Guicciardini, Luigi
Figlio primogenito di Piero di Iacopo e di Simona di Bongianni Gianfigliazzi, e fratello di Francesco (→), nacque a Firenze nel 1478 e ivi morì nel 1551. Quasi nulla si sa della giovinezza e formazione di G., così come è incerta la data del suo matrimonio con Isabella di Niccolò Sacchetti, sposata probabilmente intorno al 1500 e dalla quale ebbe sei figli (l’unico figlio maschio giunto all’età adulta, Niccolò →, fu professore di diritto nello Studio pisano e divenne senatore nel 1554). Fu eletto fra i Sedici gonfalonieri di compagnia nel 1507, mentre l’anno successivo, per il bimestre novembre-dicembre, ricevette il primo incarico nel priorato. Tra il ritorno al potere dei Medici nel 1512 e il 1527, anno in cui si costituì la seconda Repubblica fiorentina, ricoprì diversi incarichi politici (fu console del mare a Pisa e commissario a Borgo Sansepolcro e a Castrocaro). Eletto gonfaloniere di giustizia per il bimestre marzo-aprile 1527, si trovò a fronteggiare il tumulto del 26 aprile, subendo anche un attentato al quale scampò fortunosamente. Sarà lo stesso G. a fornire una relazione dell’evento, in un’opera sul sacco di Roma (pubblicata a Parigi nel 1664, poi attribuita al fratello Francesco nell’edizione settecentesca). La posizione di G. nel rivolgimento dell’aprile 1527 fu ambigua: fautore dei Medici, non si oppose alla sollevazione, pur consapevole dei delicati problemi di politica estera che la proclamazione della Repubblica avrebbe recato con sé (von Albertini 1955, trad. it. 1970, pp. 105-07). Dovette comunque allontanarsi da Firenze. Nel 1530, dopo la caduta del regime repubblicano, tornò a Pisa in qualità di commissario, e mise a morte il suo predecessore, Pier Adovardo Giachinotti. Questi figurerà in seguito come interlocutore del dialogo Del Savonarola, in cui G. finge di riferire una discussione, avvenuta subito dopo la sconfitta subita a Gavinana dall’esercito guidato da Francesco Ferrucci, tra Giachinotti e un altro commissario, Francesco Zati. Nel dialogo, Zati, fervente piagnone, non accetta il duro giudizio di Giachinotti su Girolamo Savonarola, presentato come un «falso profeta, ipocrita e simulatore» (Del Savonarola, ovvero dialogo tra Francesco Zati e Pieradovardo Giachinotti il giorno dopo la battaglia di Gavinana, a cura di B. Simonetta, 1959, pp. 70-77), capace soltanto di incendiare le folle con vane farneticazioni, non venuto a portare la pace, ma «il coltello et l’arme in mano di qualumque l’udiva» (p. 159). Alla fase immediatamente successiva al crollo della Repubblica risale anche un altro Dialogo, tra il piagnone Francesco Capponi e Piero Vettori, sostenitore della Repubblica, ma preoccupato degli esiti che il processo di radicalizzazione politica attuatosi nell’infuocato clima del 1530 aveva comportato. Anche in questo caso l’analisi proposta da G. presenta «le correnti politiche dell’ultima repubblica fiorentina nel loro duplice aspetto di estremismo politico e religioso», e prospetta «in modo assai chiaro quali furono le critiche mosse all’ultima repubblica da parte degli aristocratici e degli esuli» (von Albertini 1955, trad. it. 1970, p. 273). La questione dell’esilio, la riflessione sulle lotte fratricide che divisero i fiorentini, i dubbi sui «molti et gravi difecti nel principio di questa nostra libertà» costituiscono i punti nodali della discussione tra Capponi e Vettori (e quest’ultimo giunge amaramente a chiedersi dove abbia portato «la fuga di tanti innocenti cittadini, non causata dal sospecto delli inimici, ma dalla malignità di noi medesimi», Dialogo di Francesco Capponi e Piero Vettori disputanti del governo di Firenze, in von Albertini 1955, trad. it. 1970, p. 431). G. seppe adeguarsi ai mutamenti seguiti alla restaurazione medicea e si inserì nel nuovo disegno istituzionale del ducato, collaborando prima con Alessandro (al quale indirizzò nel febbr. 1532 un Discorso intorno alla riforma dello Stato di Firenze: cfr. Gilbert 1935) e poi con Cosimo I. L’esperienza accumulata nel corso dei decenni precedenti lo portò a ricoprire vari incarichi, tra cui quello di commissario a Pistoia nel 1537, dove fu in pericolo di vita a causa delle lotte tra fazioni che dilaniarono la città e furono a fatica represse (Rouchon 2004).
