DELLA TORRE, Luigi
Nasce probabilmente dopo la metà del Quattrocento, da Ginevra di Bertoldo da Spilimbergo - vale a dire quel "Pertholdus de Spegnimbergo", figlio di Venceslao e marito di Teudula di Collalto, che, assieme ad altri esponenti dei "castellani" friulani, pretende, il 27 sett. 1424, il mantenimento dei diritti concernenti "servos et homines de masnata", la conferma delle giurisdizioni e dei diritti di sangue, il diritto d'imprigionare i massari non in regola coi fitti, il diritto d'asilo per omicidi non commessi da briganti e ribelli (Parlamento friul., II, 1, Bologna 1956, pp. 18-21); questi, che muore nel 1451, vede, nel giugno del 1443, il suo castello assalito da elementi popolari (F.C. Carreri, Spilimbergica..., Udine 1900 pp. 19, 213) - e dal Niccolò di Nicolino presente nel Parlamento del 26 aprile e 2 giugno 1468 (Parl. friul., II, 1, pp. 99 s.) "pro Villalta" castello comportante, appunto, la "voce" in sede parlamentare. Erede, col fratello Raimondo, del Luigi Della Torre di Carlo morto senza discendenza, Niccolò era stato investito assieme a Raimondo, dal luogotenente del Friuli Niccolò Contarini, il 31 ott. 1454, della parte dei castello di Villalta a quello spettante, d'un brolo, di metà del borgo, dei diritti su questo e sulle ville di Zucconico, Basagliutto, San Vito di Fagagna; e rafforzò, quindi, la sua giurisdizione al punto che, nel 1477, i Villalta (già signori del luogo), data l'alienazione di gran parte dei loro beni, vennero dispensati da ogni aggravio contributivo.
Alquanto improbabile, invece, sia il padre del D. quel Niccolò Della Torre inviato, il 4 giugno 1420, con altri tre, da Udine al provveditore veneziano Marco Bragadin e al generale Filippo Arcelli per proporre una pace onorevole e quindi recatosi, con altri otto tra cui figura il Carlo Della Torre padre del Luigi morto senza eredi diretti, il 6 a Venezia per annunciare, in concomitanza coll'ingresso a Udine dei rappresentanti veneti, la cessazione, da parte di quella, d'ogni resistenza. La cronologia fa in tal caso pensare anziché a lui - allora troppo giovane per incarichi di tanto rilievo -, al Niccolò Della Torre dottore in medicina già comparso tra i testimoni d'un trattato stipulato, il 28 ott. 1411, dai Savorgnan e da Udine coi duchi d'Austria (P. S. Leicht, Trattative fra Udine e San Daniele..., in Mem. stor. forogiuliesi, XXIV [1928], pp. 107 ss.). Più numerose di quelle di Niccolò le tracce di suo padre Nicolino (da non confondere coll'omonimo zio paterno) di Ottolino (da non confondere col nipote omonimo figlio del fratello Nicolino) detto Capo: nel 1389 si sposò con Anna d'Odorico Colloredo, nella cui dote 100 libbre di piccoli veronesi figurano come equivalente di due servi di masnada; il 30 ott. 1394 fu tra gli accompagnatori ad Aquileia di Michele Rabatta che vi assunse il vicedominato; il 25 sett. 1401 ricevette nella sua abitazione udinese "in burgo Grezani interiori" i rappresentanti dei conti di Gorizia i quali non accolsero, peraltro, la sua offerta d'anticipazione dell'imprestito di 4.000 ducati d'oro; il 12 apr. 1405 il conte di Gorizia Mainardo gli concesse - oltre ad altre possessioni in località di "Rones" - iure livelli dei beni situati a Corse (o Torsa), Rivolto e Roveredo accontentandosi d'un berretto all'anno di lana del valore d'un ducato; ragguagliò in una lettera il figlio Capo (questi, nominato nel 1420 scolastico e canonico nella chiesa di S. Maria Maggiore, il duomo, cioè, a Udine con l'annua rendita di 60 ducati, fu "uditore delle cause del Sacro Palazzo" a Roma e morì prima di raggiungere l'Inghilterra in veste di legato) dell'infelice tentativo veneziano, del'l'11 sett. 1419, d'impadronirsi di Udine; con altri due nobili appare, infine, il 30 genn. 1426, arbitro in una contesa.
