FACTA, Luigi
Nacque a Pinerolo (Torino) il 13 sett. 1861 da Vincenzo e da Margherita Falconetto.
La volontà del padre, avvocato e procuratore legale, desideroso di trasferire quanto prima al figlio il proprio studio professionale, condizionò fortemente la vita del giovane F., che dovette impegnarsi con esasperata assiduità negli studi. In tal modo, consumando la giovinezza sui libri, riuscì all'età di diciotto anni a laurearsi in giurisprudenza all'università di Torino. Intraprese quindi la carriera forense, subentrando appunto al padre, nel frattempo deceduto. Il F. era allora quasi del tutto assorbito dal lavoro e dalla famiglia e solo marginalmente si interessava alla politica.
Di idee liberali "per convinzione e per temperamento" (Memorie di L. Facta, in Repaci, La marcia su Roma, p. 904), a 23 anni venne eletto nel Consiglio comunale di Pinerolo e per diverso tempo ricoprì varie cariche amministrative locali.
Il suo ingresso nella politica nazionale avvenne in occasione delle elezioni del novembre 1892 per motivi accidentali e non senza una certa ritrosia da parte dell'interessato. A convincerlo furono infatti alcuni suoi amici che intendevano contrastare l'elezione di un altro esponente liberale, poggiando sulla stima, e sul consenso che il F. si era guadagnato nel collegio anche in virtù del buon ricordo lasciato dal padre.
Il F. risultò eletto e da allora sedette ininterrottamente per ben nove legislature, fino al 1923, alla Camera in rappresentanza del collegio di Pinerolo. Nelle sue memorie affermò di considerare la quasi unanimità dei suffragi e l'"incessante mirabile affetto" per tanto tempo riscosso nel collegio elettorale come la vera grande soddisfazione della sua carriera politica. Entrato giovanissimo alla Camera, si schierò subito tra i seguaci di G. Giolitti. La devozione nei suoi confronti e la dichiarata fedeltà alla sua visione politica furono tratti caratterizzanti dell'intera vicenda politica del F. come deputato, ministro e presidente del Consiglio. Per questo sono stati in molti, suoi contemporanei e storici, ad ascrivere le fortune politiche del F. alla sua supina accondiscendenza verso Giolitti.
La lunga partecipazione del F. ai governi ebbe inizio il 3 nov. 1903, allorché venne nominato sottosegretario di Grazia e Giustizia e dei Culti nel governo Giolitti. Mantenne la medesima carica nei successivi governi Tittoni e Fortis fino al 22 dic. 1905. Nel secondo ministero Fortis, dal 24 dic. 1905 all'8 febbr. 1906, fu sottosegretario agli Interni e, dopo un breve intervallo (governo Sonnino), riassunse la carica nel ministero Giolitti dal 29 maggio 1906 al 10 dic. 1909. Ancora fuori del governo Sonnino, il F. venne promosso ministro delle Finanze il 31 marzo 1910 nel governo Luzzatti e mantenne la carica nel successivo governo Giolitti dal 30 marzo 1911 al 19 marzo 1914. Tornò al governo come ministro di Grazia e Giustizia nel ministero Orlando dal 18 genn. al 23 giugno 1919 (subentrando a Ettore Sacchi) e fu poi ministro delle Finanze nel governo Giolitti dal 10 ag. 1920 al 4 luglio 1921.
Quando, alla fine del 1921, Giolitti ritenne maturi i tempi per un suo ritorno al potere, il F. si assunse il compito di guidare la manovra contro il governo Bonomi. Pur avendo, appena un mese prima, convinto egli stesso i suoi colleghi di gruppo, orientati ad aprire la crisi, a mantenere temporaneamente la fiducia a I. Bonomi, a dicembre il F. attaccò il governo sulla questione dei rapporti con la Russia sovietica. Il 2 febbr. 1922, assente, fece comunque sapere di aderire alla mozione di sfiducia al governo proposta dalla maggioranza del gruppo parlamentare democratico. Nella difficile crisi che ne seguì il F. svolse, in proprio o per conto altrui, un ruolo fondamentale. Il 22 febbraio rifiutò di partecipare a una combinazione di governo insieme con E. De Nicola e V. E. Orlando, dopo che essi avevano a loro volta rifiutato di far parte di un governo presieduto da Giolitti in qualità di primus inter pares.