Un episodio della sua biografia, sinora trascurato, mostra che G. ebbe un ruolo nel favorire la circolazione delle opere del fratello Francesco, morto nel maggio del 1540. Da una lettera di Bartolomeo Lanfredini, datata 20 aprile 1541, si apprende in effetti che Cosimo aveva ricevuto in lettura un’opera di Francesco per tramite di G.: «Con questa mando a Vostra Excellentia un libro della cronica del Guicciardino dato da Luigi» (ASF, Mediceo del Principato, f. 350, c. 81v). E così rispose il duca: «Questa mattina habbiamo ricevuto la lettera vostra, et insieme il libro della historia del Guicciardino et ci è stato grato, et ce ne serviremo per passar otio alcuna volta» (BNCF, cod. Magliabechiano II V 26, c. 212r).
Il primo incontro di cui si abbia notizia tra G. e M., e che manifesta una consuetudine già avviata, avvenne a Mantova nel novembre del 1509. È documentato da due missive di M. alla Signoria e da due lettere private inviate nel giro di quelle settimane dallo stesso M. a G.: la prima, in cui si fa riferimento a una «combriccola» alla quale prendono parte con M. Luigi e il fratello Francesco, del 29 novembre; e la seconda, assai nota e che presuppone certo la condivisione di uno stesso universo ludico-letterario, dell’8 dicembre.
Al carnevale di quello stesso 1509 risale con ogni probabilità un’altra testimonianza dei loro rapporti: una stessa carta, la 105 del cod. II i 398 della BNCF, reca sul verso l’autografo del Canto de’ ciurmadori e sul recto, di mano di G. e forse sua, una Canzona della calunnia (cfr. M. Martelli, Un nuovo autografo di Niccolò Machiavelli, «Studi di filolologia italiana», 1978, 36, pp. 407-17; → Rime sparse).
A G., M. dedicò il capitolo “Dell’Ambizione”, pure legato all’esperienza del 1509. In una malevola lettera a Benedetto Varchi, Giovan Battista Busini si diceva: «certo […] che l’Asino d’Oro era da [M.] figurato per Luigi Guicciardini, e di lui si doleva spesso» (cit. in Richardson 1978). Ma da una lettera di G. al fratello Francesco, datata 30 aprile 1526, traspare, anche in quell’epoca, un rapporto cordiale con Machiavelli. Occorre poi ricordare una lettera del 29 luglio 1517 del figlio di G., Niccolò, al padre, in quel momento commissario ad Arezzo, nella quale si menziona l’opuscolo machiavelliano De principatibus, con un cenno all’ottavo capitolo e alla figura di Oliverotto da Fermo (Stephens, Butters 1982). G. leggeva dunque il Principe nello stesso periodo in cui il libro era fra le letture del fratello Francesco (Sasso 1988, pp. 311-12).
Parimenti notevole è la scelta di G. di inserire M. fra i partecipanti a un dialogo sul libero arbitrio, databile al 1533 (Dialogo del libero arbitrio, BNCF, cod. Magliabechiano VIII 1422, cc. 59r-68r). In una lettera del 30 maggio 1533 G. aggiornava il fratello Francesco sulla stesura di alcuni suoi dialoghi (tra cui quello sul governo di Firenze tra Francesco Capponi e Piero Vettori, pubblicato in von Albertini 1955, trad. it. 1970, pp. 428-35), manifestando l’intenzione di mutare i nomi di alcuni interlocutori e «ridurli a nomi greci per offendere meno», ma dichiarava di aver scelto M. «per dipingere uno che con difficultà credessi le cose da credere, non che quelle da ridersene» (F. Guicciardini, Opere inedite, a cura di G. Canestrini, 9° vol., 1866, p. 267).
