Luigi Einaudi
Economista e intellettuale di fama internazionale, Luigi Einaudi è considerato uno dei padri della Repubblica. Dopo i lunghi anni di raccoglimento cui lo costrinse il fascismo, conobbe una stagione eccezionale. Come governatore dell’Istituto di emissione, come ministro e infine come capo dello Stato, le sue concezioni politiche ed economiche sembrarono incarnarsi nella nuova Italia liberaldemocratica. Solo all’inizio degli anni Sessanta, con l’acuirsi di problemi sociali che il miracolo economico non aveva risolto, il suo insegnamento sembrò destinato ad affievolirsi. Negli ultimi decenni, molte delle sue proposte hanno riacquistato una prepotente attualità, come quelle circa una maggiore autonomia delle banche, quelle favorevoli a una concorrenza fra scuola pubblica e privata, e soprattutto quelle relative a un restringimento della sovranità statuale a vantaggio di un’autorità europea.
Nacque a Carrù (Cuneo) il 24 marzo 1874, da Lorenzo, ricevitore delle imposte, e da Placida Fracchia. Nel 1888, morto prematuramente il padre, la vedova si trasferì con i quattro figli a Dogliani, paese della sua famiglia. Einaudi si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza di Torino, dove Salvatore Cognetti De Martiis aveva fondato il Laboratorio di economia politica di cui Einaudi fece parte «dal primo giorno della sua fondazione», come dice in un suo curriculum. Laureatosi nel 1895, entrò alla Cassa di risparmio di Torino, da dove si dimise per intraprendere l’insegnamento.
Nel 1902 vinse la cattedra universitaria di scienza delle finanze, ottenendo l’immediata chiamata a Torino, dove insegnò per tutta la vita. Nel medesimo anno rifiutò la lusinghiera offerta della cattedra di economia politica a Ginevra, lasciata scoperta da Maffeo Pantaleoni e propostagli da Vilfredo Pareto.
Gli anni a cavallo dei due secoli lo videro affermarsi anche come giornalista. Fin dal 1897 gli era stata rilasciata la tessera di «redattore e collaboratore» della giolittiana «Stampa», diretta da Luigi Roux. Qui pubblicò alcuni reportage sugli scioperi degli operai tessili del Biellese (settembre-ottobre 1897), e sullo sciopero del porto di Genova (dicembre 1900-gennaio 1901). Nel 1903 approdò al moderato «Corriere della sera», diretto da Luigi Albertini, già suo collega al Laboratorio torinese. Negli oltre vent’anni di ininterrotta collaborazione, Einaudi vi pubblicherà non meno di 1700 pezzi (cfr. L. Einaudi, Cronache economiche e politiche di un trentennio 1893-1925, 8 voll., 1959-1966; Bibliografia degli scritti di Luigi Einaudi dal 1893 al 1970, 1971).
Nel 1896 aveva iniziato a collaborare alla «Riforma sociale», pubblicata da Roux a Torino sotto la direzione di Francesco Saverio Nitti (cfr. Una rivista all’avanguardia, 2000; Bianchi 2007). Alla fine del 1907 ne diventò direttore. La feconda attività pubblicistica e scientifica gli meritò la nomina a senatore del Regno (6 ottobre 1919) per la categoria 18, soci dell’Accademia delle scienze di Torino, disposta dal presidente del Consiglio Nitti su suggerimento di Albertini.
Come la maggioranza degli intellettuali liberali italiani, guardò con simpatia al nascente movimento fascista, sia per i valori patriottici da esso proclamati, sia per il liberismo del programma originario di Benito Mussolini. Fu con il delitto Matteotti che la natura del regime gli si presentò in tutta la sua evidenza. Einaudi non mancò di denunciare la cecità degli industriali che continuavano ad appoggiare Mussolini (cfr. Il silenzio degli industriali, 1924). Aderì all’Unione nazionale di Giovanni Amendola e fu tra i primi firmatari del manifesto Croce, pubblicato sul «Mondo» del 1º maggio 1925.
Fra il 1925 e il 1926 dovette lasciare la collaborazione al «Corriere della sera», dove Albertini non era più direttore, e rinunciare all’insegnamento presso l’Università Bocconi, tenuto fin dal 1904. Al Senato ormai fascistizzato comparve solo rarissimamente. Nel 1928 fu tra i 46 che si opposero all’approvazione della nuova legge elettorale a lista unica formata dal Gran consiglio del fascismo. Non partecipò alla discussione e votazione per la ratifica dei Patti lateranensi. Infine, votò contro l’ordine del giorno favorevole alla campagna d’Etiopia (18 marzo 1935).
Costretto a ridurre la sua attività pubblica e giornalistica, si concentrò negli studi e nella direzione della rivista, che – dopo un certo appannamento negli anni del dopoguerra – conobbe un periodo di grande fulgore, finchè nel 1935 il fascismo gli chiuse anche quella. In questi stessi anni fu consulente per l’Italia della Rockefeller foundation, con il compito di selezionare giovani per borse di studio negli Stati Uniti. Nel 1926 compì un lungo viaggio in America, visitando le Università di Yale, Harvard, Princeton, Columbia, Minnesota, Berkeley, St. Louis e incontrando alcuni fra i principali economisti. Insieme con i collegamenti accademici e scientifici internazionali, intensificò i propri acquisti di libri rari di economia (cfr. Catalogo della biblioteca di Luigi Einaudi, 2 voll., 1981), per i quali si avvalse della preziosa collaborazione di Piero Sraffa, già suo allievo a Torino e ormai trasferito a Cambridge.
