MEDICI, Luigi
Nacque a Napoli il 21 apr. 1759 (non il 22, come indicato da N. Nicolini e W. Maturi) da Michele, principe di Ottaviano e duca di Sarno, e da Carmela Filomarino dei principi della Rocca.
Dopo gli studi compiuti nel collegio dei gesuiti di Nola decise di intraprendere la carriera militare per rendersi autosufficiente dall’aristocratica ma indebitata famiglia, che osteggiava vivamente il suo proposito. Le preghiere della madre per l’abbandono dei suoi progetti non rimasero inascoltate tanto che il M., dopo aver compiuto brillanti studi nell’Accademia reale di Torino (1776), viaggiò per alcuni anni in vari Stati europei.
Nel 1778 era giunto a Parigi, dove apprezzò il sistema politico e istituzionale restando affascinato dal ruolo centrale attribuito al controllo del territorio, con un massiccio impiego della milizia urbana e della «police des campagnes» (Alessi, pp. 55-57). Grazie ai viaggi il M. poté mettere a confronto vari sistemi giuridici, amministrativi e politici molto diversi tra loro. In particolare nel soggiorno a Torino il M. fu assai colpito dalla monotona vita dei tribunali piemontesi – impegnati a suo dire nell’applicazione acritica dei regi editti e presidiati dalle autorità militari – dove «la causa pubblica si reggeva con governo militare sotto cui la libertà individuale correva frequentemente pericolo» (cfr. Alcune cose degne di memoria, c. 479r).
Dopo il suo ritorno a Napoli (1780), conseguì la laurea in giurisprudenza nell’Università di Napoli dedicandosi per alcuni anni alla professione forense. Il M. fu tra i primi nobili partenopei ad aprire la sua casa, secondo la moda parigina, a tutti gli «spiriti illuminati», mettendosi in evidenza come una delle maggiori promesse politiche del Regno.
Decisamente affascinato dalla creatività del mondo giuridico partenopeo, «prescelse la carriera del foro» diventando nel 1783 giovanissimo giudice della Gran Corte della Vicaria e facendosi presto «ammirare per la retta amministrazione della giustizia» (Capece Minutolo, p. 2). Pienamente rispondente alla figura dell’intellettuale di nobile rango e cultura illuminata, funzionale all’ambiziosa politica perseguita dalla regina di Napoli Maria Carolina d’Asburgo Lorena, il M., grazie anche all’ausilio della sorella Caterina, coniugata Cavaniglia, marchesa di S. Marco, fu introdotto alla vita di corte e nominato consigliere della R. Udienza di guerra e Casa reale (1786), consigliere del Sacro R. Consiglio (1789), maggiordomo di settimana e gentiluomo di camera di entrata (1790).
Nel 1790, appena agli inizi della carriera politica, il M. venne incaricato dal ministro J. Acton di redigere un’«Inchiesta» – conservata presso l’Archivio di Stato di Napoli – sulla mentalità politica e sui disordini d’ordine pubblico delle Calabrie.
In tale studio, consegnato il 26 luglio 1790, il M. analizzò a fondo i costumi, le idee politiche e le propensioni al delitto delle popolazioni calabresi, giungendo alla conclusione che le cause principali di declino riscontrate nell’amministrazione giudiziaria di quelle terre potessero essere sanate solo attraverso una radicale riforma di tutto il sistema amministrativo.
Proseguendo nella sua ascesa politica, il M. fu nominato nel 1791 reggente della Gran Corte di Vicaria e capo della polizia urbana della città di Napoli, ricoprendo così l’ufficio che era stato del suo bisavolo Giuseppe de’ Medici principe di Ottaviano ai tempi di Carlo II d’Asburgo Spagna.
Come reggente il M. si occupò con energia del ripristino dell’ordine pubblico nella capitale, iniziando un processo di rinnovamento delle istituzioni di polizia cittadina che sarebbe poi continuato fino al 1803 con la creazione della sovrintendenza di polizia affidata a T. Marulli d’Ascoli. L’apposizione di cartelli toponomastici, la numerazione progressiva delle case, la pubblica illuminazione, il controllo dei sedici casali intorno alla città e l’introduzione dei giudizi per direttissima nel caso di reati «in flagranti» furono solo alcune tra le innovazioni introdotte dal M., che, sulla scia delle riforme parigine di A. de Sartine e J.C.P. Lenoir, applicava a Napoli la sua idea di riformismo per un più efficace controllo sulla popolazione.