Un minimo individuabili anche i due fratelli del D.: Isidoro, oratore nel 1481 a Venezia per caldeggiarvi provvedimenti atti a ripristinare a Udine la quiete, una cui causa con Giacomo Savorgnan fu discussa a Gorizia nel 1490 (N.M. di Strassoldo, Cronaca..., Udine 1876, p. 17), pare sia stato cultore un po' maniacale della genealogia torriana inseguita anche nelle diramazioni in varie città d'Italia sino a mettersi in contatto con un Gabriele Della Torre scovato ad Ascoli; Francesco sposò Bianca Barisani e visse, quanto, meno, sino al 1535, anno in cui fece testamento. Tre le sorelle del D.: Diadema sposò il conte vicentino Ludovico Thiene; Anna nel 1468 s'accasò con quel Pretto o Repretto di Strassoldo di Giovanni che nel 1499 ostacolò il ritorno della spedizione turca in Friuli i cui danni poi fece presenti a Venezia, Tranquilla, maritata al nobile friulano Agostino Partistagno (figlio, questi, di Girolamo, dev'essere un grosso proprietario terriero se nel 1481 pascolano in quel di Marsura ben 400 suoi capi di bestiame, Notizie stor. friul., a cura di P. Bertelli, in Pagine friul., XIII[1900], p.56), dal quale ebbe quel Girolamo che, rientrato il 16 luglio 1509 a Udine da Ferrara, riferì che in quest'ultima "se iudicha che Venezia anderà a sacho avanti che cesi la presente guerra".
Quanto al D. (il cui profilo è senz'altro più inciso rispetto a quello non solo del padre e dei fratelli, ma anche del nonno) egli trascorre più anni in Francia, conseguendo, a detta di Capodagli, un "grado cospicuo" nell'esercito di Carlo VIII e distinguendosi in non meglio precisate "guerre". Tornato a Udine, quanto meno entro l'inizio del 1494 (come autorizza a ritenere una lettera, scritta appunto da Udine il 10 aprile assieme al fratello Isidoro, nella quale prega Bernardino da Feltre di venirvi a predicare per "consolatione et fructo de la anime nostre" e del "devoto popolo" invocante la sua "presentia"), il 29 giugno 1495 il D. viene preposto ai 100 cavalleggeri offerti dalla feudalità friulana a proprie spese per almeno tre mesi alla Repubblica e passati in rassegna dal luogotenente Priamo Tron. Il D. partecipa, così, alla battaglia di Fornovo del 5-6 luglio, all'assedio, dell'agosto-ottobre, di Novara, ove s'è asserragliato il duca d'Orléans, ed è, infine, spedito in soccorso di Pisa contro l'avviato assalto fiorentino. Il 26 ag. 1499, in previsione dell'incursione turca, il D., assieme al dottor Bortolo de Nardis, perora a Venezia l'estrema necessità di munizioni ed uomini per un'adeguata difesa di Udine. Ed il 3 ottobre - quando ormai i Turchi, dopo aver infierito, saccheggiando e uccidendo, sul territorio, sono sulla via del ritorno - il D. è, con altri udinesi, immobilizzato a Gradisca, ché, per l'inerzia del provveditore generale Andrea Zancani, da questa non parte alcuna efficace iniziativa.
Eletto doge il 2 ott. 1501 Leonardo Loredan, il D. è uno dei sei componenti la delegazione udinese che con quello si felicita. Nel 1507 è uno dei quattro sollecitanti la Serenissima all'invio ad Udine di pastatori, non bastando quelli reperibili in zona per 1.'allargamento e il perfezionamento delle "fosse". Scoppiato il conflitto tra Massimiliano, offeso pel negato passaggio, e la Repubblica, il D., assieme al figlio naturale d'Antonio Savorgnan Nicolò, si porta, il 26 febbr. 1508, a Tolmezzo donde conduce circa 200 uomini "fra a piedi et a cavalo" da destinare a Bartolomeo d'Alviano, che - par di capire dal diarista Leonardo Amaseo - pure il D. e Niccolò Savorgnan raggiungono in Cadore con "falconeti 6 cum li soi polveri". Comunque - sempre stando alle notizie di quello - non risulta il D. abbia, nel qpadro delle vittoriose operazioni dell'Alviano, il ruolo rilevante attribuitogli dal Litta che lo mette a capo del contingente di truppe straniere. Dall'annotazione, datata 15 aprile, d'Amaseo, ove è lo stesso D. ad informarlo "che in Goritia, per quelo che tignieva cadauno, erano dentro 1500 fanti", si può, invece, dedurre che egli sia ben presto rientrato a Udine sapendo della guerra quel tanto che riportano le voci circolanti e non essendo, pertanto, in quella impegnativamente coinvolto. - Sempre dall'Amaseo s'apprende che il D., con Antonio Savorgnan e il "capo" delle "taje" udinesi Francesco Sbroiavacca, è al seguito del luogotenente Andrea Loredan che (con 300 "cavalli ben in ordine" cui, poi, a Mariano, s'uniscono 6.000 uomini "delle ville assai in puncto"; così il cronista Cergneu, mentre per Amaseo sono agli ordini di Loredan poco più di 2.000 uomini nella maggior parte "vilani mal in ordine"), il 20, muove baldanzoso da Udine all'"aquisto" della "rocha" di Corizia che, peraltro, s'arrende il 22, sì che giunge a cose fatte. In seguito all'elezione nel Parlamento del 6 maggio, il D. è uno dei sei "ambasadori" udinesi che, il 12 giugno, rallegrandosi a Venezia della conquista di Pordenone, Gorizia e Trieste, chiedono, nel contempo, che le appellazioni, eccezion fatta per Trieste, competano ad Udine.