Dopo il 25 luglio, nominato da Pietro Badoglio rettore dell’Università di Torino, non fece in tempo a prendere possesso della carica. Braccato dai nazifascisti, riuscì avventurosamente a espatriare in Svizzera insieme alla moglie Ida.
Rientrò in patria alla fine del 1944, richiamatovi dal governo Bonomi per assumere nella Roma liberata la carica di governatore della Banca d’Italia nel gennaio 1945. Senza rinunciare a tale carica, Einaudi fu eletto all’Assemblea costituente per la lista dell’Unione democratica nazionale, composta da liberali e da esponenti autonomi della lotta partigiana. Durante la campagna per il referendum non fece mistero della propria scelta a favore della monarchia.
Nel maggio 1947, in seguito allo ‘sbarco’ dei socialisti e dei comunisti dal governo, Alcide De Gasperi formò il suo IV gabinetto. Einaudi, chiamato a farne parte come indipendente, ebbe la vicepresidenza del Consiglio e il portafoglio del Bilancio, dicastero istituito appositamente per lui. Un decreto assicurava la compatibilità fra la carica di ministro e quella di governatore (l’interim fu assunto dal direttore generale Donato Menichella).
All’indomani delle elezioni politiche del 1948, che videro il grande successo della Democrazia Cristiana, De Gasperi aveva pensato di candidare alla presidenza della Repubblica il suo ministro degli Esteri Carlo Sforza, destinando Einaudi alla presidenza del Senato. Ma Sforza non riuscì a fare il pieno dei voti e dovette rinunciare. Alle 18 dell’11 maggio 1948, al quarto scrutinio, Einaudi venne eletto con 518 voti su 871.
Scaduto nel 1955 il mandato presidenziale, ritornò con immutato fervore alla collaborazione giornalistica al «Corriere della sera», sviluppando, accanto ai temi prediletti del migliore funzionamento del mercato, temi di più ampio respiro civile, come quello dell’istruzione e della libertà dell’insegnamento (Prediche inutili 1959, 1974; Le prediche della domenica, 1987).
Morì a Roma il 30 ottobre 1961. Dopo il funerale di Stato, la salma fu tumulata nel cimitero di Dogliani.
Per un’adeguata presentazione di Luigi Einaudi è necessario partire dalla situazione economica dell’Italia negli anni in cui egli inizia la sua lunga stagione di scienziato e di pubblicista.
All’alba del 20° sec. i liberisti erano scettici sul futuro economico del Paese. Dagli articoli di un Antonio De Viti de Marco non si evince certo l’idea che l’Italia avesse prospettive di autentico sviluppo. Il destino del Mezzogiorno era e non poteva non essere esclusivamente agricolo. Bisognava specializzarsi nell’esportazione di agrumi, olio e vino, ma senza illudersi troppo, date le ragioni di scambio internazionali sfavorevoli ai prodotti agricoli. Quanto al Settentrione, la sua realtà industriale era indissolubilmente legata alla scelta protezionista, alimentata soprattutto dalla spesa pubblica. Le industrie ‘naturali’ erano poche.
Sull’altro versante stavano gli economisti statalisti, secondo i quali soltanto il sostegno pubblico all’economia avrebbe consentito il decollo. Il rappresentante più autorevole di questa linea era Francesco Saverio Nitti, che indicava nella «conquista della forza» (energia elettrica a buon mercato ricavata dal ‘carbone bianco’) il fondamentale prerequisito per l’industrializzazione. Anche qui, l’idea era che le forze spontanee del mercato fossero inadeguate.
Il quadro che Einaudi dipinge a cavallo fra i due secoli è diverso, ed è assai più incoraggiante. Lo sviluppo è, per così dire, a portata di mano. L’agricoltura e la piccola industria appaiono già marciare in virtuosa simbiosi, specie al Nord, secondo un rapporto città-campagna favorevole per entrambe. Imprenditori e lavoratori si stanno abituando a un confronto talvolta aspro, ma fonte di progresso: in questo consiste la «bellezza della lotta» (L. Einaudi, La bellezza della lotta 1924, in Id., Le lotte del lavoro, 1972). L’emigrazione risolveva il problema della sovrappopolazione delle zone arretrate e consentiva il miglioramento della bilancia dei pagamenti con le rimesse degli emigrati.
In un contesto di economia in crescita, le principali dottrine economico-sociali, liberalismo e socialismo, potevano diventare fra loro compatibili. L’Einaudi giovane giudica il socialismo come una dottrina complessa, non coincidente con il marxismo, che egli considera fin dall’inizio come (nato) vecchio e inservibile.
