il settimanale L’Espresso. Questo libro, che ebbe un immediato riscontro di pubblico vendendo circa 60.000 copie, presentava una dettagliata ricostruzione della morte di Pinelli, capace di identificare punti deboli o non chiariti dell’indagine, ma soprattutto contribuì in maniera determinante a costruire un'immagine del commissario come il colpevole attraverso il registro della contrapposizione di valori e caratteri. Da una parte Pinelli era presentato come un eroe sostanzialmente positivo, «esuberante, giovane, eccessivo, un personaggio del passato, un po' sul tipo degli operai che leggevano Gorki […] paziente, candido, povero come gli uccelli dell'aria, solido negli affetti, alieno dalla violenza»; dall’altra, Calabresi appariva: «uomo abile, furbo abituato a muoversi con autorità superiore al suo rango, ginnasticato, ambiguo» (Cederna, 1971, pp. 31-33). Il tratto sul fisico era già comparso nella commedia Morte accidentale di un anarchico, scritta da Dario Fo sulla vicenda di Pinelli e messa in scena per la prima volta il 5 dicembre 1970, laddove a rappresentare Calabresi era il commissario Sportivo. In termini analoghi, Lotta continua fece un impiego sistematico di «un lessico, anche figurativo, violento e denigratorio. L’elencazione dei dati biografici dei tratti somatici e caratteriali dell'avversario delinea[va], utilizzando un registro caricaturale e al tempo stesso moraleggiante, l'identità del colpevole», che promosse una contrapposizione etica e morale prima che politica tra le due figure: «da un lato l’umana probità del rivoluzionario Pinelli, dall’altro la cinica falsità del commissario Calabresi, carrierista senza scrupoli e servo dei potenti» (Armani, 2010, pp. 47 s.). A questa contrapposizione etico-morale contribuì anche l’uscita del film Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri che, pur finito di girare e montare prima della morte di Pinelli, presentava una sbalorditiva somiglianza tra Calabresi e il protagonista Gian Maria Volonté, un dirigente di Pubblica sicurezza che uccide la propria amante ma, incarnando il potere, resta impunito.
Nella campagna di stampa il quotidiano Lotta continua si distinse per la durezza e crudezza del linguaggio, che avrebbe trovato l’apice nell’editoriale La posizione di Lotta continua, un commento alla morte di Calabresi pubblicato il giorno dopo l’omicidio e redatto da Adriano Sofri (cfr. Sofri, 2009, p. 209). Calabresi era presentato come uno degli «uomini che della violenza più spregiudicata hanno fatto la loro politica quotidiana di vita al servizio del potere» e il suo omicidio come «un atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia». Alla campagna di stampa parteciparono molti altri quotidiani e settimanali. Tra le testate giornalistiche fu particolarmente presente il settimanale L’Espresso, soprattutto attraverso la firma di Cederna, la quale quasi ogni settimana interveniva con analisi e articoli che contribuirono a dare ampia rilevanza sia alle critiche verso la ricostruzione della Questura e delle forze dell’ordine, sia all’identificazione di Calabresi quale responsabile della morte di Pinelli. In particolare, partendo dai risultati dell’autopsia di Pinelli, che avevano rivelato un’area ovolare alla base del collo e il segno di un’agopuntura nella piega del gomito, furono rilanciate due tesi che contestavano la versione ufficiale della Questura e che avrebbero avuto un notevole successo sulla stampa; furono poi riprese anche nel pamphlet di Cederna, menzionate nella denuncia di Licia Pinelli del luglio 1971 e discusse nel processo a Lotta continua. La prima, avanzata da Paolo Guzzanti sulle pagine de L’Avanti! del 4 aprile 1970 riteneva che l’ecchimosi sul collo di Pinelli fosse la prova che era stato ucciso da un colpo di karatè che gli aveva colpito il bulbo spinale. La seconda sosteneva che a Pinelli fosse stato iniettato un siero della verità per costringerlo a confessare drogato. Quest’ultima tesi trovò smentita nelle fotografie che mostravano l’ingresso in ospedale di Pinelli in barella con una flebo nel braccio, e la tesi del colpo di karatè fu contraddetta dall’inchiesta del 1975 del giudice Gerardo D’Ambrosio, dove i periti che avevano eseguito l’autopsia su Pinelli spiegarono che l’ecchimosi era una conseguenza frequente in cadaveri ospitati negli obitori, per la compressione della testa sul tavolo di marmo.