L’opera è frammentaria, e Felix Gilbert, che per primo ha riconosciuto nel Niccolò in questione il M., l’ha interpretata come documento del mutamento culturale seguito al crollo dell’ultima Repubblica fiorentina. Su una linea analoga si è mosso anche Paolo Simoncelli, che ha inoltre rilevato il sostanziale compromesso che in esso si realizza tra cultura letteraria classicheggiante e teologia cristiana, e ha indicato la presenza, nelle carte del codice Magliabechiano in cui è conservato il dialogo, di un biglietto anonimo, ma riconducibile a G., che contiene un giudizio su un’opera di san Bernardo sul libero arbitrio, con l’osservazione secondo cui «Herasmo nel suo trattato di questa materia l’ha rubbato grandemente» (cfr. Simoncelli 1983, pp. 718-20). Si tratta di un dato che documenterebbe un interesse di G. per i coevi dibattiti religiosi. Un’analisi più circostanziata del dialogo consente di rilevare la presenza di estese citazioni della Commedia dantesca, che uno degli interlocutori, Girolamo, richiama a conferma delle sue tesi. Girolamo cita le opinioni dei «moderni theologi» a sostegno dell’idea secondo cui gli influssi celesti, pur agendo sui corpi, lascerebbero libertà di scelta alle anime, ma sostiene al tempo stesso che la natura ha seppellito nei corpi nascoste radici che possono essere per cause occulte ‘attivate’ anche contro la nostra volontà (Dialogo del libero arbitrio, cit., cc. 60v, 62v). Il ricorso a Dante serve a contrastare le tesi di stoici ed epicurei, riaffermando la centralità della provvidenza divina, contro chi
si è persuaso [che] questo universo o con necessitato o con casuale modo procede, o trovarsi senza particular motor o non mai haver havuto origine, et dover così in eterno perpetuar, o che qualunche anima habitante in questa sublunar regione sia mortale, o essere da diversi principii governato (c. 64v).
Al tema dell’eternità del mondo, presente anche nella riflessione di M. (Discorsi II v), si affianca l’immagine di Dio che mantiene distinti gli opposti impedendo un ritorno al «poetico Chaos» (Dialogo del libero arbitrio, cit., c. 64r).
Il dialogo è peraltro accostabile a temi machiavelliani, laddove riflette sulla figura di un legislatore prudente che, nel creare una repubblica o un principato, deve valutare a fondo la qualità del sito e dell’aria, per poi ordinare leggi con le quali conservare l’unità del popolo, organizzando inoltre «arme proprie prudentemente ordinate» (cc. 66v-67r). Vicino ad alcune idee di M. (Discorsi I i, I iii 2) è anche il tema di una «povertà honorata» (c. 67r-v), che deve impedire all’ozio, origine di tutti i vizi, di attecchire negli animi dei cittadini: secondo Girolamo «la povertà [deve] essere madre d’ogni virtù, per nascere sempre da lei la industria, et da qui ancora, quando è con buono ordine moderata, le laudate opere» (c. 68r). Si tratta di riscontri forse generici, ma è interessante rilevare che l’esposizione di questi concetti è seguita nel dialogo da un’obiezione di Niccolò, che s’interroga sulla ragione per cui la natura abbia instillato negli uomini il desiderio di uscire dalla povertà e di raggiungere una condizione di ozio. Girolamo risponde che la «tanto laudata quiete per troppo sicuro et abbondante viver si converte finalmente in otio», situazione che porta con sé «la ambitione, la superbia, la discordia, la guerra, la crudeltà insieme con altri peximi mali» (c. 68r).