Quello di Einaudi non è socialismo-sentimento, come pure talvolta si è detto; ma socialismo-movimento, sul tipo di quello predicato dal leader del revisionismo europeo Eduard Bernstein e contrapposto al socialismo-fine, dogmatico e vagamente teologico. Il socialismo-movimento, al contrario del socialismo-fine, non è incompatibile con un’economia di mercato e può cooperare alla sua affermazione.
Già intorno agli anni Dieci, però, giudicando inadeguata l’azione riformatrice di Giovanni Giolitti e, a maggior ragione, dei socialisti, Einaudi ripiega su un liberalismo puro, dai tratti innegabilmente conservatori. Ma si tratta di una scelta sempre all’interno di un coerente progetto di ricerca delle forze politiche e sociali più funzionali allo sviluppo.
L’operosità di Einaudi negli anni precedenti la guerra non si limitò al giornalismo e alla direzione della «Riforma sociale». Nel 1907-1908 faceva uscire a Torino due ponderose ricerche di storia finanziaria piemontese, risultato di indagini di archivio condotte con la preziosa assistenza della moglie Ida. Fin da allora mostrava di orientarsi verso una storia economica di tipo «tecnico», in cui lo studio specialistico dei fatti economici e finanziari consentisse di illuminare l’ambiente sociale e intellettuale, senza concedere spazio alle ideologie e tanto meno all’interpretazione marxista della storia. Questi sforzi furono lodati da Gioacchino Volpe sulla «Critica» del 1910 (Faucci 1986, pp. 114-18).
Di maggiore rilevanza è però l’opera di Einaudi come scienziato delle finanze. Fondandosi sulla nozione di equità nella tassazione di John Stuart Mill, e sulla definizione psicologica di reddito e capitale di Irving Fisher, Einaudi dava una definizione di reddito imponibile come quella parte di reddito che è destinata al consumo (Intorno al concetto di reddito imponibile e di un sistema di imposte sul reddito consumato, 1912), escludendo la parte destinata al risparmio, sulla quale non si deve applicare l’imposta, pena una doppia tassazione (quella sul reddito corrente, e quella futura sui redditi derivanti dal risparmio stesso). Riconosciuta la difficoltà pratica di accertare volta per volta quale parte del reddito fosse destinata effettivamente a consumo e quale a risparmio, Einaudi individuava molto abilmente nell’ordinamento tributario vigente alcuni criteri oggettivi che lasciavano intendere come il legislatore, nonostante dichiarasse di voler tassare il reddito «guadagnato» (comprensivo cioè del risparmio), tassasse in realtà solo il reddito consumato. Per Einaudi infatti le esenzioni di cui godevano i redditi di lavoro dipendente (per la vecchiaia, la mutualità operaia ecc.) integravano una sorta di «risparmio presunto».
La teoria provocò un nutrito dibattito in Italia e all’estero. I partecipanti si schierarono prevalentemente contro di essa, sia per ragioni teoriche (la restrittività del concetto di reddito da essa sussunto), sia, e ancor più, per ragioni pratiche, in quanto la finanza avrebbe perduto cespiti troppo ingenti di entrata. Peraltro Einaudi mostrò ben presto insofferenza verso la tradizione della scienza delle finanze che circoscriveva il campo di osservazione al solo prelievo fiscale. Già nel 1919, prendendo spunto da un dibattito teorico sull’ammortamento o capitalizzazione dell’imposta (tramite la riduzione del valore capitale), Einaudi afferma la necessità di tener conto non solo della tassazione, ma anche del modo in cui lo Stato spende i proventi di essa, per decidere se l’ammortamento avviene o meno. Se lo Stato impiega tale provento in modo più produttivo di quanto non sappiano fare i privati, ammortamento non vi sarà; il saggio d’interesse (indice principale della prosperità di un Paese) tenderà a diminuire, nonostante l’imposta, e si potrà dire che l’imposta è veramente «neutra», cioè non disturba l’equilibrio economico (Osservazioni critiche intorno alla teoria dell’ammortamento dell’imposta, 1918-1919).
Negli scritti successivi egli cercherà di meglio collegare la teoria dell’imposta «neutra» con le sue preferenze per un’imposta sul solo reddito consumato. Nel 1924, in La terra e l’imposta, esaminando le vicende della tassazione fondiaria in Italia, dal catasto teresiano alla legge De’ Stefani del 1923, giungeva alla conclusione che l’unico criterio valido fosse quello di tassare il reddito ordinario, senza distinguere fra quello dovuto alla proprietà (reddito fondiario) e quello dovuto all’attività imprenditoriale (reddito agrario). Tutti i sovraredditi comunque chiamati dovevano andare esenti, a premio dei proprietari e dei coltivatori dalle capacità superiori.
In Contributo alla ricerca dell’‘ottima imposta’ (1928-1929) polemizza con De Viti de Marco, che aveva sostenuto che «tutti, consumando servizi pubblici generali in proporzione al proprio reddito, debbono pagare imposta in proporzione a quel reddito». Einaudi modifica la massima in questo modo:
Tutti, consumando servizi pubblici generali in proporzione al proprio reddito normale […], debbono pagare imposta in proporzione a quel reddito (in Saggi sul risparmio e l’imposta, 1958, p. 461).
L’imposta sul reddito normale è considerata da lui come la migliore approssimazione all’ideale di una rigorosa esenzione del risparmio.