L'atteggiamento del F. assunse quindi il significato di una rivalsa nei confronti di De Nicola e Orlando, contribuendo a rendere più intricata la crisi. Quando l'incarico di formare il nuovo governo venne affidato al F. questi si rivelò abile a superare piccoli e grandi ostacoli, facendosi peraltro forte della volontà del re di risolvere al più presto la crisi. Dopo aver vinto perplessità e resistenze in campo democratico e giolittiano, il F. si impegnò per guadagnare il consenso dei popolari, cosa che avvenne in tempi rapidi.
A quel punto la sua fatica poteva considerarsi virtualmente conclusa, anche se fino all'ultimo non mancarono i tentativi di rovesciare la situazione da parte di quelle forze che puntavano ancora su Giolitti. Il 25 febbraio il F. poté infine annunciare la formazione del governo, nel quale assunse anche la responsabilità degli Interni e, fino al 19 marzo, l'interim delle Terre liberate.
"Facta aveva così dimostrato di possedere qualità politiche insospettate, conseguendo "pacificamente" ciò che invano avevano cercato di ottenere Giolitti, Orlando e lo stesso De Nicola, cioè quel governo di concentrazione costituzionale da cui fossero esclusi i socialisti e diretto contro di loro, quel gabinetto cioè la cui costituzione si era rivelata impossibile negli anni del dopoguerra" (Veneruso, p. 118). Se per quanto riguardava la composizione il governo rappresentava un compromesso, non così era per quanto concerneva l'indirizzo politico, poiché il peso delle destre risultava indubbiamente accresciuto rispetto ai precedenti governi.
Il governo diede subito l'impressione di poggiare su un equilibrio estremamente precario. Si trattava, del resto, di una soluzione transitoria in vista di un chiarimento definitivo della situazione politica, anche se ciò non impedì al governo di svolgere un'attività più rimarchevole di quanto si creda.
Le vicende successive che portarono all'avvento del fascismo hanno infatti pesantemente condizionato il giudizio sul governo Facta, cosi che "il funzionamento delle istituzioni, la concreta opera amministrativa, politica, economica, sono stati lasciati nell'ombra per mettere in luce solo il fatto principe, l'ascesa irresistibile e poi la presa del potere da parte del fascismo in Italia" (ibid., p. 124).
Il governo Facta aveva davanti a sé una serie di gravi problemi da affrontare e tra questi il più impellente era senza dubbio quello dell'ordine pubblico. Nel presentare il programma del suo ministero alla Camera, il 15 marzo, il F. affermò che il ripristino dell'ordine rappresentava "la prima condizione, la più necessaria" e richiamò funzionari e magistrati all'imparzialità tra le parti in conflitto. Ma sulla stessa imparzialità del governo e sulla sua capacità di intervenire con energia laddove non erano riusciti i precedenti governi, meno condizionati dalla Destra, sussistevano legittimi dubbi. Da un tale condizionamento era parso liberarsi allorché, su pressione dei popolari, varò tra i primi provvedimenti uno che sospendeva le disdette agrarie in tre province della Toscana, suscitando la dura reazione delle destre.
L'agricoltura era allora investita da aspri conflitti e i proprietari agrari cercavano di imporre ai contadini nuovi contratti più sfavorevoli rispetto a quelli vigenti. Un segnale ulteriore dell'ondata reazionaria ormai prevalente nelle campagne si ebbe quando fu presentato alla Camera il progetto di legge per la coltivazione del latifondo, che fu emendato al punto da essere snaturato. Il medesimo segno restauratore avevano altri interventi governativi in politica economica e finanziaria. Di fronte alla crisi dell'industria navalmeccanica e del sistema portuale il governo ritenne opportuno sovvenzionare l'Ansaldo così come finanziò il concordato tra la Banca di sconto e i suoi creditori. Questi interventi furono aspramente criticati dagli economisti liberali, L. Einaudi e L. Luzzatto. Tra le misure più significative in campo finanziario va poi segnalato il disegno di legge governativo con cui si sanciva la pratica abolizione della nominatività dei titoli e delle obbligazioni.
