Luigi Lucchini
Luigi Lucchini si colloca a pieno titolo tra i giuristi che hanno dato un contributo decisivo alla formazione di una autentica cultura giuridico-politica italiana tra Otto e Novecento. Egli ha infatti svolto nella sua vita «ai massimi livelli tutte le funzioni che contano per chi, militando nel campo del diritto, voglia lasciarvi un'impronta di qualche rilievo» (Sbriccoli 1987, 2009, p. 912). Esponente della «penalistica civile», Lucchini riuscirà a muoversi tra la carriera accademica, quella politica e il ruolo di magistrato, rappresentando bene la figura di intellettuale mai trasformista, ma senza dubbio «organico» rispetto all’organizzazione politica e istituzionale, almeno fino alla morte di Giacomo Matteotti.
Lucchini nacque il 10 giugno 1847 a Piove di Sacco, in provincia di Padova, da Girolamo, magistrato, e da Eleonora Anselmi. Allievo di Gian Paolo Tolomei, si laureò a Padova nel 1869. Nel 1871 iniziò a svolgere la professione forense a Venezia senza però abbandonare gli studi e la ricerca: nel 1872 pubblicò la sua monografia sul Carcere preventivo, domandando l’anno dopo la libera docenza. Lucchini ottenne poi l’insegnamento di diritto penale presso la Scuola superiore di commercio di Venezia per l’anno 1873-74 , incarico che proseguì fino al 1876-77.
Nel 1873 pubblicò il volume, meno fortunato del primo, dal titolo La filosofia del diritto e della politica sulle basi dell’evoluzione cosmica, dove emergeva un Lucchini ῾positivista᾿ ed ῾evoluzionista᾿ ma teso verso un «vecchio positivismo» e contrario al «nuovo», a suo avviso «falso». Dopo aver dato alle stampe tale opera, ebbe non pochi problemi per il conseguimento della libera docenza ma alla fine, con decreto dell’11 agosto 1875 venne abilitato presso l’Università di Padova, conservando l’incarico a Venezia. L’anno prima, nel 1874, aveva fondato la «Rivista penale».
Nel 1878 divenne professore ordinario di diritto e procedura penale a Siena, mentre qualche anno dopo partecipò al concorso per le cattedre di diritto e procedura penale a Palermo e a Bologna. Risultando al primo posto in entrambi i concorsi, egli optò per Bologna. Fondatore del Circolo giuridico di Siena, fu anche direttore, dal 1884 e fino al 1921 del «Digesto italiano».
Politicamente vicino a Giuseppe Zanardelli, venne eletto deputato per la prima volta nel 1892 nel primo collegio di Verona. Quasi contemporaneamente all’ingresso in politica, Lucchini lasciò l’insegnamento universitario, mentre nel 1893 divenne consigliere di Cassazione e, dal 1907, presidente di sezione della Cassazione romana . Ebbe certamente un ruolo importante nella redazione del Codice Zanardelli. Fu promotore della riforma del casellario giudiziale, autore del progetto per l’introduzione della condanna condizionale, studiò le cause della delinquenza minorile. Fu anche un sostenitore dell’educazione fisica, fondandone nel 1906 l’Istituto nazionale.
Nominato senatore nel 1908, sommava gli incarichi politici a quelli in magistratura, accanto all’impegno mai abbandonato come direttore della «Rivista penale», il che lo esponeva a non pochi problemi, in alcuni casi rischiando la ricusazione come giudice. Lo scontro con l’Avvocatura e, in particolare, con il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Roma fu aspro a causa di alcune prese di posizione di Lucchini e, nel 1910, Gennaro Escobedo, dalla rivista «La giustizia penale», denunciava il fatto che l’allora presidente della seconda sezione penale della Cassazione non avesse siglato molte sentenze con firma autografa ma avesse usato una stampiglia che la imitava, fatto che gli costò un procedimento di fronte alla Suprema corte disciplinare.
Nel 1916, e su sua richiesta, fu nominato procuratore generale presso la Cassazione di Firenze e lì rimase fino al suo collocamento a riposo d’ufficio nel 1922, anno in cui chiese, con un polemico biglietto rivolto al presidente del Senato, di non essere commemorato al momento della morte. Dopo un iniziale entusiasmo verso il fascismo, morì, da antifascista, a Limone del Garda il 28 settembre 1929.