Finalmente, dopo aver condotto perspicue ricerche sui precursori della teoria della tassazione del solo reddito destinato a consumo (Contributi fisiocratici alla teoria dell’ottima imposta, 1931-1932 e La teoria dell’imposta in Tommaso Hobbes, sir William Petty e Carlo Bosellini, 1932-1933), in Miti e paradossi della giustizia tributaria (1938) egli tratteggia i connotati di uno Stato ideale, in cui massima sia la fiducia dei contribuenti nei confronti dei pubblici poteri, e lo individua nell’Atene di Pericle, in cui i cittadini contribuivano volontariamente alle spese pubbliche. Stato perfetto è infatti quello in cui non si deve ricorrere alla coattività nell’esazione e, corrispondentemente, quello in cui i pubblici poteri non si incaponiscono nell’accertamento del reddito effettivo, di difficilissima valutazione, ma si limitano a definire il reddito normale, ben più agevole da stabilire. In questo modo lo Stato assumerebbe veramente il ruolo di «fattore di produzione», contribuendo ad arricchire la collettività.
Allo scoppio della Grande guerra, in polemica con le interpretazioni marxiste degli inevitabili interessi economici alla base di ogni guerra, Einaudi affermava che la storia è mossa dai grandi ideali – i valori di patria e di solidarietà fra i popoli – e non dagli interessi economici, in quanto, se si fosse dato retta a questi ultimi, guerra non vi sarebbe stata: infatti il sistema degli scambi internazionali precedenti lo scoppio del conflitto aveva prodotto un grandioso progresso economico per tutte le nazioni (cfr. Di alcuni aspetti economici della guerra europea, 1914). Conseguentemente si schierò subito e senza esitazioni dalla parte dell’intervento a fianco dell’Intesa.
Einaudi non ebbe subito la percezione che una guerra di simili dimensioni avrebbe portato alla dissoluzione del sistema economico europeo e mondiale, basato sul laissez-faire in politica economica e sul gold standard in politica monetaria. Durante il conflitto, raccomandò che le famiglie si astenessero dai consumi non necessari e continuassero a risparmiare e investire in titoli pubblici per finanziare lo sforzo bellico (Prediche, 1920). A guerra finita, lamentò che le classi meno agiate avessero abbandonato quei solidi valori di parsimonia che avevano costituito il supporto del sistema economico antebellico (Lettere politiche di Junius, 1920). Corrispondentemente, la proliferazione di enti pubblici economici durante la guerra, molti dei quali sopravvissuti a essa, lo trovò vivacemente contrario, anche perché tale fenomeno secondo lui generava la casta dei ‘padreterni’, tecnocrati (o sedicenti tali) che pretendevano di dirigere l’economia al di fuori delle regole di mercato (Licenziare i padreterni, 1919).
Negli anni Einaudi accentuò il suo atteggiamento critico verso gli effetti persistenti e indesiderati della guerra. Essa aveva operato, attraverso l’inflazione, una gigantesca redistribuzione dei redditi dagli impiegati di Stato, dai proprietari di immobili a fitto bloccato e dai risparmiatori detentori di titoli pubblici ai negozianti e agli speculatori, ma anche agli operai e ai contadini. A rigore, dunque, i ceti che apparivano più turbolenti (appunto quelli operai e contadini) non erano usciti impoveriti, tutt’altro; ma non contenti di quello che avevano ricevuto grazie all’inflazione, pretendevano sempre di più (cfr. la prefazione a Cronache economiche e politiche di un trentennio 1893-1925, 5° vol., 1961, p. XXXIII). Questa diagnosi spiega in parte la sua adesione al programma ‘produttivistico’ del ministro fascista delle finanze Alberto De Stefani.
Durante il fascismo crebbe la sua visibilità internazionale. Fin dal 1922 collaborava stabilmente all’«Economist» di Londra come corrispondente dall’Italia (cfr. “From our correspondent”. Luigi Einaudi’s articles in The Economist, 1908-1946, 2000). Nel 1930-31 scrisse numerose voci di finanza e di storia del pensiero economico per la Encyclopaedia of the social sciences edita a New York sotto la direzione di Edwin A.R. Seligman. Partecipò altresì ai lavori di diverse commissioni scientifiche internazionali sui problemi fiscali.
Nei medesimi anni intraprese un dialogo a distanza con John Maynard Keynes, già da lui ammirato come autore delle Economic consequences of the peace (1919) e come grande biografo di economisti. Keynes era un liberale di sinistra, fautore di un capitalismo obbligato a rinnovarsi per sopravvivere. A Einaudi non piacevano le previsioni di Keynes nei suoi Essays in persuasion (1931) sul futuro della scienza economica – ridotta all’arte del dentista – e soprattutto il suo giudizio sul capitalismo come semplice parentesi storica apertasi con l’afflusso di metalli preziosi dal nuovo mondo e destinata a concludersi per via della soluzione al problema della scarsità (cfr. L. Einaudi, Il problema dell’ozio, 1932). Ancor più dissentiva dal Keynes di The means to prosperity (1933), che caldeggiava una politica di investimenti pubblici basandosi sul moltiplicatore. Per Einaudi, «senza lepre non si fanno i pasticci di lepre» (Il mio piano non è quello di Keynes, 1933, p. 132); cioè senza un atto di risparmio (e quindi un’astensione dal consumo) non è possibile procedere a nuovi investimenti. Né il credito fornito dalle banche è ritenuto da lui idoneo a spingere in alto i prezzi e a ricostituire quei margini di profitto necessari per rilanciare la produzione. Invece, la crisi dovrà essere lasciata libera di esplicare tutta la sua potenza devastatrice, ma anche selezionatrice delle forze imprenditoriali migliori. Prima le imprese dovranno ricostituire l’equilibrio fra costi e ricavi; quelle fra loro che avranno saputo risanarsi saranno in grado di far uscire l’economia dalla crisi.