Nell’attività di reggente il M. ebbe particolarmente a cuore il mutamento dell’antico ruolo della polizia giurisdizionale, con la costruzione di un efficiente apparato poliziesco capace di restituire autonomia alla gendarmeria urbana rispetto alla Gran Corte di Vicaria.
L’energica ricerca di indipendenza del suo ufficio rispetto alle pesanti ingerenze delle segreterie di Stato pose però il M. al centro di pesanti conflitti istituzionali, che complicarono ulteriormente la sua posizione, già compromessa dalle prime accuse di collusione con gli ambienti rivoluzionari avanzate dai suoi oppositori.
Dopo la caduta della monarchia francese avvenuta il 21 sett. 1792, il M., sia per opportunità politica sia per formazione personale, fu estremamente interessato alle possibili attività di riforma dell’apparato amministrativo, al fine di ammodernare la monarchia borbonica senza travolgerla del tutto. In maniera poco prudente non nascose la sua amicizia per i fratelli A. e M. Giordano, due esponenti del filogiacobinismo, che non mancarono di mettere puntualmente il M. al corrente delle notizie provenienti dalla Francia, ricevute negli incontri segreti o attinte alla lettura del Moniteur in casa di Eleonora de Fonseca Pimentel. In particolare A. Giordano, che «nulla poteva perdere, e moltissimo aveva a guadagnare in una rivoluzione», organizzò personalmente numerosi club cittadini ispirati alle dottrine rivoluzionarie, millantando senza ragione l’appoggio del M. (Capece Minutolo, pp. 7 s.).
Primo accademico protettore dell’Accademia di chimica e matematica fondata dal C. Lauberg e Giordano (chiusa per sospetti di giacobinismo nel 1793), il M. fu membro della Giunta dei delitti di Stato e presidente della Giunta inquisitoria (1794). In tali incarichi si trovò a giudicare molti dei presunti giacobini da lui conosciuti e coinvolti nelle sommosse avvenute nel Regno. Nell’istruzione del processo contro di loro, il M. cercò di assicurarsi un ruolo sufficientemente imparziale e autorevole per allontanare eventuali sospetti di collusione con i processati. Al fine di mettere alla prova la sua affidabilità politica, sempre nel 1794 il M. fu inviato in missione segreta per conto di Acton a Genova, per chiedere al governo genovese un ingente prestito in favore della corte napoletana. Le cronache raccontano che in tale occasione lo stesso Acton avesse messo sotto stretta osservazione il M., con un serrato controllo della sua corrispondenza, al solo fine di rintracciare possibili prove della sua simpatia per i rivoluzionari (F. Nicolini, p. 53).
Sebbene la capacità politica e l’abilità amministrativa fossero state una costante di tutte le sue cariche pubbliche, il M. non poté evitare l’accusa di giacobinismo mossagli dallo stesso Acton per una presunta, mai provata, congiura organizzata con F. d’Aquino principe di Caramanico. In un momento politico in cui il sospetto era l’arma politica maggiormente utilizzata, l’accusa fu animata in realtà solo dalla volontà di arginare la sua attività di riformista regio, che faceva della sua libertà e curiosità intellettuale la maggiore fonte di ispirazione. Il 27 febbr. 1795 il M. fu arrestato e sospeso dalle funzioni politiche per essere condotto nel carcere di Gaeta, con il conseguente allontanamento dalla scena politica dal 1795 al 1798.
Il M. aveva accolto con rassegnazione l’idea del processo a suo carico, con la certezza che non ci fossero prove sufficienti per arrivare a una condanna. Tra i capi di imputazione maggiormente tenuti in considerazione c’era una precisa deposizione di Giordano il quale, considerandolo responsabile della sua carcerazione e incapace di adoperarsi per il suo rilascio, non esitò a scrivere un’accurata memoria in cui forniva la prova del diretto coinvolgimento del M. nella organizzazione dei club e nelle sommosse rivoluzionarie. In tal modo il re e la regina – nel clima di generale sospetto e sensibilmente incoraggiati dalla fiera opposizione di Acton nei confronti del rivale – si convinsero della colpevolezza del M., autorizzandone l’arresto e il processo.