Il saggio con cui esordiva nella scienza del diritto venne pubblicato nel 1872 ed era dedicato a Francesco Carrara, di cui egli si professava in quella sede «l'umile discepolo». L’opera, che è un importante contributo alla riforma del processo penale, partiva da un presupposto: l’art. 26 dello Statuto fondamentale del Regno dichiarava che la libertà individuale era garantita e che nessuno poteva essere tradotto in giudizio se non nei casi previsti dalla legge e nelle forme da essa prescritte.
La libertà individuale rappresentava il primo di tutti i beni da cui prendevano le mosse le altre libertà, come quelle di culto, dei commerci, l’uguaglianza civile e il rispetto della proprietà. Il punto di partenza era l’idea di libertà e di costituzione come limite del potere con la denuncia dell’impotenza della carta costituzionale o, meglio, dell’elasticità dell’art. 26 dello Statuto. E la stessa statistica giudiziaria, strumento che Lucchini usava ampiamente, dimostrava come le garanzie accordate dalla legge a tutela delle libertà individuali fossero meramente illusorie. A suo avviso, il carcere preventivo era ingiusto perché consisteva in una vera e propria pena anticipatamente inflitta a colui che non era stato ancora dimostrato colpevole e solo per una necessità giustificata si doveva consentire l’arresto dell’imputato durante il processo.
Il 1874 è un anno importante per Lucchini: nasce infatti la «Rivista penale». Mancava un periodico che fosse interamente dedicato alle discipline penalistiche e Lucchini ricordava come l’idea della rivista gli fosse venuta anche in relazione alla presentazione, il 24 febbraio 1874, del Progetto di codice penale italiano da parte del ministro Paolo Onorato Vigliani. Ma l’unificazione penale avrebbe tardato a venire e restavano tre diversi codici penali vigenti per la penisola. Negli anni successivi, Lucchini avrebbe dedicato molto spazio e attenzione attraverso la sua rivista-persona ai progetti per il nuovo e unico codice penale per il Paese.
Importante e correlato alla realizzazione del nuovo codice era stato anche l’impegno di Lucchini e della sua rivista in merito all’abolizione della pena di morte: a partire dal 1874 la «Rivista penale» e il suo direttore aprivano un’efficace campagna contro tale pena, facendo ricorso alla statistica giudiziaria, ai rapporti di esecuzioni capitali. Tra il 1874 e il 1876 la questione veniva risolta: il regime della soppressione graduata della pena di morte votata nel 1875 e, quindi, la cosiddetta abolizione di fatto trovavano Lucchini ampiamente favorevole.
La questione della pena di morte venne nuovamente affrontata da Lucchini nel 1884 nella monografia dal titolo Soldati delinquenti. Giudici e carnefici, dove egli esprimeva molte delle sue idee sull’esercito, sul processo penale militare e, più in generale, sul processo di tipo inquisitorio e sulle idee della scuola positiva relativamente al problema del rapporto tra follia e imputabilità.
Nella prima parte della monografia egli descriveva anche, con una certa dovizia di particolari, l’esecuzione di Salvatore Misdea, militare di leva accusato di aver commesso una strage all’interno della caserma di Forte dell’Ovo a Napoli, il 13 aprile 1884, e considerato folle ed epilettico da Cesare Lombroso. Lucchini sosteneva l’importanza del caso per dimostrare l’inutilità della pena capitale e il sentimento di ripugnanza dei cittadini verso di essa. Egli rivendicava la sua contrarietà alla pena di morte su un piano diverso rispetto al solo e mero umanitarismo: dopo circa nove anni di silenzio del patibolo, la pena di morte andava combattuta sia dal punto di vista dell’esperienza sia da quello dell’interesse sociale. Inoltre, il caso in questione riapriva il dibattito sul rapporto tra delitto e follia che era già da tempo oggetto di discussione fin dagli scritti di Carl J.A. Mittermaier e Giovanni Carmignani e l’imputazione del malato di mente creava molti dubbi. Secondo Lucchini, la questione degli ospedali psichiatrici giudiziari statali o, meglio, dei manicomi giudiziari, quegli «speciali asili», doveva essere affrontata con l’intervento del legislatore (Colao 2011, p. 447) .