La durezza di tale campagna stampa ad personam in seguito è stata spiegata come una strategia dei dirigenti dell’organizzazione politica volta a indurre Calabresi a querelare il giornale in maniera tale da poter poi usare il processo per riaprire il caso Pinelli, che le decisioni di Caizzi e Amati avevano chiuso dal punto di vista giudiziario. Durante il processo, infatti, in quanto pubblico ufficiale accusato di reato nell’esercizio delle sue funzioni, Calabresi avrebbe dovuto dare facoltà di prova alla difesa del querelato e accettare le sue richieste di accertamenti fino ad allora negate, come la riesumazione del corpo di Pinelli. In questo modo il processo al settimanale si sarebbe trasformato in un processo a Calabresi e allo Stato. D’altra parte, Calabresi non arrivò subito alla scelta di denunciare il settimanale, perché si aspettava che fosse il ministero dell’Interno a farsi carico della sua difesa e a presentare la querela, mentre in realtà fu lo stesso Ministero a esercitare pressioni su Calabresi perché denunciasse Lotta continua, nonostante il parere contrario della magistratura milanese. Questa situazione generò tensioni tra Calabresi, Allegra e il Ministero (Archivio di Stato di Milano, Atti Strage Brescia, H-a, Consulenze Giannuli: Relazione tecnica alla Procura della Repubblica di Brescia, incarico 30 aprile 1998) e portò poi all’isolamento del commissario nella gestione del processo. Alla fine di aprile del 1970 Calabresì querelò Pio Baldelli, direttore responsabile di Lotta Continua, per falso e diffamazione. Nella querela a Lotta Continua, scrisse: «il sottoscritto […] non è mai stato collaboratore del giornale “La Giustizia”, non ha mai fatto un viaggio in America, non ha mai frequentato un corso di specializzazione presso la Cia, non ha mai fatto da accompagnatore (gorilla o non gorilla) al generale Edwin A. Walker, che non ha mai sentito nominare, né è mai stato con lui nei “salotti Sifar-Sid” né è mai stato presentato ai generali Aloia e De Lorenzo» (Capra, 1990, p. 86).
Il processo a Pio Baldelli iniziò il 9 ottobre 1970 e fu sospeso alla morte di Calabresi per riprendere nell’ottobre del 1976 ed essere rapidamente concluso con la condanna a un anno e tre mesi di reclusione. Fin da subito assunse quella valenza politico-mediatica cercata da Lotta Continua, che si manifestò anche nella tensione tra le opposte strategie degli avvocati, con le istanze della difesa finalizzate a riaprire il caso Pinelli e quelle del querelante, finalizzate a contrastarle anche attraverso l’affossamento del processo. I telegrammi che quasi quotidianamente, con la 'massima urgenza', il prefetto di Milano Mazza inviava al ministero dell’Interno e talvolta alla presidenza del Consiglio parlavano di un processo affollato, seguito attivamente da decine di persone: il 14 ottobre duecento persone seguirono la deposizione di Allegra, quando Calabresi depose furono «presenti in aula oltre centinaio elementi di parte interessata et in corridoio et atrii circa 500 medesima estrazione». Il giorno della Camera di consiglio le presenze, secondo la stessa fonte, arrivarono a mille, con incidenti come quelli che si verificarono il 15 ottobre, quando Calabresi parlò del suo rapporto con Pinelli.