Messosi, dunque, in luce con sia pure relative prestazioni militari e come membro attivo di delegazioni di particolare prestigio, il D., nel primissimo Cinquecento, è soprattutto l'elemento di maggior spicco della nobiltà friulana più pervicacemente attaccata alle proprie consuetudini, più restia ad accettare il ridimensionamento delle proprie prerogrative.
Satura di rimpianti pei tempi in cui poteva impunemente vessare i servi di masnada (e il nonno materno del D. era stato tra quelli che avrebbero voluto questi designabili per tali sulla base della semplice asserzione del feudatario sine strepitu et figura iudicii), irritata dal crescere dei condizionamenti e dei incoli, essa è sordamente rancorosamente mugugnante nei confronti 'del dominio veneto che, sia pure con cautela ed esitazione e non senza contraddizioni, segna - se non altro perché vieta il pignoramento d'animali attrezzi e masserizie a danno dei "districtuales terrarum" indebitati - un miglioramento della condizione, quanto meno giuridica, dei contadini. Non a caso questi guardano con favore a Venezia divenendo massa di manovra, tutt'altro, però, che docile e controllabile, dell'unica casata decisamente filoveneziana, quella dei Savorgnan che, anteponendo all'arroccamento difensivo e alle rimasticature nostalgiche i vantaggi concreti d'un rapporto privilegiato col governo e arricchendosi coll'appalto dei dazi i cui proventi concorrono all'ulteriore ampliamento della proprietà terriera, riescono a trasformare siffatto comportamento - anomalo nel quadro della feudalità friulana - in un poderoso strumento d'ascesa e di affermazione sino a divenire perciò odiatissimi e invidiatissimi dagli altri o castellani", i "primi de la Patria". In questa, a Udine cioè e nel Friuli, alimentata da vecchi veleni tra famiglie, dall'odio reciproco tra proprietari e villici, dagli aspri contrasti tra città e campagna, da vendette, gelosie e ripicche d'antica data risalenti a non sopite memorie riecheggianti la divisione tra guelfi e ghibellini, s'allarga e s'approfondisce e si semplifica nel contempo con connotati sempre più chiaramente sociali, la spaccatura in due inconciliabili - troppo viva la "discordia" tra loro - "fazioni", in due contrapposte "sette". S'ingrossano e si fronteggiano due "partiti", quello degli "strumieri", costituito da o li castellani quasi tutti, con pochi Macedoni e alcuni plebei" e quello degli "Tamberlani" che ha dalla sua - così Niccolò De Monticoli - "tutti li cittadini, tutta la plebe e tutta la città cori alcuni castellani". Capeggia i secondi Antonio Savorgnan, "ricchissimo", come testimonia suo nipote Luigi Da Porto, "in ... grazia del Senato", oggetto di "venerazione" popolare (indubbio frutto, questa, delle generose elargizioni consentitegli dai suoi mezzi, ma anche risultato di concrete prese di posizione politica come, nel 1506, il veemente attacco alla furfanteria dei pastori somministrante ai poveri pane di pessima qualità e l'energica richiesta d'aumento salariale pei lavoranti della lana), "quasi signore della città", avvantaggiato per di più dalla carica di capitano generale delle cernide che mette a sua disposizione una ragguardevole forza d'urto da utilizzare spregiudicatamente per minacciare gli avversari. A sua volta "capo de strumieri" il D., perciò detti pure "torriani".
Virulenta - nella concitazione suscitata da reciproche provocazioni, da continui episodi di violenza, da scontri veri e propri - l'avversione tra lui e Savorgnan, entrambi sospinti dalle rispettive "parti" alla più esacerbata contrapposizione personale, specie quando - nella tremenda congiuntura dell'aggressione dei collegati a Venezia disastrosamente sconfitta ad Agnadello - divampa tra quelle incomponibile il più furibondo antagonismo. E Savorgnan ha buon gioco nel convogliare l'avversione delle plebi rurali e cittadine contro i castellani additati come filoimperiali e potenziali traditori: differenti, in effetti, nei confronti del patriziato lagunare così sconcertante per loro nei suoi tratti mercantili ed urbani, intimamente affini coll'Impero che rispetta nelle sue terre il ceto signorile, sono soprattutto i contadini ad accusarli di voler "mudar stado", per non essere più tenuti, una volta restaurata la "famoletà", a pagare i "miglioramenti". Ribollente d'odio e fremente d'ira il contado, istintivamente consapevole che l'eliminazione del diaframma protettivo del governo veneto avrebbe significato, con la reintroduzione della servitù e col misconoscimento delle migliorie un pauroso arretramento. E se Savorgnan adopera con spregiudicata disinvoltura turbe fameliche, se ne serve come d'elemento di pressione per conseguire obiettivi personali, esse, le turbe, a lor volta lo costringono a trasformarsi da capoparte in capopopolo; dietro lui risuonano istanze e in presenza di lui vengono urlate rivendicazioni di gran lunga travalicanti le sue ambizioni e non compatibili col suo stesso disegno. Più semplice, invece, la posizione del D.: è con lui una nobiltà uniforme nella sua fisionomia feudale, unita e solidale - malgrado e al di là delle beghe interne - nell'ostilità antipopolare e, nello stesso tempo, compattata dal furore che contro di lei, durante la guerra cambraica, monta dal basso. Mentre dietro Savorgnan preme disordinatamente un esplosivo intreccio di bisogni ed esigenze popolari, il D. esprime linearmente le preoccupazioni di conservazione della sua classe, attento, in più, a fornire (come fa, ad esempio, nel luglio del 1509, anticipando con Camillo Colloredo il denaro per pagare gli stradiotti di Gradisca), a titolo personale e a nome dei castellani, attestati di lealismo e garanzie di fedeltà da contrapporre ai sospetti di trame proditorie diffusi dal Savorgnan, per contrastare l'influenza del quale gli torna altresì utile la rivalità del cugino Girolamo Savorgnan che mal sopporta lo straripante ascendente d'Antonio. Donde l'accusa, mossagli da entrambi, d'aspirare alla signoria, di smodate ambizioni, d'irresponsabile demagogia.
