GASPAROTTO, Luigi
Nacque a Sacile (allora in provincia di Udine) il 31 maggio 1873 da Leopoldo, piccolo proprietario terriero (1844-1907), e da Clementina Ciotti. Il padre, che aveva combattuto con Garibaldi nel 1866 in Trentino e nel 1867 a Mentana, lo educò agli ideali democratici e laici propri della più schietta tradizione risorgimentale e garibaldina.
Dopo aver frequentato il liceo prima a Parma, poi a Bologna e infine a Treviso, nel 1893 il G. si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell'Università di Padova, dove il 25 luglio 1897 si laureò discutendo una tesi di diritto internazionale su Il principio di nazionalità nella sociologia e nel diritto internazionale, che di lì a poco venne pubblicata nella Rivista italiana per le scienze giuridiche (5 dic. 1897 e 12 febbr. 1898; poi in volume, Torino 1898).
Il G. criticava la "dottrina classica" nata in Italia nel 1851 con P.S. Mancini, la quale faceva discendere, in forma "rigida e quasi fatalistica", il "principio di nazionalità" da "un doppio ordine di fattori: naturali" ("razza, lingua, territorio"), e "storici" ("storia, costumanze, leggi, religione"), cui infondeva "vita il soffio animatore di una coscienza nazionale", intesa "non come fatto etnico, linguistico o geografico e neppure come libertà capricciosa, ma come necessario prodotto storico, etico e culturale". Pertanto, si sforzava di dimostrare, con argomentazioni fondate su una "elementare critica positivista", che, come aveva predicato sempre G. Mazzini, la "coscienza nazionale" si riduceva alla "volontà di affermare la propria sovranità" da parte del "popolo", il quale "sapeva che questa gli assicurava la libertà".
Nell'ottobre 1897 il G. si trasferì a Milano, dove prese a esercitare l'avvocatura. L'8 luglio 1899 sposò a Sacile una sua concittadina, Maria Biglia. In quel medesimo periodo aderì alla massoneria e, fedele alle idee instillategli dal padre, si iscrisse alla Società democratica lombarda, la più antica e la più importante tra le associazioni radicali italiane, della quale già nei primi anni dell'età giolittiana diventò uno dei dirigenti più autorevoli e più operosi. Sin dagli inizi della sua attività politica mostrò di avere a cuore in modo particolare gli interessi della piccola e media borghesia dell'impiego e delle libere professioni. A tale proposito, nei primi mesi del 1901 promosse a Milano, d'intesa con il socialista A. Cabrini e il democratico P. Brùgora, un movimento a favore degli impiegati pubblici e privati, patrocinato poi alla Camera dallo stesso Cabrini, da F. Turati e dal leader radicale E. Sacchi. Scopo del movimento era far sì che agli impiegati pubblici venisse concesso lo stato giuridico e a quelli privati il contratto di lavoro e il riposo festivo.
Tra il 1902 e il 1905 il G. pubblicò anche due brevi monografie (Per un giorno di riposo. Una nuova organizzazione. La legislazione del lavoro in Italia. Il riposo settimanale, Milano 1902; Contenuto e limiti di una legge sul riposo settimanale. Postilla alla monografia "Per un giorno di riposo", in Critica sociale, 1° nov. 1905, pp. 330-333; 16 novembre - 1° dic. 1905, pp. 350-357), nelle quali sosteneva la necessità, dettata da motivi di ordine fisiologico, economico, morale, sociale e di elevazione intellettuale dei lavoratori, che in Italia - al pari di quanto già accadeva in alcuni dei paesi civilmente più evoluti - una legge imponesse l'obbligo del riposo domenicale a beneficio della "classe degli impiegati e commessi d'aziende private", i quali costituivano "una specie di proletariato del pensiero", di quelle categorie del proletariato industriale che ancora non ne usufruivano, dei lavoratori agricoli, dei domestici e dei giornalisti.
In occasione delle elezioni del marzo 1909 tentò per la prima volta di farsi eleggere alla Camera, candidandosi a Milano in rappresentanza del Partito radicale con un programma antigiolittiano, ma venne sconfitto. Ebbe maggior fortuna nella consultazione elettorale dell'ottobre-novembre 1913, allorché fu eletto nel collegio di Milano IV, dopo un ballottaggio con il candidato ministeriale, il clerico-moderato C.O. Cornaggia Medici, il quale, grazie al sostegno di G. Giolitti, era deputato di quel collegio dal 1904. Di Giolitti il G. fu sempre avversario, perché - pur apprezzandone l'impegno volto a favorire l'elevazione economica della classe lavoratrice - ne disapprovava in maniera completa le ibride intese elettorali con i cattolici e, più in generale, i metodi trasformistici di governo, ancorati a una concezione puramente burocratica e parlamentare della politica.