Nel «costituto», redatto il 5 ott. 1797 nel castello di Gaeta, il M. si adoperò in una dettagliata smentita delle affermazioni rese contro di lui nella fase istruttoria del processo. In particolare, pur affermando di conoscere Giordano «fin da’ miei più teneri anni», escluse ogni coinvolgimento nelle sue attività politiche, smentendo di aver mai avuto «carteggio relativo alla rivoluzione di Francia» o «fogli di rivoluzione». Durante l’interrogatorio il M. precisò come fossero stati assolutamente sporadici e marginali i suoi contatti con l’ambasciatore e con l’ammiraglio L.-R.-M. Latouche-Tréville durante la loro permanenza a Napoli, ribadendo la volontà di collaborazione con la corte borbonica per l’accertamento della verità (N. Nicolini, pp. 367-380). In realtà l’unica colpa che gli si potesse imputare era quella di aver compreso che per la conservazione della monarchia borbonica fosse necessario un notevole sforzo riformistico.
In un clima in cui gli arresti politici sottolineavano il diffuso sospetto della corte borbonica nei confronti della borghesia e dell’aristocrazia – in quel periodo furono arrestati D. Forges Davanzati, M. Pagano, F. Conforti, C. Monticelli, I. Ciaja – il processo a carico del M. durò ben tre anni e mezzo; nei suoi confronti dall’accusa fu richiesta la tortura con la formula «acriter adhibitis quatuor funiculis» e, infine, la pena capitale.
Al termine del lungo processo, la Giunta di Stato, seguendo il rito sommario, «ad horas», emise una sentenza definitiva nella quale il M. fu dichiarato innocente con la pronuncia del «liberetur in forma» (F. Nicolini, pp. 218 s.). Una volta libero si ritirò a vita privata nel suo feudo di Ottaviano, salvo essere accusato e incarcerato dai democratici negli ultimi mesi di vita della Repubblica (aprile 1799).
Liberato con il ritorno dei Borbone, fu sospettato di giacobinismo e nuovamente incarcerato (ottobre 1799), per essere definitivamente liberato solo in virtù dell’indulto del 30 maggio 1800.
Durante la prima restaurazione borbonica successiva alla caduta del governo di G. Zurlo, il M. divenne prima presidente nel Consiglio delle Reali Finanze (1803) – anche se a titolo precauzionale il re volle mantenere il portafoglio del ministero medesimo nelle mani di T. Firrao – e poi direttore della segreteria di Stato e Azienda (1804).
Il M. fu un funzionario dotato anche di particolare intuito politico; degne di nota furono le sue entusiastiche considerazioni all’ambasciatore francese C.-J.-M. Alquier in merito alla formazione di un Regno Italico, nelle quali precisava di non dissimularsi «qu’il est possible que ce changement ne nuise pas un jour à ce pays-ci» ma anche, «comme je suis beaucoup plus de l’Italie que de Naples», di salutarlo «avec plaisir, parce que j’y trouve la base d’un système italien qui ne pouvait exister sans cet ordre de choses» (Croce, pp. 246 s.).
Con l’occupazione francese, nel 1806, il M. seguì i sovrani in Sicilia, dove visse l’esilio da privato cittadino, ricoprendo il ruolo di ministro delle Finanze solo per pochi mesi. Dichiarato avversario di una tradizione costituzionale forgiata secondo gli interessi particolaristici dalla giurisprudenza isolana, entrò ben presto in collisione con l’attività del Parlamento siciliano e con lord W. Bentinck, che nel 1811 riuscì a imporre al re Ferdinando il suo confino a Londra. Anche nell’esilio Oltremanica il M. mantenne intensi contatti con la corte borbonica, consigliando ai sovrani di continuare la collaborazione con i funzionari più illuminati e la difficile alleanza con il governo inglese. In quegli anni il M. diede vita alla politica dell’«amalgama», che avrebbe poi trovato larga applicazione nella riconquista del tessuto politico e istituzionale nel Regno liberato.
Nel 1814 fu nominato, in rappresentanza della monarchia borbonica, plenipotenziario al congresso di Vienna (1814), e contribuì alle trattative per la ricostruzione della monarchia borbonica. Dopo l’abolizione della costituzione siciliana e il ritorno a Napoli di Ferdinando IV, divenuto I come re del Regno delle Due Sicilie, l’attività politica del governo regio e dello stesso M. fu sostanzialmente orientata alla conservazione delle novità istituzionali introdotte dai Francesi. A tale linea si ispirò quando fu posto di nuovo a capo del ministero delle Finanze (1815), che avrebbe mantenuto fino alla morte, ottenendo l’interim del ministero della Polizia. In particolare espresse vivo apprezzamento per l’istituzione della Gran Corte dei conti, titolare esclusiva delle competenze giurisdizionali amministrative in luogo del Consiglio di Stato – organo che diveniva esclusivamente consultivo – in completa autonomia rispetto ai tribunali ordinari. Vicino alle idee di C. Filangieri e M. Pagano, fu decisamente contrario alla politica troppo repressiva e reazionaria espressa dall’attività di A. Capece Minutolo principe di Canosa (fondatore della società segreta dei calderari), di cui il M. chiese e ottenne le dimissioni il 30 maggio 1816, disponendo contestualmente la soppressione di tutte le sette.