Il processo ebbe un primo forte momento di tensione quando Michele Lener, avvocato difensore di Calabresi, presentò istanza di ricusazione del giudice Carlo Biotti, accusandolo di avergli anticipato privatamente la sua convinzione già definita sulle modalità della morte di Pinelli, ma mettendosi a sua disposizione in cambio di un appoggio per la promozione. La ricusazione di Biotti, accolta dalla Corte d’appello di Milano il 27 maggio 1971, apparve come uno stratagemma per fermare il processo e vanificare la richiesta di riesumazione della salma di Pinelli presentata dalla difesa di Baldelli. La Cassazione sospese il processo in attesa del procedimento disciplinare, che di lì a due anni si concluse con l’assoluzione di Biotti poi confermata negli altri gradi di giudizio. Quella decisione fu interpretata da buona parte dell’opinione pubblica come un’ulteriore dimostrazione della volontà e capacità delle istituzioni dello Stato di agire per garantire l’impunità dei propri uomini. Poche settimane dopo la sospensione del processo, insieme a un articolo di Camilla Cederna intitolato Colpi di scena e colpi di karate. Gli ultimi incredibili sviluppi del caso Pinelli, nella quale erano ripresentate le diverse tesi sulla morte di Pinelli, L’Espresso pubblicò una lettera aperta, inizialmente sottoscritta da dieci firmatari (Marino Berengo, Anna Maria Brizio, Elvio Fachinelli, Lucio Gambi, Giulio A. Maccacaro, Cesare Musatti, Enzo Paci, Carlo Salinari, Vladimiro Scatturin e Mario Spinella) e che nelle settimane successive raccolse l’adesione di oltre settecento personalità della cultura, della politica e del giornalismo, tra le quali Giorgio Amendola, Norberto Bobbio, Pierre Carniti, Lucio Colletti, Giulio Einaudi, Umberto Eco, Federico Fellini, Natalia Ginzburg, Luigi Nono, Giancarlo Pajetta, Natalino Sapegno, Mario Soldati, Bernardo Valli, Tiziano Terzani, Corrado Vivanti. La lettera era molto dura nel merito e nei toni e contestava aspramente tutti coloro che avevano guidato le istituzioni in questa vicenda. Contestava Calabresi come «chi porta la responsabilità» della fine di Pinelli, il giudice Biotti che aveva «inquinato» il processo «con i meschini calcoli di un carrierismo senile», il difensore Lener per aver nascosto «le trame di un’odiosa coercizione», ma anche il questore Guida e il suo «arbitrio calunnioso» e la «indegna copertura» concessa dai giudici Caizzi e Amati, e si concludeva con una «ricusazione di coscienza – che non ha minor legittimità di quella di diritto – rivolta ai commissari torturatori, ai magistrati persecutori, ai giudici indegni», con la richiesta di allontanamento di tutti loro (cfr. Sofri, 2009, p. 267 ss.).
Ad accentuare lo scontro politico arrivò nel giugno la promozione di Calabresi a commissario capo, di nuovo un evento letto quale prova dell’impunità delle istituzioni; il 5 luglio 1971 in un’interrogazione parlamentare al ministro dell’Interno Franco Restivo – presentata dai deputati socialisti Riccardo Lombardi e Michele Achilli – si chiese se la promozione fosse «conseguenza dei segnalati servizi resi all’onore e alla credibilità delle forze dell’ordine in occasione delle indagini relative alle bombe di Milano e alla morte di Giuseppe Pinelli, al processo intentato al prof. Pio Baldelli e allo scoppio di esplosivi alla fiera di Milano» (Archivio centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Dipartimento della Pubblica sicurezza, Direzione centrale del personale, Archivio generale, Archivio storico, b. 1985 (personale fuori servizio, Calabresi Luigi). Nell’appunto interno della Divisione personale al questore, datato 6 luglio, preparato per replicare all’interrogazione, la promozione era ricondotta al riassetto delle carriere degli impiegati civili (disposto con DPR 28 dicembre 1970 n. 1077) e ai requisiti posseduti da Calabresi che, ammesso alla procedura comparativa per l’avanzamento di carriera, aveva ricevuto questa valutazione: «ottimo con favorevoli giudizi analitici, nel corso della carriera gli sono state concesse tre parole di lode e tre gratifiche; non è in corso nei suoi confronti alcun procedimento penale o disciplinare» (Appunto del 6 luglio 1971).