Nei riguardi dell'impresa libica il G., come la maggior parte dei soci della Società democratica lombarda, manifestò subito perplessità e riserve, poiché - a suo giudizio - si trattava "di conquista di terra notoriamente sterile che impoverirà il Paese, il quale ha bisogno di ben altre e più proficue iniziative", e, del resto, "il possesso del porto di Tripoli" non voleva dire "il dominio del Mediterraneo" (L. Gasparotto, Diario di un deputato. Cinquant'anni di vita politica italiana, Milano 1945, p. 57). Tra la fine del 1913 e gli inizi del '14, dopo che la Libia era divenuta colonia italiana, ammonì più volte che la "colonizzazione" doveva proporsi "scopi di civiltà, non di semplice conquista" (ibid., p. 65). Allo scoppio del primo conflitto mondiale, invece, vinta qualche incertezza iniziale, fu convinto fautore dell'intervento dell'Italia contro gli Imperi centrali, al fine sia di sbarrare il passo all'imperialismo germanico, la cui vittoria "avrebbe imbastardito l'Europa e legittimato di fronte al mondo il diritto della forza, sprofondando nel nulla quello della giustizia" (ibid., p. 69), sia di liberare Trento e Trieste dal dominio asburgico, sia di fare in modo che le aspirazioni nazionali delle minoranze slave che vivevano entro i confini dell'Austria-Ungheria diventassero realtà.
Il 27 maggio 1915, quattro giorni dopo la dichiarazione di guerra contro l'Austria-Ungheria, presentò domanda di arruolamento come semplice soldato di fanteria e quando il 17 giugno fu nominato sottotenente degli alpini chiese subito di essere inviato al fronte. Per il coraggio dimostrato in molte azioni belliche si guadagnò tre medaglie d'argento, una medaglia di bronzo e due croci di guerra al valor militare, la legion d'onore di Francia e, il 14 ott. 1917, la promozione a tenente.
Della propria esperienza di guerra il G. ha lasciato un'attenta e vivace testimonianza nel suo Diario di un fante (Milano 1919; nuova ed. riveduta e ampliata con il titolo Rapsodie (Diario di un fante), ibid. 1922, e successive edizioni).
Pur impegnato spessissimo in prima linea, non trascurò il mandato parlamentare e dopo la sconfitta di Caporetto fu tra i promotori del Fascio parlamentare di difesa nazionale, nato il 10 dic. 1917 per volontà di alcuni ex interventisti con l'intento di combattere all'interno del Paese qualsiasi forma di "disfattismo" e altresì di raccogliere e coordinare gli sforzi di quei deputati e di quei senatori risoluti a portare avanti la guerra sino alla vittoria, senza piegarsi a un'eventuale pace separata.
Oltre a ciò, nella prima metà di ottobre del 1918, poco prima che fosse sferrata l'offensiva di Vittorio Veneto, avendo appreso da un generale del comando militare britannico che non solo l'esercito, ma l'intero Impero austro-ungarico erano in dissoluzione, scrisse due lettere al presidente del Consiglio, V.E. Orlando, esortandolo a intervenire presso il comando supremo italiano affinché fosse dato l'ordine all'esercito di passare al più presto il Piave e attaccare gli Austriaci, per evitare che la guerra finisse prima della sconfitta di questi ultimi sul campo di battaglia.
Al termine del conflitto fu tra i fondatori dell'Associazione nazionale combattenti, sorta a Milano nel marzo 1919. I suoi sentimenti interventisti lo spinsero a schierarsi per lo più fra gli oppositori tanto dei governi Nitti, quanto del ministero Giolitti. Essendo stati neutralisti nel 1914-15, né F.S. Nitti né Giolitti gli sembravano gli uomini politici più adatti a difendere gli ideali e gli scopi per i quali l'Italia era entrata in guerra e più di 600.000 italiani avevano dato la vita. Per tale ragione l'11 maggio 1920 rifiutò il portafoglio delle Poste e Telegrafi che Nitti gli aveva offerto.