Lungi dallo sbilanciarsi sino a valersi dei contadini "marcheschi" per un moderno progetto d'abbattimento della feudalità, Venezia, cui fa capo una frastornante ridda d'accuse e controaccuse, si preoccupa anzitutto che i contrasti non degenerino in guerra civile svolgendo un'opera di moderazione e mediazione che da un lato non attenui la combattività antiimperiale dei contadini e dall'altro non induca i castellani a schierarsi decisamente contro di lei. Di qui l'affannoso adoperarsi dei suoi rappresentanti per persuadere i "primari citadini" di Udine - in primo luogo il D. ed Antonio Savorgnan - al reciproco "amor". Con sollievo il provveditore generale in Friuli Francesco Cappello informa, il 23 ag. 1509, della riconciliazione tra Girolamo e Antonio Savorgnan e quindi di questo con il D. e dell'affidamento concordato al primo della "zente e fanti del paese". Un accordo fragilissimo, di cortissima durata, subito messo in discussione e disatteso. Il D. non può certo dimenticare il sintomatico saccheggio e la ammonitoria distruzione, del 30 luglio, da parte di villici, a suo dire istigati da Antonio Savorgnan, a Sterpo, del castello d'Albertino Colloredo. Non cessano, perciò, da parte sua e dei suoi, le accuse a quello di sobillare contro i nobili la feccia cittadina e la bestialità rusticana. Lo ricambia Antonio Savorgnan denigrandolo come nemico della Repubblica, dipingendolo pronto al tradimento. Né esita, il 5 settembre, ad inviare una denuncia scritta a Venezia ove lo rivela in "secretissima" e assidua "inteligentia" con Odorico Colloredo il quale milita per l'Impero a Gorizia. Ulteriore macchia a carico dei D. la parentela con Giorgio Della Torre "gran maestro appresso lo re dei Romani".
Certo, in ogni caso, mentre il Friuli è teatro di guerra, al di là delle diserzioni e dei tradimenti dei singoli, l'assenteismo, sul piano militare, dei nobili. Nella preoccupazione non trovino esclusiva udienza, in sede governativa, le reiterate denunce di Savorgnan, il 20 genn. 1510, quarantasei castellani con il D. in testa si recano a Venezia dichiarando che, se non avevano di persona partecipato alle ultime azioni belliche, la colpa è tutta di Savorgnan: non possono battersi se attorniati da cernide da lui contro di loro aizzate, né d'altro canto intendono sottostare agli ordini d'"un loro pari" che, coll'appoggio della plebaglia, mira a "farsi signor de la Patria dei Friuli". Né mancano, tra gli "strumieri", quanti vogliono adottare nei suoi confronti un comportamento aggressivo, deliberatamente provocatorio. Tra questi si distingue, per avventatezza e violenza, il nipote del D. (è di lui "più bestial", assicura Antonio Savorgnan) Niccolò Della Torre: questi, sorpreso, probabilmente il 31 gennaio o il 1° febbraio, con sette dei suoi l'adolescente Francesco Savorgnan (figlio di Giovanni fratello dì Antonio), lo picchia duramente, ma alla notizia rumoreggia un intero "borgo" udinese e solo il deciso intervento del viceluogotenente Antonio Gìustinian impedisce si dia fuoco al palazzo Della Torre; il 25 febbraio, sempre Niccolò, questa volta con quindici a cavallo, ingiuria un gruppo di contadini accusandoli di parteggiare per Savorgnan; il 2 marzo, nottetempo, s'aggira fieramente per Udine urlando "Torre, Torre! viva gli strumieri!"; il 4 si presenta armato di fronte al portone del palazzo d'Antonio Savorgnan. È, questo del 4 marzo, un giorno in cui la situazione rischia di precipitare: in mattinata, il D., reduce da Venezia, è assalito, a Malazompicchia, nella piazza, da una piccola folla di contadini vociferanti; la sera, a Udine, i suoi servi attaccano briga con uomini di Savorgnan i quali, non paghi d'ammazzare Morgante, un "fameglio" del D., al grido di "al sacho, al sacho", s'ingrossano col pronto accorrere di circa 200 "mechanici parte ... miseri et mendici, parte ... giottoni" e, quindi, si portano, decisi a saccheggiarlo, di fronte al palazzo torriano. Ma il tempestivo frapporsi del, Giustinian, del contestabile Mattia del Borgo, dei soldati della compagnia di Guido da Perosa li induce a desistere.