Il 24 giugno Licia Rognini presentò una denuncia contro Calabresi, Pietro Muccilli, Savino Lograno, Panessa, Giuseppe Caracuta e Carlo Mainardi per omicidio volontario, sequestro di persona, violenza privata e abuso di autorità, e il 14 settembre il procuratore generale di Milano, Luigi Bianchi d’Espinosa, procedette all’azione penale contro Allegra e Calabresi contestando al primo l’abuso di potere e al secondo l’omicidio colposo perché, dopo aver gestito l’interrogatorio con «domande o contestazioni ad effetto», «ometteva a interrogatorio ultimato, di impartire le opportune disposizioni per la vigilanza e la custodia del fermato» (Divisione personale, 27 agosto 1971). In ottobre il giudice D’Ambrosio chiese di modificare l’accusa da omicidio colposo a omicidio volontario.
Nel 1975 l’inchiesta del giudice D’Ambrosio, nominato il 16 settembre 1971 giudice istruttore, chiuse le indagini stabilendo che Calabresi non era presente nella stanza al momento della caduta di Pinelli, sostenendo come improbabile la tesi del suicidio per mancanza di una plausibile motivazione e considerando invece probabile che la morte fosse dovuta a un «malore attivo» (Dondi, 2015, p. 188) dello stesso Pinelli, che escludeva il defenestramento. Le persone presenti nella stanza erano quindi prosciolte.
Nel marzo del 1972 il referente spirituale di Calabresi, Ennio Innocenti, si rivolse autonomamente a Giulio Andreotti, allora presidente del Consiglio, per chiedere il trasferimento di Calabresi ad altra sede, in considerazione delle crescenti minacce. Ma Calabresi scelse di non praticare questa via («Lo stato può anche scappare. Ma io non me lo posso permettere: che cosa direi domani ai miei figli? Che sono fuggito?», in Capra, 1990, p. 8). Sarà poi questo uno degli argomenti usati da Innocenti per sostenere l’avvio della beatificazione, in quanto consapevole scelta del sacrificio.
Il 17 maggio 1972 alle 9.15 Calabresi fu ucciso a pochi metri dalla sua abitazione, mentre si recava al lavoro, da un commando di due persone con due colpi di pistola alle spalle. Nei giorni successivi il luogo divenne «meta di un pellegrinaggio di migliaia di cittadini, una sorta di tempio non ufficiale» e i funerali, del 20 maggio, furono imponenti: «la bara, con il suo seguito di 200.000 persone passa davanti alla Questura di via Fatebenefratelli» (Foot, 2002, p. 643).
In un primo momento le indagini si indirizzarono verso gli ambienti di destra, legando il possibile movente alle ultime indagini di Calabresi sul traffico d’armi, ma senza riscontri, come le successive ipotesi che rimasero indefinite. Fu solo nel 1988 che le indagini ebbero una svolta clamorosa. Il 28 luglio di quell'anno, su mandato di cattura del giudice Antonio Lombardi, furono arrestati Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani, ex dirigenti di Lotta Continua, quali mandanti dell’omicidio e Ovidio Bompressi e Leonardo Marino, ex aderenti alla stessa organizzazione, come esecutori. L’impianto accusatorio si basava sul pentimento di Marino, che ricopriva la doppia veste di imputato e testimone. Il caso ebbe una fortissima eco mediatica e ripropose una frattura netta nell’opinione pubblica. L’iter processuale fu particolarmente complesso e lungo. Dopo sette livelli di giudizio, nel 1997 la Corte di Cassazione confermò in via definitiva la condanna di Bompressi, Pietrostefani e Sofri a ventidue anni di carcere e di Marino a undici, in ragione del riconoscimento di attenuanti generiche che portarono alla prescrizione del reato. Successive istanze di revisione del processo non furono accolte. Sofri ha finito di scontare la propria pena nel 2012, mentre a Bompressi è stata concessa la grazia per motivi di salute dal presidente della Repubblica nel 2006. Dopo aver scontato tre anni, Giorgio Pietrostefani si è reso latitante rifugiandosi in Francia, dove tuttora vive.