Ai fini di una migliore comprensione, occorre tenere conto di una serie di appunti sulla Commedia presenti nello stesso codice che ha tramandato il dialogo (BNCF, cod. Magliabechiano VIII 1422, cc. 38r-44v). Seguendo Platone, G. afferma che
nessuno influxo celeste può constringere l’anima né al vitio né alla virtù. Ma mentre che è nel corpo et usa gl’instrumenti del corpo, ne’ quali i cieli hanno arbitrio, può per questo accidente l’anima essere inclinata, ma non necessitata né efforzata (c. 42r).
L’ispirazione platonica si riflette nelle definizioni di religione e giustizia («Platone scrive che l’anima venuta in questo basso mondo non può tornare al cielo senza due ali, delle quali l’una è religione, l’altra iustitia, et per religione intende tutte le virtù intellettive et per iustitia tutte le morali», c. 41v), o in considerazioni sulla cosmologia (una è, per esempio, riservata ai nove cieli che si succedono dopo il Primo Mobile, ciascuno dei quali «pel movimento genera […] el suo suono, ma sono varii secondo che sono o più alti o più bassi, et di tutti ne risulta una suavissima melodia di voci, la quale e’ Greci chiamano harmonia», c. 44r). Altrettanto interessanti si rivelano le note di carattere teologico, per esempio sulla distinzione tra pene dell’inferno e del purgatorio.
Lo inferno dà supplicio et non leva la macchia, et questo è manifesto quanto a’ morti, ma ancora è vero nella vita, imperoché chi ha fatto habito del vitio, benché da quegli gli procedino molti supplicii, nondimeno non esce del vitio. Ma le pene del purgatorio levono le macchie et mondano da ogni bruttura, così nel purgatorio essentiale, come nel morale (c. 42r).
O la classica distinzione tra teologia positiva e speculativa, che riflette la contrapposizione tra vita attiva e civile da un lato, e vita contemplativa dall’altro (il primo tipo di teologia si occupa di Dio come principio di moralità, il secondo della divinità come sostanza separata; cfr. c. 43v). Dante fungeva in tal modo da riferimento culturale intorno al quale era possibile condensare una serie di problematiche che avrebbero trovato espressione nel dialogo sul libero arbitrio.
Tra le altre opere di G. occorre menzionarne una, anch’essa purtroppo frammentaria, intitolata Comparatione del giuoco degli scacchi alla arte militare, scritta dopo la battaglia di Pavia del 1526: attraverso il riferimento a esempi classici sviluppa temi come la necessità di scegliere buoni capitani militari e di rispettare la religione ai fini del buon governo, declinati però con tonalità e accenti difficilmente riconducibili a M. (contrariamente a quanto è osservato in Doni 2003, p. 141). Secondo G. il principe deve spogliarsi dei desideri che vengono dai sensi, non può considerarsi superiore alle leggi divine e umane, ma deve al contrario osservarle senza eccezioni, così come deve preferire la conversazione con veri filosofi e non con chi si finge saggio; egli deve inoltre «venerare molto la cristiana religione, ricorrendo sempre in tutte le sue imprese con le debite orationi et solenni sacreficii al monarca dell’universo» (Comparatione…, BNCF, cod. Magliabechiano XIX 54, cc. 20r-21v). In questo quadro trova la sua collocazione la figura di Numa Pompilio, modello di sovrano che preserva il popolo dalla barbarie, in un’età di pace e tranquillità (cc. 22v-23r).
La Comparatione segnala così la notevole distanza tra il giudizio di M. sulla religione cristiana, che avrebbe infiacchito gli animi, ponendo il sommo bene «nella umiltà, abiezione e nel dispregio delle cose umane» (Discorsi II ii 32), e quello di G., che pure non fu del tutto estraneo a umori e a invettive anti-curiali. Nel 1527 scrisse infatti un Proemio delle differenze de’ pontefici antichi e moderni (BNCF, cod. Magliabechiano VIII 1422, cc. 11r-16r) nel quale osservava come la «religione romana» contemporanea fosse in tutto contraria ai precetti di Cristo, mentre ribadiva che «procedendo le cose divine con modo diversissimo dalle naturali et humane» non si poteva valutare il fenomeno religioso sulla base degli stessi principi e leggi che i filosofi adottavano per spiegare il corso delle cose nel mondo corruttibile.