In politica estera il principale impegno consisteva nella preparazione della conferenza economica internazionale, che si aprì a Genova il 10 aprile. La preoccupazione della diplomazia italiana era quella di non sbilanciarsi troppo a favore di Francia o Inghilterra, divise da molti contrasti.
Sotto la spinta delle destre il governo F. finì per sposare la posizione francese contraria a qualsiasi apertura alla Russia sovietica, mentre per quanto riguardava la politica coloniale fu vanamente ricercata un'intesa con l'Inghilterra. Anche i rapporti tra l'Italia e i Balcani restavano, ad oltre un anno dal trattato di Rapallo, inchiodati alla questione di Fiume. Di fronte al progressivo raffreddamento dei Fiumani verso l'Italia, nazionalisti e fascisti avevano tentato una nuova soluzione di forza penetrando in Fiume il 1° marzo. I fascisti furono poi costretti dall'atteggiamento della popolazione a ritirarsi, ma restava il fatto grave che il governo Facta non aveva reagito alla prova di forza.
I fatti di Fiume e la condotta dell'Italia alla conferenza di Genova dimostrarono quanto contavano le pressioni nazionaliste e fasciste sulla politica estera. Ma, date le circostanze, il governo andava giudicato soprattutto in materia di ordine pubblico e qui, ad onta delle dichiarazioni, esso si rivelò del tutto incapace a contrastare la violenza fascista, non solo sul piano militare ma persino su quello istituzionale. Di fronte al sistematico assalto dei fascisti alle amministrazioni locali, il F. tentò una debole difesa, ma poi si piegò imponendo al posto delle libere amministrazioni commissari regi o prefettizi.
Fu l'insostenibile situazione dell'ordine pubblico, culminata nell'occupazione fascista di Bologna, Ferrara e Cremona, a determinare la caduta del governo. Il 19 luglio il F. decise di affrontare il dibattito parlamentare allo scopo di chiarire l'atteggiamento delle varie forze politiche nei confronti del suo governo. Nel discorso alla Camera, dopo aver richiamato i partiti a uno sforzo collaborativo, il F. affermò che le responsabilità del peggioramento della situazione non potevano essere imputate solo a lui, ma anche a quei funzionari e magistrati che non avevano seguito le sue istruzioni. Questa chiamata in correo venne aspramente criticata dalla Destra. La discussione si concluse con l'approvazione di un ordine del giorno di sfiducia al governo, presentato dai popolari e che ebbe anche il voto dei socialisti, social-riformisti, demo-sociali, comunisti, repubblicani, fascisti e di parte del gruppo nittiano. Contro la crisi si pronunciarono solo i giolittiani, i liberali di destra, i nazionalisti e gli agrari. Al F. non rimase che presentare le immediate dimissioni.
Un giudizio complessivo del governo Facta induce a considerarne la formazione e l'attività come un momento decisivo del processo di involuzione autoritaria, al punto che "l'avventura di ottobre sarebbe stata inconcepibile senza quel determinato tipo di soluzione della crisi politica che si ebbe nel febbraio e perfino certi modi del governo fascista (politica di salvataggio delle industrie, intensificazione dei lavori pubblici) non si spiegherebbero senza valutare e tenere conto di quanto e di come operò anche in questo settore economico-finanziario il gabinetto Facta" (Veneruso, p. 529).
La nuova crisi coglieva impreparate le forze politiche, sempre più incapaci di dare concretezza a qualsiasi ipotesi di governo. L'indicazione di una coalizione di governo tra socialisti, democratici e popolari si scontrava, oltre che con l'incertezza di queste forze politiche, Con il timore, da parte di qualcuno, che una chiara caratterizzazione antifascista del governo potesse spingere ancor più il fascismo sulla strada della sedizione, mentre ancora ci si illudeva di un suo recupero alla legalità.
Dopo che diversi esponenti politici - da Orlando a Bonomi, da F. Meda a G. De Nava e poi ancora Orlando - non riuscirono a portare a termine l'incarico, il 30 luglio il re conferì al F. il mandato per costituire un nuovo governo. Il F. nutriva orti perplessità sul reincarico e era deciso a ritirarsi a Pinerolo: a indurlo ad accettare l'assai gravosa responsabilità concorse probabilmente più di tutti la sua devozione nei confronti del sovrano. Il giorno successivo il F. riuscì a formare il suo secondo governo, la cui fisionomia era sostanzialmente identica al precedente. Uno dei pochi mutamenti significativi fu la nomina di C. Taddei, uomo di grande energia ed equilibrio, a ministro dell'Interno.