Calabresi morì a trentaquattro anni, con poco più di cinque anni di esperienza come funzionario di PS. Per buona parte la sua biografia non è distinguibile da quella di altri funzionari e dirigenti delle forze dell’ordine. Divenne una biografia pubblica, simbolica e rappresentativa di altro all’indomani della morte di Pinelli, quando il profilo individuale di Calabresi fu affiancato dal profilo pubblico, finendo per rappresentare qualcosa che andava al di là della sua biografia e delle sue responsabilità accertate: una stagione particolarmente complessa e irrisolta, come quella degli anni Settanta nel loro rapporto con la violenza politica. Da una parte, continuava a essere considerato il sostanziale responsabile della morte di Pinelli e come tale uno degli emblemi dello stragismo, dell’azione spregiudicata e impunita di parti delle istituzioni dello Stato nella lotta politica iniziato con Piazza Fontana e che, per quella strage come per quasi tutte le successive, non aveva portato alla piena identificazione dei responsabili di quella serie di attentati che dal 1969 all’inizio degli anni Ottanta colpirono l’Italia. Dall’altra, l’omicidio di Calabresi, per le sue modalità e per il significato simbolico e politico di cui era stato investito pubblicamente, fu considerato come l’omicidio politico che inaugurò la stagione degli anni di piombo e del terrorismo che di lì a poco avrebbe fatto dell’assassinio politico uno dei principali strumenti dell’azione delle organizzazioni armate.
In questi termini la memoria di Calabresi assunse fin da subito un rilievo politico conflittuale. Già nel 1972 il prefetto di Milano, Ferruccio Allitta Bonanno, a fronte delle varie richieste di commemorazione, che spesso avevano una marcata coloritura politica, sottolineava il rischio di una strumentalizzazione della figura di Calabresi e per questo in diverse occasioni la direzione generale di PS respinse le richieste di patrocinio. Nello stesso anno il sindaco di Milano Aldo Aniasi, che aveva partecipato ai funerali di Calabresi attirandosi le critiche di parte dell’opinione pubblica, rifiutò la richiesta di assegnargli una medaglia civica, considerando che quel riconoscimento doveva essere attribuito a chi aveva avuto l’approvazione di tutta la città (Foot, 2001, p. 205).
Nel primo anniversario dell’omicidio, cui partecipò il presidente del Consiglio Mariano Rumor, fu collocato un busto nella Scuola superiore di polizia e uno nell’atrio della Questura di Milano; in quella stessa occasione Gianfranco Bertoli, terrorista indicato da più fonti come infiltrato dei servizi segreti, rivendicando l’azione come vendetta per la morte di Pinelli lanciò una bomba nel cortile della sede della Questura, uccidendo quattro persone e ferendone cinquantadue. Nel 2007 fu avviata da don Ennio Innocenti, oggi vicino a movimenti politici dell’estrema destra, una campagna per l’avvio del processo di beatificazione di Calabresi, che si muoveva in una prospettiva religiosa radicalmente tradizionalista e pre-conciliare. Dopo aver avuto l'approvazione del cardinale Camillo Ruini, la causa di beatificazione fu esaminata dal cardinale di Milano Dionigi Tettamanzi che la ritenne prematura in quanto la figura di Calabresi aveva ancora un rilievo divisivo nella città di Milano.