Vibrantissima la protesta del D. a Venezia, con l'aggiunta, all'indirizzo del Savorgnan, dell'accusa - pesantissima - d'essere egli il vero reo di ribellione e tradimento, ché è stata intercettata una sua lettera al duca di Brunswick nella quale offre, purché garantito nelle sue "preminentie", Udine col Friuli all'Impero. Convocato dalla Signoria anche il Savorgnan, il 20 marzo in Collegio il D. inveisce contro di lui apertamente apostrofandolo come traditore, dicendogli "sul viso ... rebello". Ma l'insulto non suscita alcuna reazione negli astanti, non scalfisce l'indifferenza ostentata di Savorgnan, ché, ammette a malincuore il cronista filotorriano Leonardo Amaseo, la missiva al duca era stata scritta di concerto "cum questo Stato", con la Repubblica cioè, per trarre in inganno il duca con un finto tradimento. L'indomani, il 21, convocati di nuovo il Savorgnan e il D., accompagnato da Giacomo di Castello e Francesco di Cergneu, due degli esponenti più in vista dei "torriani", il doge Leonardo Loredan impone loro di "far la pase et basarse insieme".
Abbracci poco sinceri se di lì a due mesi il D., con alcuni "parenti" ed amici "principali", ricompare a Venezia a lamentare come Savorgnan impedisca a lui e ai suoi di "viver sicuri". Ma la "fiducia" del governo continua a favorire il rivale, mentre da lui e dalla sua parte paventa mosse pericolose. Tant'è che, convocato a Venezia (dove il 15 giugno appare in Collegio, proprio assieme al Savorgnan, relativamente alla "contribution di far che ... pagasseno per li cavali lizieri iusta la promessa"), il D. vi è, suo malgrado, trattenuto "per suspeto" coll'obbligo di presentarsi ogni giorno. È stato "fato venir", riporta il Sanuto, "per la inimicitia con domino Antonio Savorgnan"; "castelan di la Patria", è "gran cao di parte" avendo "grari seguito da li castelani". Il 9 luglio, stanco della coatta dimora lagunare, il D. riappare in Collegio per chiedere il permesso di raggiungere Udine "a veder dil suo e poi tornar a Venezia", non senza, nel contempo, esprimere tutta l'amarezza di chi, "non rebello", ma "fidelissimo" (e "sempre Pà dimostrato" sacrificando al "ben di la Signoria" gli "odii" privati), avverte come "par si habbi un suspeto di la fede sua". Affabile la risposta del doge: a Venezia, assicura, "lo havevano per carissimo", e l'imposto soggiorno non deriva da dubbi sulla sua lealtà, ma dal desiderio di tener "separati" lui e Savorgnan "chome do fradelli che non si amasseno". Il D., perciò, insiste cordialmente il doge, "doveria aver piacer di star qui". Ad ogni modo il D., il 23, lascia Venezia rischiando, per via, di cadere a Strassoldo in mano dei "Todeschi". Funesto, comunque, il suo rientro: impossibile, a Udine, la contemporanea presenza sua e d'Antonio Savorgnan. Quest'ultimo, a suo modo, ne è consapevole. Non per niente, il 25 genn. 1511, sollecita una decisione governativa che imponga a lui o ai suoi nemici l'allontanamento da Udine: "è somma necessitade - scrive Savorgnan - che la Serenità Vostra o lievi la persona mia da questa patria o vero lievi loro quatro videlizet ser jacomo de Castello, ser Alvise de la Torre, ser Teseo de Collereto et ser Francesco de Cergneo". Tutti e quattro, così sempre Savorgnan, "indubitatamente aspectano lo Misia", vale a dire "lo advento de Todeschi", in quanto "inirnicissimi del Stado di Vostra Serenità".