Il governo ottenne la fiducia della Camera il 10 agosto con 247 voti contro 121. Si pronunciarono a favore tutti i gruppi meno socialisti, comunisti e fascisti. Davanti al Parlamento il F. rimarcò la continuità col precedente gabinetto e pose al centro dei problemi quello del ristabilimento della legalità. Ma con i fascisti ormai decisi all'insurrezione, con le divisioni nella maggioranza e in seno allo stesso governo (dove sedevano avversari del fascismo insieme con filofascisti), il destino dei secondo ministero Facta appariva più precario del precedente. Ancor prima della fiducia il governo aveva dovuto affrontare la prova dello sciopero generale e poi assistere impotente a una serie di gravi atti dello squadrismo fascista. Il 17 agosto il F. lasciò Roma per trascorrere un periodo di riposo a Pinerolo e fece definitivo ritorno nella capitale soltanto il 6 ottobre.
Nella corrispondenza con la moglie Maria Clotilde Arnosio il F. manifestava con insistenza il proposito di abbandonare: "la nostra fine è imminente... - scriveva il 12 ottobre - Per me è una tale liberazione da non potersi immaginare ... Ho il pensiero di tornarmene alla mia vita privata: ne sono così ardentemente desideroso" (Repaci, p. 86). Queste affermazioni contrastano con la tesi circa supposti tentativi del F. di succedere a se stesso alla guida di un più stabile governo. Più accreditata l'ipotesi secondo cui il F., rifiutando di seguire la linea repressiva contro i fascisti, come pure avrebbero voluto alcuni ministri, cercava di non compromettere le possibilità di un ritorno al potere di Giolitti con l'accordo dei fascisti. In questa luce può essere visto il suo ruolo nella convulsa serie di contatti, incontri, trattative che si svolsero tra i maggiori esponenti politici alla vigilia della marcia su Roma.
Il F. attendeva gli esiti delle trattative tra Giolitti e Mussolini attraverso il prefetto A. Lusignoli quando, il 26 ottobre, il capo del fascismo gli fece conoscere la propria disponibilità ad entrare in un ministero guidato dallo stesso Facta. Per Mussolini si trattava di un espediente per scongiurare un'apertura anticipata della crisi e un incarico a Giolitti, mentre era in atto l'adunata fascista di Napoli, ma il F. ne dedusse che l'intesa con i fascisti era ancora praticabile e l'insurrezione evitabile. Nello stesso tempo s'incontrò con Calandra, che gli suggerì di dimettersi; il F. sottopose questa proposta ai ministri, che nella loro maggioranza si opposero ad un atto che suonava resa di fronte al fascismo. Poiché i ministri decisero tuttavia di rimettere il loro mandato a disposizione del F. e poiché lo stesso F. comunicò di aver inviato una lettera a Mussolini, prese corpo l'ipotesi di un rimpasto governativo con l'immissione dei fascisti.
Mentre, all'alba del 27 ottobre, il F. suggeriva al re di rientrare da San Rossore a Roma per "tranquillizzare" quanti percepivano la gravità della situazione, aveva inizio la sedizione fascista. Il F., appena informato da Lusignoli del fallimento delle trattative Giolitti-Mussolini, propose al re la proclamazione dello stato d'assedio. La decisione, assunta dal governo all'alba del 28 ottobre, fu sottoposta per la firma del sovrano alle ore 9, quando erano già state diramate le disposizioni ai prefetti e ai comandanti militari. Il rifiuto del re di firmare il decreto indusse il F. a rassegnare le dimissioni. Usciva così di scena un uomo "chiamato dalla sorte ad essere strumento inconsapevole di una svolta nella storia" (Valeri, Da Giolitti a Mussolini p. 133).