Il 14 maggio 2004 il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi decorò Calabresi con la Medaglia d'oro al Merito civile alla memoria come vittima del terrorismo, consegnando la medaglia alla vedova, Gemma Capra. Il 17 maggio 2007 alla presenza del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano venne posta una targa commemorativa nell'aiuola di fronte al punto in cui fu ucciso, in via Francesco Cherubini.
Fonti su Calabresi sono in Archivio centrale dello Stato, Ministero dell’Interno; Archivio di Stato di Milano; Senato della Repubblica - Camera dei Deputati, Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi. Inoltre, La strage di stato. Controinchiesta, Roma 1970; C. Cederna, Pinelli. Una finestra sulla strage, Milano 1971.
G. Bocca, Gli anni del terrorismo. Storia della violenza politica in Italia dal '70 ad oggi, Milano 1988, p. 92; M. Capanna, Formidabili quegli anni, Milano 1988, pp. 81-93; G. Capra, Mio marito. Il commissario Calabresi. Il diario segreto della moglie dopo 17 anni di silenzio, a cura di Luciano Garibaldi, Milano 1990; L. Pinelli - P. Scaramucci, Una storia quasi soltanto mia, Milano 1982, passim; A. Sofri, Memoria, Palermo 1990; C. Ginzburg, Il giudice e lo storico. Considerazioni in margine al processo Sofri, Torino 1991; L. Marino, La verità di piombo. Io, Sofri e gli altri, Milano 1992, passim; A. Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione 1968-1978: storia di Lotta Continua, Milano 1998, ad ind.; P. Maurizio, Morte di un eroe cristiano. Il caso Calabresi, Roma 1998; J. Foot, La strage e la città: Milano e Piazza Fontana, 1969-1999, in La memoria contesa. Studi sulla comunicazione sociale del passato, a cura di A.M. Tota, Milano 2001, pp. 199-215; Id., Memoria e funerali. Da piazza Fontana a Enrico Baj, 1969-200, in Il Mulino, 2002, n. 4, pp. 640-648; A. Cazzullo, Il caso Sofri. Dalla condanna alla tregua civile, Milano 2004, passim; M. Calabresi, Spingendo la notte più in là. Storia della mia famiglia e di altre vittime del terrorismo, Milano 2007; M. Franzinelli, La sottile linea nera. Neofascismo e servizi segreti da piazza Fontana a Piazza della Loggia, Milano 2008; A. Giannuli, Bombe a inchiostro, Milano 2008, ad ind.; G. Panvini, “Lotta Continua” e i terrorismi di sinistra in Italia (novembre 1969 - marzo 1978), in I neri e i rossi. Terrorismo, violenza e informazione negli anni Settanta, a cura di M. Dondi, Nardò 2008, pp.126-165; J. Foot, Fratture d’Italia. Da Caporetto al G8 di Genova la memoria divisa del Paese, Milano 2009, passim; G. Panvini, Ordine nero, guerriglia rossa. La violenza politica nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta (1966-1975), Torino 2009, ad ind.; M. Sassano, Pinelli. La finestra chiusa. 40 anni dopo, Venezia 2009, ad ind.; A. Sofri, La notte che Pinelli, Palermo 2009, passim; B. Armani, Le parole del conflitto. Informazione, controinformazione e propaganda dal caso Pinelli all'omicidio Calabresi, in Storia e problemi contemporanei, 2010, 55, pp. 29-53; A. Cambria, Nove dimissioni e mezzo. Le guerre quotidiane di una giornalista ribelle, Roma, 2010, pp. 187-191; M. Dondi, L’eco del boato. Storia della strategia della tensione 1965-1974, Roma-Bari 2015; Luigi Calabresi: il santo il martire, a cura di E. Innocenti, Roma 2015, ad ind.; G. Fuga - E. Maltini, Pinelli. La finestra è ancora aperta, Paderno Dugnano 2016, ad indicem.