Quando uscì The general theory of employment, interest and money (1936) di Keynes, Einaudi le dedicò sulla sua nuova rivista, la «Rivista di storia economica», una recensione piuttosto fredda oltre che in ritardo (Della moneta serbatoio di valori e di altri problemi monetari, 1939), che apprezzava quasi esclusivamente la teoria della preferenza per la liquidità in quanto fondata sull’osservazione della psicologia degli operatori in una situazione di pessimismo riguardo al futuro. Ma il pessimismo, obietta Einaudi, diventa un fenomeno diffuso soltanto in epoche di rivoluzioni e sommovimenti sociali. È l’eccezione che conferma la regola. In periodi normali le teorie keynesiane servono a poco.
La medesima intransigenza impiegata nel difendere l’ortodossia dalle provocazioni di Keynes, Einaudi la esercitò nel difenderla dagli attacchi dei rappresentanti del corporativismo fascista. Contro di essi affermò – seguendo Pantaleoni – che i «dogmi» economici sorgono indipendentemente dal contesto sociale e storico, per cui una storia scientifica delle dottrine economiche dovrebbe illustrare lo svolgimento dei teoremi elaborati da quelle «menti sovrane» che avevano fatto avanzare la «verità» sull’«errore». L’insistenza sul «dogma» serviva a lui anzitutto per contestare la legittimità di una rifondazione della scienza economica su basi corporative. Gli economisti corporativi avrebbero dovuto indicare, per essere presi sul serio, quali ipotesi di comportamento e quali strumenti di analisi intendessero utilizzare per fondare la nuova scienza economica. Per es., avrebbero dovuto spiegare in che cosa il «salario corporativo» si discosti dal salario di equilibrio della teoria economica tradizionale (Le premesse del salario dettate dal giudice, 1931). Naturalmente, Einaudi era perfettamente convinto che l’economia corporativa, in quanto economia regolata, esulasse dal modello di concorrenza perfetta, inglobando in sé vincoli di natura politica, e quindi generalmente dannosi, all’operare delle forze di mercato; e che il corporativismo rappresentasse in pratica il predominio degli interessi economici costituiti a spese dei consumatori e dei produttori nuovi (cfr. La corporazione aperta, 1934; Intorno alla disciplina degli impianti industriali, 1941).
Negli stessi anni aveva luogo la cortese ma ferma polemica con Benedetto Croce. Questi aveva fissato una netta demarcazione fra liberalismo filosofico e liberismo economico, sancendo l’incomparabilità fra i due piani. Einaudi non può consentire. Perciò, dopo un primo intervento in cui spiega a Croce che nessun economista ha considerato il liberismo come un elemento portante dell’economia (Dei concetti di liberismo economico e di borghesia e sulle origini materialistiche della guerra, 1928), come ripensandoci, afferma che il liberismo inteso come Mano invisibile smithiana è il cardine della scienza economica (cfr. Dei diversi significati del concetto di liberismo economico e dei suoi rapporti con quello di liberalismo, 1931, in B. Croce, L. Einaudi, Liberismo e liberalismo 1957, 1988, in partic. pp. 124-25).
Nuovamente, nel 1937, ancora in polemica con Croce, che aveva affermato l’indipendenza dell’ideale di Libertà da ogni ordinamento economico-sociale storicamente realizzato, Einaudi osserva che la Libertà deve comprendere una certa dose di libertà economica, pena la riduzione della società a una comunità di ‘anacoreti’.
Qui Einaudi rovescia l’impostazione crociana che abbassa l’economista a mero indagatore del ‘fattore economico’ nell’attività umana, per proporre all’economista, fattosi filosofo, un compito assai più alto e ambizioso:
porsi la domanda: non quale ordinamento economico creò quel moto verso l’alto, ma quale ordinamento gli uomini vollero perché conforme alla loro esigenza di libertà (Tema per gli storici dell’economia: dell’anacoretismo economico, 1937, in B. Croce, L. Einaudi, Liberismo e liberalismo, cit., p. 145).
In coerenza con le sue convinzioni, secondo cui la libertà è il fine, e le istituzioni liberal-liberiste i mezzi, Einaudi si diffonde in un’entusiastica recensione a Die Gesellschaftskrisis der Gegenwart (1942) di Wilhelm Röpke, un economista tedesco esule per ragioni politiche.