In merito alla questione adriatica, pur di impedire una guerra per Fiume, si mostrò favorevole a un accordo con la Jugoslavia e con gli alleati che permettesse l'annessione allo Stato italiano, oltre che di tutta l'Istria e di Zara, di Fiume e di Porto Baros, in cambio della rinuncia dell'Italia ai diritti che il patto di Londra del 26 apr. 1915 le riconosceva sulla Dalmazia. Inoltre, fu risoluto fautore dell'introduzione nelle elezioni politiche del sistema proporzionale con scrutinio di lista.
Il nome del G. è legato soprattutto alla presentazione, il 29 luglio 1919, di un progetto di legge per l'estensione alla donne dell'elettorato attivo e passivo, sia politico sia amministrativo, quale doveroso riconoscimento per le prove di maturità fornite dalle donne italiane durante il conflitto. Il progetto, firmato anche dal liberale F. Martini e dal popolare G. Micheli, fu approvato dalla Camera a larga maggioranza il 5 sett. 1919, ma decadde, poiché l'impresa fiumana provocò la chiusura della legislatura prima che fosse data al Senato la possibilità di votarlo.
Alla vigilia della consultazione elettorale politica del novembre 1919 si dimise dalla Società democratica lombarda e dal Partito radicale, a causa di gravi contrasti sorti in seno all'associazione radicale milanese a proposito della tattica da seguire a Milano in vista delle elezioni.
Si creò, infatti, una spaccatura fra quanti, e tra questi il G., avrebbero voluto un accordo con la sezione milanese dell'Associazione nazionale combattenti, con i socialriformisti e con i repubblicani, in modo da mettere in piedi un blocco delle forze dell'interventismo democratico, e quanti, viceversa, riuscirono a far prevalere la linea dell'alleanza con i liberali e i democratici costituzionali.
Alle elezioni il G. si presentò in due liste del movimento degli ex combattenti. Dopo essere stato eletto sia nel collegio di Milano, sia in quello di Udine-Belluno e aver scelto il secondo, fu tra coloro che nel dicembre 1919 diedero vita al nuovo gruppo parlamentare del Rinnovamento nazionale, espressione del movimento dei reduci. Anche alle elezioni politiche del maggio 1921 si candidò in rappresentanza degli ex combattenti, entrando in due liste del "blocco nazionale" (comprendenti pure candidati fascisti), nei collegi di Milano-Pavia e di Udine-Belluno. Eletto anche questa volta in entrambi, optò per quello di Milano-Pavia. Nel giugno 1921 si fece promotore della fusione di buona parte del gruppo parlamentare del Rinnovamento nazionale con quello radicale. Si formò in tal modo il gruppo parlamentare democratico sociale, che costituì il nucleo intorno al quale nell'aprile 1922 nacque, specialmente per volontà di G.A. Colonna di Cesarò, il partito della Democrazia sociale, erede diretto del disciolto Partito radicale.
Il 13 giugno 1921 fu eletto vicepresidente della Camera. Tuttavia mantenne questa carica per meno di un mese, dato che il 4 luglio venne chiamato dal nuovo presidente del Consiglio, I. Bonomi, a reggere il dicastero della Guerra, dove rimase fino al 26 febbr. 1922.
Come ministro della Guerra, nel novembre 1921 fece tumulare la salma del "milite ignoto", cioè di un soldato italiano non identificato caduto sul fronte austriaco, in un sacello posto sull'Altare della Patria, ai piedi del Campidoglio, come simbolo di vittoria, di sacrificio supremo per la patria e di unità nazionale. Convinto, inoltre, che solo un borghese potesse dare un assetto più razionale alle forze armate, nell'autunno 1921 elaborò un "progetto per un nuovo ordinamento dell'esercito", peraltro mai trasformato in un disegno di legge a causa delle resistenze delle alte gerarchie militari, il quale si ispirava a un principio di matrice democratico-risorgimentale propugnato da C. Pisacane, C. Cattaneo e G. Garibaldi: quello della "nazione armata" o, più esattamente, della "mobilitazione armata della nazione". Il progetto di riforma dell'ordinamento militare, che lo stesso G. presentò in modo esplicito come un avviamento alla "nazione armata", prevedeva, da un lato, la restrizione della ferma ordinaria a una durata massima di 12 mesi e la riduzione dell'esercito di pace, vale a dire dell'esercito permanente, a 175.000 uomini e a 20 divisioni e, dall'altro, l'istituzione nelle scuole pubbliche di corsi d'istruzione premilitare e la costituzione, a fianco dell'esercito di pace e in stretta correlazione e collaborazione con esso, di circa 200 "centri di mobilitazione permanente" distribuiti in tutto il paese, di cui dovevano far parte tutti i cittadini atti alle armi. In caso di necessità costoro, inquadrati sia da ufficiali di carriera sia da ufficiali di complemento in 40 divisioni, avrebbero formato l'esercito di guerra, insieme con le 20 divisioni dell'esercito stanziale. Trascurava del tutto, invece, la questione della pletorica e costosissima macchina burocratica militare, in gran parte impiegata per compiti non collegati direttamente alla difesa del territorio nazionale o alla preparazione bellica.