Il confronto tra M. e G. porta infine a segnalare la divergenza fra i due nel giudizio su Savonarola, riferimento imprescindibile delle opere politicamente più impegnate di G., anche nel confronto con le tendenze di ispirazione savonaroliana ravvivatesi dopo il sacco di Roma e dominanti nella seconda Repubblica fiorentina (Simoncelli 1983). Il pur breve proemio sui pontefici citato sopra può essere in tal senso avvicinato ad alcune battute del dialogo che riflettono un marcato anticurialismo e un duro giudizio sull’inettitudine dei poteri secolari ed ecclesiastici della penisola, sulle «iniquità de principi, religiosj et layci» che potrebbero addirittura portare gli italiani ad abbracciare l’eresia luterana o la religione musulmana («Chiamerei il Turcho, o mi scoprirrei lutherano», dichiara Giachinotti; cfr. Del Savonarola..., a cura di B. Simonetta, cit., p. 104). I pochi giudizi superstiti di G. sulla storia della religione cristiana lasciano intendere che a suo avviso la svolta che aprì una lunga fase di corruzione del papato è da individuare nel pontificato di Silvestro I, il papa della donazione costantiniana, ed è in tale momento che si devono individuare le radici del processo che ha condotto al «presente flagello di Roma» (Proemio delle differenze, cit., c. 15r-v). L’aspra condanna che G. formula sulla Chiesa del suo tempo, non era certo incompatibile con quella di M., ma era pienamente maturata nella coscienza del letterato e uomo politico fiorentino soltanto dopo il sacco di Roma.
Bibliografia: Comparatione del giuoco degli scacchi alla arte militare, BNCF, cod. Magliabechiano XIX 54, cc. 1r-23r; Dialogo del libero arbitrio, BNCF, cod. Magliabechiano VIII 1422, cc. 59r68r; Proemio delle differenze de’ pontefici antichi e moderni, BNCF, cod. Magliabechiano VIII 1422, cc. 11r-16r; Del Savonarola, ovvero dialogo tra Francesco Zati e Pieradovardo Giachinotti il giorno dopo la battaglia di Gavinana, a cura di B. Simonetta, Firenze 1959.
Per gli studi critici si vedano: F. Gilbert, Alcuni discorsi di uomini politici fiorentini e la politica di Clemente VII per la restaurazione medicea, «Archivio storico italiano», 1935, 93, 2, pp. 3-24; F. Gilbert, Machiavelli in an unknown contemporary dialogue, «Journal of the Warburg Institute», 1937, 2, pp. 163-66; R. von Albertini, Das florentinische Staatsbewusstsein im Übergang von der Republik zum Prinzipat, Bern 1955 (trad. it. Firenze dalla repubblica al principato. Storia e coscienza politica, Torino 1970), ad indicem; B. Richardson, Two notes on Machiavelli’s Asino, «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», 1978, 40, pp. 137-41; J.N. Stephens, H.C. Butters, New light on Machiavelli, «English historical review», 1982, 97, pp. 68-69; P. Simoncelli, Preludi e primi echi di Lutero a Firenze, «Storia e politica», 1983, 22, pp. 675-744; G. Sasso, Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 2° vol., Milano-Napoli 1988, pp. 260-61, 311-12; R. Castagnola, I Guicciardini e le scienze occulte. L’oroscopo di Francesco Guicciardini - Lettere di alchimia, astrologia e cabala a Luigi Guicciardini, Firenze 1990, pp. 374-83 e passim; G. Sasso, Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 4° vol., Milano-Napoli 1997, pp. 3-29; M. Doni, Guicciardini Luigi, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 61° vol., Roma 2003, ad vocem (con bibl. prec.); O. Rouchon, Correspondance et crise territoriale. Les lettres d’un commissaire dans la Toscane des Médicis, in La politique par correspondance. Les usages politiques de la lettre en Italie (XIVe-XVIIIe siècle), éd. J. Boutier, S. Landi, O. Rouchon, Rennes 2009, pp. 109-29.