Sulla scorta di Röpke, Einaudi pronuncia un giudizio critico a prima vista sorprendente sull’esperienza storica del capitalismo. Quest’ultimo non ha realizzato pienamente né la libertà di mercato (il liberismo) né la Libertà tout court. Ma Einaudi oppone al «capitalismo storico» l’«economia di concorrenza», ideale altissimo ma non privo di precedenti ed esempi nell’esperienza dell’umanità. La «finanza periclea» non è solo un’astrazione, o un’ipotesi su cui il teorico costruisce i suoi modelli. Essa rappresenta anche un’autentica «terza via» fra capitalismo monopolistico e comunismo statalista, alla cui realizzazione chi è pensoso delle sorti dell’uomo può e deve dedicarsi (Economia di concorrenza e capitalismo storico. La terza via fra i secoli XVIII e XIX, 1942, pp. 49-72).
Qui Einaudi, verrebbe da dire, finisce con l’essere più idealista in senso filosofico di Croce. Per attingere a un ideale di libertà non basta costruire schemi e progetti pratici, ma si deve vivere profondamente quei valori, che anche l’economista è chiamato a definire. L’economista non appronta soltanto i mezzi, ma medita anche sui fini. È il senso di un coevo scritto einaudiano di alta ispirazione, la prefazione all’Introduzione alla politica economica (1942) di Costantino Bresciani Turroni.
Il periodo di esilio in Svizzera (ottobre 1943-dicembre 1944) costituisce un capitolo breve ma intensissimo della vita di Einaudi, a contatto con un ambiente intellettuale costituito, oltre che da uno scelto gruppo di studiosi svizzeri (Edgar Salin, Werner Kaegi, William Rappard ecc.), dai giovani Ernesto Rossi e Altiero Spinelli, che dibatterono fervidamente con lui le tesi federalistiche esposte nel Manifesto di Ventotene, e dai più anziani Gustavo Colonnetti, Gustavo Del Vecchio, Francesco Carnelutti, Concetto Marchesi. Nel campo profughi di Ginevra Einaudi fu invitato a tenere un corso universitario che dette luogo a quelle che saranno pubblicate come Lezioni di politica sociale: un testo in cui, accanto all’attenzione per il ‘piano Beveridge’ di assistenza sociale promossa dallo Stato, si esalta il persistente valore della previdenza individuale basata sul «patrimonio formato col risparmio volontario, nell’affetto di una famiglia saldamente costituita» (Lezioni di politica sociale, 1949, p. 67).
In questo clima le idee di Einaudi, da sempre favorevoli al decentramento e al self-government, come si conveniva a un ammiratore del modello angloamericano, acquistavano nuova forza fino a diventare una vera filosofia del Buongoverno, centrata, sul piano locale, sull’autonomia delle «comunità» (termine che trasse da Adriano Olivetti, anch’egli rifugiato in Svizzera) organizzate in «collegi» non coincidenti con le circoscrizioni elettorali e preposte alla fornitura di servizi pubblici e all’approntamento dei piani regolatori; e, sul piano internazionale, sul superamento del «mito dello Stato sovrano» e degli egoismi nazionalistici, verso un’Europa federata. In questo contesto, in cui lo Stato deve rifondarsi dal basso, non c’era posto per il prefetto, simbolo dell’accentramento napoleonico-fascista (cfr. Via il prefetto!, 1944).
Mentre nella sua prima relazione da governatore (29 marzo 1946) Einaudi aveva manifestato ottimismo sulla ripresa economica, constatando con favore l’aumento degli sportelli bancari, segno di vivacità e competizione fra banche grandi e piccole, nella seconda relazione (31 marzo 1947) – comprendente per la prima volta le Considerazioni finali della Banca d’Italia (in Barucci 2008) che da allora non mancheranno più nel documento – egli affrontava con toni drammatici il tema dell’inflazione, di cui indicava il rimedio nello «spezzare il torchio dei biglietti». L’inflazione monetaria agiva perversamente sul sistema economico, riducendo anzitutto la propensione a risparmiare, in quanto «il risparmio è funzione della fiducia nella unità monetaria». Ma il fattore principale di inflazione era la crescente spesa statale. Per dare maggior suggestione al proprio appello, lanciava il concetto di «momento critico dell’inflazione», oltre il quale l’ulteriore emissione di moneta si risolveva in perdita netta di potere d’acquisto da parte dell’Erario. Einaudi intendeva ammonire circa la lezione della drammatica esperienza tedesca del 1923, in cui l’iperinflazione aveva aperto la strada al totalitarismo. Meno preoccupante gli sembrava il problema della disoccupazione, che secondo lui sarebbe stato avviato a soluzione quando i vincoli protezionistici interni e internazionali fossero stati rimossi.
Alla Costituente fece parte della Commissione dei 75 incaricata di redigere il progetto di costituzione, e fu assegnato alla seconda sottocommissione, sull’ordinamento costituzionale dello Stato, seguendo i lavori della prima sezione di essa, sul potere esecutivo. I suoi interventi furono numerosi e spesso incisero nel dettato costituzionale. Così, si batté a favore del sistema bicamerale e contro la trasformazione del Senato in «rappresentanza degli interessi» economici, che gli suonava come eco del corporativismo. Fu contrario, come molti esponenti del liberalismo prefascista (Nitti), alla Corte costituzionale, presentando il 10 febbraio 1947 un emendamento che ripartiva le funzioni della Corte fra magistratura ordinaria, Cassazione e potere legislativo.