Il M. si impegnò in un grande sforzo di riorganizzazione amministrativa del Regno e, coadiuvato da D. Tommasi, partecipò attivamente all’approvazione della legge 12 dic. 1816 sull’amministrazione civile, alla legge 29 maggio 1817 sull’ordinamento giudiziario e alla definitiva promulgazione del Codice per lo Regno delle Due Sicilie del 1819: provvedimenti legislativi fortemente ispirati alla passata legislazione francese, che confermavano l’eversione dalla feudalità, l’eliminazione degli ordinamenti particolari e una maggiore centralità del potere regio sovrano nell’amministrazione dei territori (Caravale, p. 257).
Con una notevole determinazione il M. riuscì poi nell’impresa, già tentata senza successo da Giuseppe Bonaparte e da Gioacchino Murat, di portare a termine il negoziato per l’approvazione del concordato tra il Regno di Napoli e la S. Sede (1818). Fu per lui un successo diplomatico, ma rappresentò un notevole arretramento rispetto alla «spinta progressiva impressa al Regno dalle riforme del Decennio [francese] e in una certa misura anche rispetto allo stesso illuminismo riformistico» (Candeloro, p. 69).
Successivamente all’abolizione dell’«omaggio della Chinea» e al fallimento delle trattative diplomatiche tra il cardinale E. Consalvi e il ministro Acton, il M., insieme con i ministri T. Di Somma marchese di Circello e D. Tommasi, ricevette dal re (2 dic. 1815) le «plenipotenze» per trattare con i plenipotenziari pontifici F. Guidi e D. Caracciolo la riorganizzazione dei rapporti tra la Chiesa e il Regno. Ristrutturazione delle diocesi, delle parrocchie e degli ordini religiosi, abolizione delle rendite della Chiesa e regolazione della disciplina sui beni ecclesiastici furono solo alcuni fra i punti cruciali affrontati dai delegati. Dopo intense e lunghe trattative il M. ricevette espresso incarico dal re Ferdinando I di occuparsi personalmente della «negoziazione di Terracina» (1° febbr. 1818) con Consalvi, segretario di Stato pontificio, per la definitiva stesura del concordato e con l’espressa avvertenza di risolvere anche le questioni maggiormente controverse (giurisdizioni vescovili, immunità, censura, nomina dei vescovi). Il concordato venne definitivamente firmato dal M. e da Consalvi il 16 febbr. 1818, e ratificato dal re il 25 febbr. 1818.
Avverso in eguale misura sia alle politiche liberali sia a quelle reazionarie e affezionato ai principî del giurisdizionalismo settecentesco, anche in campo economico si occupò di studiare equilibri nuovi in materia di finanze (istituzione della fondiaria e tassi indiretti), sempre nel segno di un cauto riformismo conservatore, atto cioè a garantire la sopravvivenza della monarchia e della classe aristocratica a essa collegata (Maturi, pp. 6 s.).
L’arrivo al potere dei liberali in conseguenza dei moti del 1820 determinò un nuovo allontanamento dalle funzioni di governo del M. che, avvertendo un clima di ostilità esasperato dopo l’uccisione del direttore di polizia F. Giampietro, fuggì alla volta di Civitavecchia per prendere poi dimora a Roma. Solo la mediazione di K. von Metternich e di C. Rothschild gli consentì di tornare, nel 1822, a Napoli alla guida del ministero delle Finanze dove, liquidato il governo costituzionale, continuò la sua moderata attività politica. Il M. mantenne, quindi, una sostanziale continuità con le istituzioni del periodo precedente anche durante il regno di Francesco I, succeduto al padre nel 1825, periodo nel quale si occupò anche di sedare la «rivolta del Cilento» con una dura repressione (1828).
Nel gennaio 1830 il M. seguì in Spagna il sovrano Francesco I, in occasione del matrimonio della principessa Maria Cristina con il re di Spagna Ferdinando VII.
Il M. morì a Madrid il 25 genn. 1830.
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M. Vanga
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