Esiziale, in effetti, l'assenza, da parte di Venezia, d'una drastica disposizione che impedisca la possibilità d'un confronto diretto. I due, in mancanza di questa, non pensano che ad una definitiva resa dei conti, si fronteggiano ammassando armati, si sorvegliano e si spiano l'un l'altro pronti a cogliersi di sorpresa. Cadono nel vuoto gli inviti alla pace delle autorità, via via confinate al rango d'impotenti spettatori, mentre cresce, da'entrambe le parti, la determinazione alla mossa fulminea che annienti l'avversario. Il 25 febbraio il Savorgnan, che ha il controllo delle cernide, raduna a Udine circa 800 "villani" che entrano in città inneggiando a lui. 1 nobili i cui palazzi, specie quello del D., rigurgitano d'armati, sono pronti allo scontro. Paventandolo non favorevole, il Savorgnan preferisce appellarsi al luogotenente Alvise Gradenigo - che anche il 24 s'era affannato a proclamare la deposizione delle armi, "pena dela indignatione et dela forcha" - perché smorzi la tensione. E questi convince i due capiparte - il Savorgnan e il D. - ad un simulacro di pace col conseguente allontanamento degli armati e l'impegno solenne "de non se offender l'un l'altro". Eravamo preparati - scrive il 26 sera il D. ai cugini Giacomo e Girolamo Spilimbergo nel cui castello s'erano concentrati 500 armati e 50 cavalieri pronti ad accorrere ad un cenno di richiesta - a battere i "villani" di quella "bestia" di Savorgnan, se solo avessero osato attacar briga "cum noi"; purtroppo quel "castron", prevedendo la mala parata, è ricorso all'autorità. Lo scontro, comunque, è solo rinviato per il D.: l'avvenuta riconciliazione non vale, per lui, alcunché, è stata solo una simulazione momentanea di cui sbarazzarsi alla prima occasione propizia. Per ora, scrive il D. ai cugini, "bisogna star" vigili ed "uniti", pronti a colpire.
Ma la missiva - bloccato il "servidor" che la portava da "un vilan con servi doi" del Savorgnan - cade nelle mani di questo e l'ìnduce ad anticipare l'avversario. Quanto mai favorevole la congiuntura, ché, sparsasi lo "nova" che stanno muovendo da Gorizia verso Udine 100 cavalieri e 500 fanti imperiali, Savorgnan può disporre, la mattina del 27 - è questa la "horribile zornata" del giovedì grasso - di 1.500 "villani", il cui comando come colonnello delle cernide è di sua pertinenza, e di molti "popolari". Con questi attende nei pressi della città l'"hoste", di cui peraltro non compare ombra. Agevole, perciò, entro l'"hora del disnar", far convergere questa massa armata (delusa dal mancato combattimento e, nel contempo, decisa a non deporre le armi ché circola la voce che il D. e i suoi siano pronti a consegnare al nemico la città) ad Udine, quasi a presidiarla e difenderla. In questa agli armati s'aggiunge - convocata dalla campana a martello - una folla furente reclamante a gran voce vendetta, decisa a farla colle proprie mani. Incontenibile irrefrenabile s'avventa contro i palazzi dei presunti traditori, saccheggia, distrugge, brucia. Accanita la resistenza del D., asserragliato con 40 uomini nel suo palazzo; ma, dopo quattro ore combattute "virilmente", deve cedere di fronte all'uso dell'artiglieria. La sua "casa", registra Sanuto, viene "bruxata, ma prima sachezada e poi solo aequata".
Si scatena, contro di lui e quelli della sua parte, atroce la caccia all'uomo. E ognuno cerca scampo fuggendo e nascondendosi. Savorgnan risparmia la vita a quanti - come il cognato del D. Agostino Partistagno e i suoi tre figli - sono, per loro fortuna, fatti "presoni" senza essere scannati. Ma non è in grado di placare le ormai scatenate "furie populari"; egli stesso va "digando ch'il furor del populo era acceso contra" i torriani "talmente che non lo podea smorzar", così anticipando la giustificazione degli "oratori" udinesi a Venezia, i quali, appunto, l'8 aprile, vi diranno colpevole di tutto il "furor dil populo", a cominciare dalla "cossa seguita coptro quelli di la Torre", così cercando di scagionare il Savorgnan, che, invece, cosi almeno Sanuto, "laudono", evidentemente attribuendogli meriti di tentata moderazione. Certo, comunque, che i nobili sono da "ognuno odiati", che il popolo in tumulto, in preda a smania omicidia, li vuole morti. Né c'è pietà pei Della Torre: ucciso Niccolò, il protervo nipote del D., fracassato di botte Isidoro, suo fratello, invano riparato nella casa d'Ascanio Sbroiavacca e quivi scovato mentre, già ferito, giace in un letto; trucidato "crudelissime" pure il D., scoperto nello scantinato della dimora del vicario patriarcale.
S'accende, quindi, e divampa, tremenda - e senza risparmiare quelli dei pochi signori "zamberlani" - l'insurrezione contadina contro i castelli. Primo ad essere assalito e diroccato dalla "rustica" devastazione quello torriano dei Villalta (c'era chi aveva sentito tempo prima urlarvi "Austria, Austria!"), donde fortunosamente riescono a mettersi in salvo, coi figli, la moglie del D. e quella di suo nipote Niccolò, Giacoma di Brazzà, entrambe gestanti. Segue, sanguinoso, lo strascico della vendetta sistematica: Antonio Savorgnan, con clamoroso voltafaccia passato all'Impero (forse anche perché timoroso, mentre vien meno la o fiducia" governativa, d'essere ritenuto responsabile della strage del giovedì grasso), il 27 maggio 1512, viene ucciso a Villacco e tra gli "interfectori" è il cugino del D. Gianenrìco di Spilimbergo a colpirlo per primo alla testa; assassinato, sempre a Villacco e sempre ad opera di nobili friulani, il 2 apr. 1518, suo figlio naturale Niccolò. Pure la Repubblica si fa, a suo modo, vindice della morte del D.: il 9 ag. 1515 il Consiglio dei dieci condanna a morte o do presonieri" da quattro anni in carcere "che fono a l'amazar di domino Alovisio da la Torre". Così il Sanuto, il quale, il 13, precisa come "in questo zorno", in piazza S. Marco, i due "de Friul..., per esser stà - ripete - quando fo amazà" il D., vengono decapitati, squartati e appesi alla forca "tutta la notte et fin el dì sequente da sera".