Forse più importanti sono gli interventi in assemblea plenaria. Fu contro l’art. 33, non perché esso fosse troppo favorevole alla scuola privata (in origine mancava l’inciso «senza oneri per lo Stato»), ma perché sanciva il valore legale dei titoli «di dottorato e di licenza», per lui negazione dell’autentica libertà di insegnamento. Prese la parola per respingere l’emendamento firmato dall’on. Mario Montagnana e da altri deputati di sinistra, e inteso a includere l’idea di piano economico nella costituzione. Qui egli fu buon avvocato nel dimostrare la debolezza teorica della locuzione di «piano che dia il massimo rendimento per la collettività» (cfr. Interventi e relazioni parlamentari, 2° vol., 1982).
Già in sede di Costituente aveva fatto sua la proposta del liberale Aldo Bozzi, condivisa anche da Ezio Vanoni, di inserire un articolo della legge del 1923 sulla contabilità dello Stato, secondo cui nelle proposte di nuove e maggiori spese occorrenti dopo l’approvazione del bilancio dovevano essere indicati i mezzi per far fronte alle spese stesse. In difesa di quello che era divenuto l’art. 81, ultimo comma, si pronunciò in una lettera al ministro del Tesoro Giuseppe Pella, in cui ammoniva che il dettato costituzionale intendeva primariamente affermare il principio, da considerarsi un valore in sé, del pareggio del bilancio.
La politica finanziaria di Einaudi ministro del Bilancio fu tutta volta a debellare l’inflazione del 1946-47 attraverso classiche misure di stretta monetaria (quella stessa invocata nella sua ultima relazione da Governatore), con la collaborazione del governatore ad interim Menichella e attraverso un nuovo strumento, il Comitato interministeriale per il credito e il risparmio. Il ministero, creato per lui, aveva poteri di filtrare i provvedimenti di spesa provenienti dagli altri ministeri, in particolare quelli importanti nuove spese straordinarie o diminuzione di entrate. Le due variabili, quella monetaria e creditizia, e quella del bilancio e della spesa pubblica, operarono congiuntamente, portando a una recessione di cui diversi esponenti dell’industria del Nord non mancarono di lamentarsi con il ministro Einaudi (cfr. Faucci 1986, pp. 373-74). Fu soprattutto grazie ai fondi ERP e alla migliore congiuntura internazionale che l’economia italiana riuscì a sollevarsi dalla crisi di stabilizzazione e ad avviare il successivo rilancio.
Einaudi interpretò il ruolo di presidente della Repubblica (cfr. Baldassarre, Mezzanotte 1985) in maniera tutt’altro che notarile, non mancando di esercitare una funzione di stimolo e di correzione, nell’ambito previsto dalla Costituzione, nei confronti dell’esecutivo e del legislativo. Risolse con l’intervenire in forma non ufficiale, con ogni sorta di quesiti, richieste di ulteriori informazioni, e soprattutto inviti a ripensare certi provvedimenti. Pubblicò questo materiale, per lo più lasciato cadere nel silenzio dai destinatari, nel suo Scrittoio del Presidente (1956).
La condotta costituzionale di Einaudi suscitò qualche polemica a proposito del travagliato iter della riforma elettorale in senso maggioritario. Il 29 marzo 1953 la legge fu approvata dal Senato, ma in modo così tumultuoso (dato l’ostruzionismo delle sinistre) che molti senatori gli chiesero di non procedere alla promulgazione. Einaudi invece la promulgò, e contemporaneamente sciolse il Senato – anche se per il sistema elettorale di allora mancava un anno alla sua scadenza – perché
è opportuno che gli elettori manifestino contemporaneamente, con i metodi ora mutati, la loro volontà sull’indirizzo futuro del Parlamento (cit. in Faucci 1986, p. 404; cfr. anche pp. 493-94).
Come è noto, la legge maggioritaria non scattò; nel 1963 una legge costituzionale provvide a fissare la durata del Senato in cinque anni, come quella della Camera.
Anche Einaudi, come molti liberali prefascisti, era favorevole a un premio di maggioranza che assicurasse stabilità all’esecutivo. Fin dal 1944, scrivendo Contro la proporzionale, aveva dichiarato la propria avversione per i «piccoli giochetti aritmetici della cosiddetta giustizia proporzionale» (rist. in Il buongoverno, 1955, p. 65). E nel febbraio 1946, alla Consulta, aveva affermato che il sistema proporzionale favorisce la formazione di «partiti scombinati» (Interventi e relazioni parlamentari, 2° vol., cit., p. 162). Negativa era per lui l’esperienza delle elezioni italiane del 1919, le prime effettuate con il metodo della rappresentanza proporzionale e con lo scrutinio di lista, che segnarono la crisi delle maggioranze liberali e l’affermarsi dei partiti di massa socialista e cattolico. Per prevenire sia il rischio di instabilità sia lo strapotere dei partiti di massa, nel 1953 avanzò la proposta di un modesto premio di maggioranza e insieme quella, che forse gli stava più a cuore, dell’introduzione di un collegio uninominale in cui gli elettori potessero esprimere anche una preferenza di «seconda linea». In tal modo si sarebbero favoriti i partiti intermedi rispetto ai due maggiori agli estremi dello schieramento (cfr. Lo scrittoio del Presidente, 1956, pp. 20-31).
