Farini, Luigi Carlo
Patriota e uomo politico (Russi, Ravenna, 1812 - Quarto di Genova 1866). Proveniente da una famiglia borghese di orientamento liberale, si iscrisse alla facoltà di Medicina di Bologna e fece parte della rappresentanza degli studenti costituitasi durante i moti del 1831. Dopo essersi laureato nel 1832, esercitò la professione medica nel Ravennate pubblicando studi scientifici sulla infezione malarica e sulla pellagra, ma non abbandonò gli interessi politici mantenendo i contatti con gli ambienti liberali e democratici. Compromesso nei moti romagnoli del 1843, fu costretto a fuggire a Marsiglia e poi a Parigi. Qui riprese l’attività scientifica e continuò l’attività politica grazie all’incontro con altri esuli, definendo sempre più le sue posizioni nell’ambito del liberalismo moderato. Tornò in Italia prima a Firenze, dove collaborò con la soprintendenza della sanità toscana, e poi nello Stato pontificio dopo la salita al soglio papale di Pio IX. Qui assunse la condotta medica di Osimo e si affermò come uno dei leader del liberalismo locale, rafforzando i suoi legami con gli esponenti più in vista del patriottismo liberale piemontese, toscano e romano (d’Azeglio, Minghetti, Pasolini) e riconoscendosi pienamente nel Programma per l’opinione nazionale italiana di d’Azeglio. In questo periodo Farini sviluppò anche un’intensa attività giornalistica e, eletto deputato nel collegio di Faenza, gli fu affidata la direzione generale della sanità e delle carceri nel governo guidato da Pellegrino Rossi che conservò anche dopo l’assassinio di quest’ultimo. Una volta proclamata la Repubblica, abbandonò Roma e, dopo un breve soggiorno a Firenze, si stabilì a Torino, che divenne la sua nuova patria, «paradiso di libertà e sicurezza». A Torino diede alle stampe la Storia dello Stato romano dal 1815 al 1850, subito tradotta in inglese da Gladstone e, ottenuta la cittadinanza piemontese, fu eletto deputato nel collegio di Varazze. Cavour lo volle come sostituto alla direzione del «Risorgimento». Nel 1851 divenne ministro della Pubblica istruzione, pur tra qualche polemica, nel governo d’Azeglio. Convinto sostenitore della politica cavouriana assunse nel 1853 la direzione del «Parlamento» e poi del «Piemonte» che tenne fino al 1856, collaborando anche con alcune testate straniere come il «Morning Post» e la «Continental Review». Con la sua oratoria vulcanica difese le posizioni di Cavour contro le polemiche dei democratici dai banchi del Parlamento, ma non partecipò al governo per non urtare la suscettibilità municipalistica dei piemontesi. Redasse il discorso con cui il re aprì la sessione parlamentare del 1859 e, iniziata la guerra con l’Austria, nel giugno fu nominato governatore delle province modenesi, dopo l’allontanamento del duca di Modena. Convinto che l’annessione al Piemonte fosse la linea giusta da seguire per l’unificazione italiana, svolse un ruolo decisivo, analogo a quello di Ricasoli in Toscana, nel far prevalere questa scelta che sarebbe stata poi adottata anche per le regioni meridionali. Farini infatti si dimise dopo l’armistizio di Villafranca, ma non lasciò Modena e si fece proclamare dittatore dell’Emilia, conducendo in porto con grande abilità l’annessione. L’energia di cui aveva dato prova in quei mesi suscitò ampi consensi intorno alla sua persona; e ciò gli valse, nel gennaio 1860, la nomina a ministro dell’Interno nel gabinetto Cavour. Poté così preparare i plebisciti che, nel marzo, sancirono definitivamente l’annessione. Eletto di nuovo deputato, scrisse il discorso del re per l’apertura della legislatura e si impegnò nel progetto di un decentramento regionale (mai attuato) in cui voleva fosse riconosciuto lo spirito di iniziativa dei poteri locali. Ebbe contatti con gli organizzatori della spedizione dei Mille e si guadagnò, se non il consenso, la tolleranza all’impresa da parte di Napoleone III. Entrati i piemontesi a Napoli, Farini fu nominato luogotenente generale delle province napoletane, ma, nonostante l’esperienza maturata in Emilia, la sua azione, in un contesto reso difficile dai duri contrasti fra le diverse forze in campo si fece incerta. Riuscì comunque a varare diversi importanti provvedimenti, ma si sentì presto sommerso dalla gravità dei problemi «Ho trecento carabinieri e trentamila ladri [..]; ho distretti interi in balia dei briganti e non ho soldati da mandarci, ho centomila postulanti d’intorno, garibaldini che ringhiano [..] e credete che io possa speculare la perfezione delle leggi civili e l’euritmia dell’annessione?» Afflitto da problemi di salute e colpito da lutti familiari, nel gennaio 1861 lasciò Napoli. Eletto ancora una volta deputato, fu chiamato a formare il governo nel dicembre 1862 e lo resse fino al maggio 1863 quando, gravemente malato, si ritirò dalla vita politica. Morì, vittima di un progressivo declino mentale, in condizioni di indigenza, tanto che il Parlamento per i servigi resi alla patria decise di assegnare una pensione annua alla vedova.