Il D. s'era sposato con Taddea di Girolamo Strassoldo; essendo questi, morto ancora nel 1484, fratello del Pretto cognato del D. (con quello s'era accasata sua sorella Anna), s'era resa necessaria, per ovviare alla blanda "consanguinitas", la dispensa papale concessa l'8 ag. 1500,e confermata il 26 dal vicario patriarcale Francesco Mazzoni. Ne aveva avuto una figlia - Ginevra sposa a Giambattista Colloredo di Girolamo che milita per Carlo V (è suo figlio il più noto Marzio) - e cinque figli, che risultano, per la minor età, "nondum in Consilium admissi" nella "conscriptio nobiliuni civicum" udinesi del 20 apr. 1518. Essi sono: Giovanni che, entrato al servizio del duca d'Urbino Francesco Maria Della Rovere, muore nel 1527;Raimondo (1501-1532), cavaliere gerosolimitano; Michele, il futuro vescovo e cardinale; Luigi, ecclesiastico, assassinato a Venezia, nel 1549, assieme al cognato Giambattista Colloredo da Tristano Savorgnan, colpito, per questo, dal Consiglio dei dieci, il 27agosto, con sentenza di bando; Girolamo. QuesVultimo, abbandonata la carriera ecclesiastica intrapresa a Roma, sposa, nel 1549, Giulia (1532-1562)di Giovanni Matteo Bembo ricordata da Francesco Sansovino nella Vita (Venetia 1565) a lei dedicata. Aggressore a Padova, con un Colloredo e una ventina di bravi, di Giovanni e Tristano Savorgnan, Girolamo Della Torre viene per questo, con sentenza del Consiglio dei dieci del 23 maggio 1549, relegato per un decennio a Candia donde - nella relazione del 6 febbr. 1558 - il luogotenente del Friuli Pietro Sanuto mostra'di paventame il rientro, sicuro rechi turbamento alla quiete udinese (Rel. dei rettori ven . .... I, Milano 1963, p. 63). L Girolamo, comunque, che, il 29 ag. 1568 (lostesso anno in cui è tra i rappresentanti a Venezia della feudalità friulana), sottoscrive, assieme a dei Collorédo e ad altri, anche a nome dei figli e del fratello vescovo di Ceneda, l'"instrumento" impegnante ad affidare all'arbitrato del procuratore Alvise Mocenigo "le... differentie di qualunque sorte passate et presenti" coi Savorgnan, i quali fanno altrettanto. Sicché, il 30, il patrizio veneziano può, rallegrandosi del conseguimento di così "santa pace", invitarli "tutti ad uno ad uno" ad abbracciarsi. rimossi "tutti li odii" e le "passioni". Un impegno celebrato in forma solenne, rogato dal "notarius publicus" Vittorio de Maffei e alla presenza di testimoni che sono ragguardevoli nobili lagunari, nella chiesa giudecchina di S. Giovanni Battista.
Fonti e Bibl.: Venezia, Biblioteca del Civico Museo Correr, Cod. Cicogna, 1362, pp.1627 s., copia dell'Ordine, del 16 marzo 1511, del luogotenente Gradenigo di reintegro nelle "iurisdizioni loro" degli eredi del D.; 1363, p. 261 (sul figlio del D. Luigi) e - nella numerazione interna della Difesa, del 1566,di Niccolò Savorgnan contro le "calunnie" mosse contro di lui e i suoi da Marzio Colloredo, figlio della figlia del D., alle pp. 534-673 del ms. - le pp. 13-16, 25 s., ove s'attribuisce al D. la responsabilità della rottura della "pace" con Antonio Savorgnan e le pp. 73-81 su suo figlio Girolamo; 1524, pp. 177-184:A. Belloni, Declade turriana; M. Colloredo, Risposta... a tre manifesti de' Savorgnani, s.l. né d. (ma l'autore la presenta datata Augusta, 17 febbr. 