Nelle Prediche inutili, composte fra il 1955 e il 1959, si trovano spunti di grande importanza e attualità. In Somiglianze e dissomiglianze fra liberalismo e socialismo (1957) contrappone hayekianamente il metodo (socialista) delle «direttive» al metodo (liberale) delle «cornici». In Di Ezio Vanoni e del suo piano (1956) distingue fra piani che sono «mero esercizio logico», come appunto quello dello scomparso collega, e quelli autoritari. Nell’ultimo suo intervento pubblico, al congresso della liberale Mont Pelerin society, ammonisce che la cultura è per sua natura interdisciplinare e antispecialistica (Politici ed economisti, 1962).
Intorno al concetto di reddito imponibile e di un sistema di imposte sul reddito consumato (1912), rist. in Id., Saggi sul risparmio e l’imposta (1941), Torino 1958.
Di alcuni aspetti economici della guerra europea, «La riforma sociale», 1914, 11-12.
Osservazioni critiche intorno alla teoria dell’ammortamento dell’imposta (1918-1919), rist. in Id., Saggi sul risparmio e l’imposta (1941), Torino 1958.
Licenziare i padreterni, «Corriere della sera», 1919, rist. in Id., Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), 5° vol., Torino 1961.
Lettere politiche di Junius, Bari 1920.
Prediche, Bari 1920.
Il silenzio degli industriali, «Corriere della sera», 1924, rist. in Id., Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), 7° vol., Torino 1965.
La bellezza della lotta (1924), in Id., Le lotte del lavoro, con introduzione di P. Spriano, Torino 1972.
La terra e l’imposta (1924), con introduzione di R. Romano, Torino 1974.
Dei concetti di liberismo economico e di borghesia e sulle origini materialistiche della guerra, «La riforma sociale», 1928, 9-10, rist. in Id., Il buongoverno, a cura di E. Rossi, Bari 1955.
Contributo alla ricerca dell’‘ottima imposta’ (1928-1929), rist. in Id., Saggi sul risparmio e l’imposta (1941), Torino 1958.
Dei diversi significati del concetto di liberismo economico e dei suoi rapporti con quello di liberalismo, «La riforma sociale», 1931, 3-4, rist. in B. Croce, L. Einaudi, Liberismo e liberalismo (1957), Milano-Napoli 1988.
Le premesse del salario dettate dal giudice, «La riforma sociale», 1931, 5-6.
Contributi fisiocratici alla teoria dell’ottima imposta (1931-1932), rist. in Id., Scritti economici, storici e civili, a cura di R. Romano, Milano 1973.
Il problema dell’ozio, «La cultura», 1932, 1.
La teoria dell’imposta in Tommaso Hobbes, sir William Petty e Carlo Bosellini (1932-1933), rist. in Id., Scritti economici, storici e civili, a cura di R. Romano, Milano 1973.
Il mio piano non è quello di Keynes, «La riforma sociale», 1933, 2.
La corporazione aperta, «La riforma sociale», 1934, 2.
Tema per gli storici dell’economia: dell’anacoretismo economico (1937), rist. in B. Croce, L. Einaudi, Liberismo e liberalismo (1957), Milano-Napoli 1988.
Miti e paradossi della giustizia tributaria (1938), Torino 1959.
Della moneta serbatoio di valori e di altri problemi monetari, «Rivista di storia economica», 1939, 2.
Intorno alla disciplina degli impianti industriali, «Giornale degli economisti e Annali di economia», 1941, 7-8.
Saggi sul risparmio e l’imposta (1941), Torino 1958.
Economia di concorrenza e capitalismo storico. La terza via fra i secoli XVIII e XIX, «Rivista di storia economica», 1942, 2.
Via il prefetto! (1944), rist. in Id., Il Buongoverno, a cura di E. Rossi, Bari 1955.
La guerra e l’unità europea, Milano 1948.
Lezioni di politica sociale, Torino 1949.
Il Buongoverno, a cura di E. Rossi, Bari 1955.
Lo scrittoio del Presidente, Torino 1956.
B. Croce, L. Einaudi, Liberismo e liberalismo (1957), Milano-Napoli 1988; ed. ridotta con presentazione di S. Romano, Milano 2011.
Prediche inutili (1959), con intr. di L. Valiani, Torino 1974.
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), 8 voll., Torino 1959-1966.
Politici ed economisti, «Il Politico», 1962, 2.
Scritti economici, storici e civili, a cura di R. Romano, Milano 1973.
Interventi e relazioni parlamentari, a cura di S. Martinotti Dorigo, 2 voll., Torino 1980-1982.
Le prediche della domenica, presentazione di G. Carli, Torino 1987.
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Considerazioni finali della Banca d’Italia, a cura di P. Barucci, Città di Castello 2008.
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