Verso il fascismo sin dal 1921 il G. mostrò notevole indulgenza; come la maggioranza dei demosociali e dei liberali, considerava il movimento fascista semplicemente una forza da usare come strumento per debellare il "pericolo bolscevico" e per ristabilire nel Paese "l'ordine e la disciplina" di continuo turbati dagli scioperi, specie nei pubblici servizi, e dalle agitazioni operaie e contadine. Nel medesimo tempo era convinto che, una volta che il fascismo avesse assolto con successo tale ufficio, non sarebbe stato difficile "normalizzarlo", integrandolo nelle strutture dello Stato liberale. In conformità a queste sue convinzioni, nel settembre 1922 promosse la creazione, per le elezioni amministrative che si tennero a Milano in dicembre, di un grande blocco elettorale tra i demosociali, i liberali, i nazionalisti e i fascisti. Di lì a poco, il 17 dic. 1922, votò la fiducia al governo Mussolini, dopo aver pronunciato la dichiarazione di voto per conto del gruppo parlamentare democratico sociale, nella quale affermò che la Democrazia sociale si rivolgeva "fidente" al "cuore di soldato e di cittadino" di B. Mussolini. Infine, in occasione delle elezioni politiche dell'aprile 1924, accettò, nonostante il veto posto dal Consiglio nazionale demosociale, l'invito a far parte del "listone" fascista presentato nella circoscrizione elettorale della Lombardia, uscendo, al tempo stesso, dalla Democrazia sociale.
Rieletto, il 27 maggio 1924 fu nominato per la seconda volta vicepresidente della Camera con i voti sia dei deputati fascisti sia di molti deputati dell'opposizione. Soltanto l'assassinio di G. Matteotti gli fece aprire gli occhi sulla reale natura del fascismo. Pur non aderendo alla secessione dell'Aventino, che giudicò un errore politico, volle essere tra quei deputati che dal 15 nov. 1924 diedero vita alla cosiddetta "opposizione nell'aula". Mussolini cercò di riguadagnarsi il suo sostegno, offrendogli, il 13 genn. 1925, la presidenza della Camera. Egli, però, rifiutò con fermezza e dopo aver votato, il 19 giugno 1925, insieme con altri 41 deputati, contro la legge "fascistissima" che, attraverso il licenziamento dei funzionari sospetti, poneva la burocrazia al completo servizio del fascismo, e, il 9 nov. 1926, unitamente ad altri 11 deputati, contro la legge speciale "per la difesa dello Stato", con la quale si instaurava la pena di morte e si istituiva il tribunale speciale, il 14 dic. 1926 si dimise dalla carica di vicepresidente della Camera, troncando così ogni residuo legame con il regime fascista.
Una volta che il 9 dic. 1928 si fu chiusa la legislatura, si astenne da qualsiasi forma di attività politica e ritornò a esercitare l'avvocatura, pur tra mille difficoltà, dovute al clima di diffidenza e di sospetto creato intorno a lui dalle autorità fasciste.
Quasi a evadere dalla realtà angosciosa che lo circondava, si diede a scrivere, già prima del dicembre 1928, alcuni romanzi storici d'ambientazione risorgimentale, peraltro di modestissimo valore letterario (Sparvieri, Milano 1927; Aquile, ibid. 1930; La via del Campidoglio, ibid. 1945).
Solamente nella primavera del 1942, quando cominciò a delinearsi la crisi militare del fascismo, prese a frequentare gli ambienti antifascisti milanesi, che andavano costituendosi "in Gruppi d'Azione per preparare le manifestazioni cittadine che avrebbero dovuto esprimere, da prima con atti di astensione, poi con decisa e aperta solennità, il dissenso e la volontà del popolo milanese verso il regime sopraffattore" (L. Gasparotto, Diario di un deputato, p. 306).