1568), ff. 14v-15v, ove la lettera del D. ai cugini, causa, pei Savorgnan, del "rompimento della pace", viene data per falsa; G. Candido, Commentarii ... d'Aquileia, Venetia 1544, f. 74;L. Da Porto, Lettere..., a cura di B. Bressan, Firenze 1857, pp. 277 ss.; [N. De Monticoli], Descrittione del sacco ... in Udine..., Udine 1857, pp. 8-20 passim; Giovanni da San Vito, Avvenimenti... annotati, Udine 1865, pp. 14 s.; Chronicon Glemonense..., Udine 1877, pp. 12 S.; M. Sanuto, Diarii, Venezia 1879-1902, 11 ,Col. 1140; III, col. 11; IX, coll. 92, 307; X, coll. 532, 570, 742; XI, coll. 853 s.; XII, coll.5 s., 15, 17 ss., 26-30, 109, 555, 577; XX, coll. 477, 505; L. e G. Amaseo (la cui Hist. della zobia grassa... figura anche, nella trascrizione di P. Duodo, in Pagine friulane, XI [1898], ove il D. compare passim alle pp. 117-20, 131-35, 149-52);G. A. Azio, Diarii udinesi, a cura di A. Ceruti, Venezia 1884, ad vocem (aggiungendo anche il rinvio a p. 4); G. B. di Cergneu, Cronaca..., a cura di V. Ioppi-V. Marchesi, Udine 1895, pp. 19, 30 s., 33 s., 3750 passim; S.di Strassoldo, Cronaca .... a cura di E. Degani, Udine 1895, pp. 84 s. (pei figli del D., specie Luigi o Alvise e Girolamo); G. di Porcia, Descrizione ... del Friuli..., Udine 1897, p. 13; G. F. Palladio, Hist.... del Friuli..., II, Udine 1660, pp. 75, 79, 84, 86, 103-07 passim; G. C., Capodagli, Udine illustrata..., Udine 1665, pp . 450 s.; C. G. Ferrucci, Albero geneal. ... de la Torre..., Venetia 17 16, p. 112 e, per parenti prossimi, 102-22 passim; P.Antonini, Del Friuli..., Venezia 1873, p. 185; Id., I baroni di Walsee..., Firenze 1877, p. 74 e, pei figli Luigi e Girolamo, passim alle pp. 89 s., 154 s s.; E. Degani, La cronaca di ... A. Purliliese..., in Arch. ven., XXXVI (1888), 1, p. 203; Id., I partiti in Friuli..., s.l. né d. (ma Udine 1900), p. 103 e, alla p. 154, la "pace" sottoscritta dal figlio Girolamo, peraltro confuso (e perciò fatto assassinare nel 1549 da Tristano Savorgnan) col fratello Luigi alle pp. 82 s.; Papiunculus (= V. Carreri), Zamberlans e Strumirs, in La Scintilla ..., VII (1893), p. 104; Castellifriul...., a cura di A. Lazzarini-G. Del Puppo, Udine 1901, p. 168; Le famiglie della nobiltà udinese..., Udine 1903, p. 18; G. Forgiarini, Quattrolett. ...di A. Savorgnano..., in Mem. stor. forogiuliesi, IX (1913), pp. 304-07 passim; G. Baldissera, Il contegno del... Savorgnan ... nel 1510..., Venezia 1913, pp. 8-11 passim (ma Niccolò della Torre è nipote non figlio del D.), 17; D. Tassini, La rivolta del Friuli nel 1511..., in Nuovo Arch. ven., n.s., XXXIX (1920), pp. 151-54; F. Savini, A Savorgnan..., in Mem. stor. Forogiuliesi, XXVIIXXIX (1931-1933), pp. 270-84 passim, 300-05; G. di Prampero, Vita ... dei... Prampero, Udine 1933, pp. 242-44, 249 s. per la conclusione pacifica del 30 ag. 1568; P. S. Leicht, Scritti... di storia del diritto, I, Milano 1943, p. 76 n. 6; Id., Operai artigiani agricoltori ... sec. VI-XVI, Milano 1946, pp. 191 s. (ove il D. è fatto morire per ordine di Antonio Savorgnan nella cui stessa casa si sarebbe rifugiato); P. Paschini, Storia del Friuli..., II, Udine 1954, pp. 361, 365, 367; A. Toscano, Pergamene... degli archivi goriziani..., in Studi goriziani, XXI (1957), pp.99 (per la sorella Anna), 103, 119 ss.; A. Ventura, Nobiltà e popolo nella soc. ven...., Bari 1964, pp.204-07; V.Meneghin, Docc....intorno a Bernardino da Feltre, Roma 1966, p. 307; G. di Caporiacco, Udine..., Udine 1976, pp.103 s.; P. Litta, Le famiglie celebri italiane, s.v. Torriani di Valsassina, tav. VI (con inesattezza a proposito dei parenti). Sul nonno paterno del D. Nicolino: F. di Manzano, Annali del Friuli..., VI, Udine 1868, pp. 102, 172 s.; VIII, ibid. 1879, p. 22; Docc. goriziani del sec. XV, a cura di V. Joppi, in Archeografo triest., n.s., XVIII(1892), p. 6; G. Cogo, La sottomissione del Friuli…, in Atti dell'Acc. di Udine, s. 3, III(1896), p. 107e, sul Niccolò Della Torre rappresentante di Udine nel 1420 (sul quale anche G. de Renaldis, Mem.... d'Aquileia..., Udine 1888, p. 72), 122; A.Battistella, La servitù di masnada..., in Nuovo Arch. ven., n.s., XI (1906), 2, p. 29.