Sul grado di consapevolezza che il F. ebbe in un passaggio decisivo della storia nazionale si possono ovviamente dare valutazioni diverse, anche se il "giudizio storico è sfavorevole al deputato di Pinerolo in una misura che è raro trovarne l'eguale" e il suo ritratto è stato fissato "come quello di un debole e di un incerto" (Veneruso, p. 125). Questi giudizi possono essere a loro volta spiegati col fatto che "dopo l'avvento del fascismo, tutti avevano interesse a minimizzare la figura del Facta" considerandolo "un tipico esponente del vecchio ordine politico", mentre "la storiografia antifascista lo bolla come colui che consegnò senza combattere lo stato ai ribelli" (ibid.).
Verso il fascismo il F. assunse poi un atteggiamento fiancheggiatore e il 18 sett. 1924 fu nominato senatore.
Morì a Pinerolo il 5 nov. 1930.
Fonti e Bibl.: I documenti più significativi dell'archivio Facta sono pubblicati in App. al volume di A. Repaci, La marcia su Roma, Milano 1972. Lo stesso volume contiene in App. le Memorie di L. Facta e altri dati a lui relativi per i quali si rimanda ad Indicem; Roma, Archivio centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio dei ministri, 1922 e Ministero dell'Interno, 1922; Dalle carte di G. Giolitti. Quarant'anni di politica italiana, III, Dai prodromi della grande guerra al fascismo (1910-1922), a cura di C. Pavone, Milano 1962, ad Indicem; G. Giolitti, Memorie della mia vita, Milano 1982, ad Indicem; S. Cilibrizzi, Storia parlamentare, politica e diplomatica d'Italia. Da Novara a Vittorio Veneto, IV (1909-1914), Napoli 1939, ad Indicem; V (1914-1916), ibid. 1940, ad Indicem; VII (1917-1918), Roma s.d., ad Indicem; VIII (1918-1920), ibid. s.d., ad Indicem; E. Ferraris, La marcia su Roma vista dal Viminale, Roma 1946, ad Indicem; N. Valeri, Perplessità di F., in Da Giolitti a Mussolini. Momenti della crisi del liberalismo, Firenze 1956, pp. 123-177; L. Salvatorelli-G. Mira, Storia d'Italia nel periodo fascista, Torino 1957, ad Indicem; F. Chabod, L'Italia contemporanea (1918-1948), Torino 1961, ad Indicem; G. Perticone, L'Italia contemporanea dal 1871 al 1948, Milano 1962, ad Indicem; G. Salvemini, Il ministro della malavita e altri scritti sull'età giolittiana, a cura di E. Apih, Milano 1962, ad Indicem; P. Alatri, Le origini del fascismo, Roma 1966, ad Indicem; G. Salvemini, Le origini del fascismo in Italia, Milano 1966, ad Indicem; R. De Felice, Mussolini. Il fascista, I, La conquista del potere (1921-1925), Torino 1966, ad Indicem; E. Santarelli, Storia del movimento e del regime fascista, Roma 1967, ad Indicem; D. Veneruso, La vigilia del fascismo. Il primo ministero Facta nella crisi dello Stato liberale in Italia, Bologna 1968, ad Indicem; F. Catalano, L'Italia dalla dittatura alla democrazia 1919/1948, Milano 1970, ad Indicem; S. Zavoli, Nascita di una dittatura, Torino 1973, ad Indicem; N. Valeri, Dalla "belle époque" al fascismo, Bari 1975, pp. 95-99; A. Lyttelton, La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al 1929, Bari 1974, ad Indicem; P. Nenni, Storia di quattro anni 1919-1922, Milano 1976, ad Indicem; A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo, Bari 1976, ad Indicem; G. Candeloro, Storia dell'Italia moderna, VIII, La prima guerra mondiale, il dopoguerra, l'avvento del fascismo, Milano 1978, ad Indicem; Enc. Ital., XIV, ad vocem; Enc. biogr. e bibliogr. "Italiana", A. Malatesta, Ministri, deputati e senatori dal 1848 al 1922, Milano 1941, ad vocem; F. Bortolotta, Parlamenti e governi d'Italia dal 1848 al 1970, Roma 1971, ad Indicem; Lessico univers. ital., VIII, ad vocem; Enc. dell'antifascismo e della Resistenza, II, ad vocem; M. Missori, Governi, alte cariche dello Stato e prefetti del Regno d'Italia, Roma 1973, ad Indicem.