Caduto Mussolini, l'11 ag. 1943 venne nominato dal governo Badoglio commissario dell'Associazione nazionale combattenti e il 9 e 10 sett. 1943, dopo l'annuncio dell'armistizio, fu tra coloro che tentarono invano di convincere il comandante della piazza di Milano a resistere all'occupazione tedesca e a difendere la città facendo distribuire armi agli operai e formando una "Guardia nazionale" inquadrata da ufficiali dell'esercito. Ricercato dai nazisti, il 15 settembre riuscì a rifugiarsi nel Canton Ticino, dove dal settembre all'ottobre 1944 collaborò attivamente, insieme con altri fuorusciti italiani, all'opera di soccorso e di assistenza alla repubblica partigiana della Val d'Ossola.
Alla Resistenza, d'altronde, anche il G. pagò il suo tributo di sangue. Il 22 giugno 1944, infatti, il figlio Poldo, comandante delle formazioni partigiane lombarde di Giustizia e Libertà, venne ucciso dai Tedeschi nel campo di concentramento di Fossoli, presso Carpi.
Rientrato in Italia il 12 dic. 1944 per invito di I. Bonomi, che intendeva affidargli un incarico nel suo governo, il 12 genn. 1945 venne chiamato di nuovo alla carica di commissario dell'Associazione nazionale combattenti e dal 14 gennaio al 21 giugno 1945 fu ministro dell'Aeronautica nel secondo ministero Bonomi. Contemporaneamente, aderì al Partito democratico del lavoro - il partito erede della tradizione radicale e socialriformista fondato tra la primavera e l'estate del 1943 da I. Bonomi e da M. Ruini -, di cui divenne subito uno degli esponenti più importanti. Ritornò al governo dal 10 dic. 1945 al 13 luglio 1946 come ministro dell'Assistenza postbellica nel primo gabinetto De Gasperi. Alle elezioni per l'Assemblea costituente del giugno 1946, il G. si candidò nel collegio di Milano-Pavia in rappresentanza dell'Unione democratica nazionale, un improvvisato cartello elettorale comprendente i demolaburisti, i liberali e i nittiani, del quale si era fatto promotore Bonomi nel marzo 1946. Nel corso della campagna elettorale, che riguardò anche il referendum istituzionale, non nascose le sue preferenze per la soluzione repubblicana. Non ottenne, però, molti voti e venne eletto soltanto nel collegio unico nazionale.
In seno all'Assemblea costituente si iscrisse al gruppo demolaburista e il 25 marzo 1947 votò, come quasi tutti i componenti del gruppo, contro l'art. 7 della carta costituzionale, in difesa della libertà di religione e di coscienza e dell'assoluta laicità dello Stato. Dopo essere entrato come indipendente nel terzo ministero De Gasperi con la carica di ministro della Difesa, che ricoprì dal 4 febbraio al 31 maggio 1947, partecipò pure al dibattito sull'ordinamento delle forze armate e il 19 maggio 1947, appellandosi alla tradizione risorgimentale, propose senza fortuna di sostituire, in tempo di pace, il reclutamento volontario alla coscrizione obbligatoria, ossia l'esercito di mestiere all'esercito di leva. Caduto il terzo gabinetto De Gasperi, rifiutò di far parte del governo che lo stesso A. De Gasperi costituì il 31 maggio 1947 escludendone tanto i comunisti quanto i socialisti.
Nominato agli inizi del 1948 senatore di diritto per la prima legislatura repubblicana, in esecuzione di una disposizione transitoria della costituzione, si iscrisse al gruppo misto, al pari di Bonomi e Ruini, e il 27 marzo 1949 votò a favore dell'adesione dell'Italia al Patto Atlantico. Poco prima della fine della legislatura, il 24 marzo 1953, alla vigilia della discussione riguardante il disegno di legge governativo di riforma elettorale in senso maggioritario (la cosiddetta "legge truffa"), già approvato, non senza difficoltà e polemiche, dalla Camera, il presidente del Consiglio, De Gasperi, e i gruppi senatoriali dei quattro partiti che formavano la maggioranza di governo (Democrazia cristiana, Partito socialista democratico italiano, Partito repubblicano italiano e Partito liberale italiano) lo invitarono ad accettare la presidenza del Senato. In un primo momento sembrò propenso ad accogliere l'invito, ma la mattina del 25 marzo, lacerato dai dubbi, preferì rinunciare a un incarico che, per il clima politico surriscaldato di quei giorni, l'età avanzata e le sue non buone condizioni di salute, gli appariva troppo gravoso.
Dopo poco più di un anno, il 29 giugno 1954, il G. moriva nella sua casa di campagna di Cantello (Varese).
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