La delinquenza poteva essere considerata una funzione sociale e naturale quanto mai funesta e deleteria ma inevitabile, visto che l’adattamento dell’individuo alla vita nel consorzio sociale non sempre funzionava bene. Lucchini dichiarava di giungere a queste conclusioni senza stare a scomodare i recenti postulati dell’antropologia e della psichiatria e senza sapere se ciò dipendeva dalle funzioni organiche o dalle facoltà mentali, dal volume del cervello.
Il 1886 è l’anno in cui Lucchini pubblica l’opera I semplicisti (antropologi, psicologi e sociologi) del diritto penale: egli annunciava nella Prefazione che da qualche anno si era manifestata, specie in Italia, «un’agitazione nelle discipline del Diritto penale», creata da una «nuova scuola» o scuola positiva, in contrapposizione alla cosiddetta scuola metafisica o scuola classica. Nello spiegare le ragioni del titolo della sua monografia, Lucchini diceva che la parola semplice ricorreva ben sessanta volte nel solo 1° capitolo de I nuovi orizzonti del diritto e della procedura penale (1881) di Enrico Ferri, il che era la prova di come l’aggettivo rendesse bene i contenuti del sistema dialettico della «nuova scuola». Egli dichiarerà ne I semplicisti di aver inizialmente condiviso, in maniera solo apparente, uno dei capisaldi della «nuova scuola» e cioè quello per cui lo scopo essenziale delle discipline penali dovesse essere il delinquente e non il reato ma di non aver poi seguito il corollario di questa teoria, cioè una pretesa analogia tra malattia e delinquenza.
Lucchini aveva molto apprezzato la prima opera di Ferri, La teoria dell’imputabilità e la negazione del libero arbitrio (1878), pur dissentendo su molte questioni. Proprio sul punto del libero arbitrio Ferri tornava ne I nuovi orizzonti e questa volta il giudizio di Lucchini era negativo. Eliminato il libero arbitrio come presupposto dell’imputabilità, i semplicisti erano approdati a un nuovo presupposto, quello per cui l’uomo è sempre responsabile delle azioni antigiuridiche compiute poiché vive in società; la sua era dunque una responsabilità sociale. La stessa classificazione dei delinquenti e la previsione di pene di tipo eliminativo apparivano in totale contrasto con quel principio di libertà individuale di stampo borghese, per il quale invece Lucchini aveva sempre lottato. La «penalistica costituzionale» (Lacchè 2007, p. 664) non poteva non prendere le distanze da tale impostazione.
Durante la crisi di fine secolo, Lucchini assunse una posizione di grande importanza. Di fronte al r.d. 22 giugno 1899 nr. 227 con cui si riconosceva all'autorità di Pubblica sicurezza il potere di vietare per ragioni di ordine pubblico assembramenti e riunioni pubbliche e si limitava il diritto di associazione, nonché la libertà di stampa, Lucchini manifestava il suo dissenso, ricordando come già nel 1894 la cieca repressione di anarchici e socialisti anziché distogliere aveva ancor più rafforzato e aumentato i proseliti, anarchici e socialisti, rispetto ai quali egli aveva sempre dimostrato disapprovazione.
In base all'art. 3 dello Statuto spettava a entrambe le Camere in concorso con il re la potestà legislativa e questo valeva sia per l'atto legislativo, sia per «la risoluzione che tiene il luogo di legge» (L. Lucchini, Il decreto-legge sui provvedimenti politici, 1899, p. 134). Per Lucchini insomma, il fatto che il decreto-legge fosse stato presentato alla Camera e questa lo avesse mandato a una sua commissione per l'esame, cambiava la natura del decreto che perdeva ogni carattere di legge e assumeva quello di un insieme di disposizioni sottoposte al voto del Parlamento, e cioè assumeva la configurazione di un disegno di legge. Lucchini ricordava la dichiarazione dello stato d’assedio del 1898 e le sue gravi conseguenze sul piano della tutela delle libertà civili, anche se su quello della stretta legalità lo stato d’assedio era stato convalidato dalla legge del 17 luglio 1898 nr. 297.
In ogni caso, restava assodato secondo Lucchini che la stessa magistratura si ritenesse nel pieno diritto e dovere di accertare la legittimità e la costituzionalità degli atti e provvedimenti ministeriali. Egli riteneva che in uno stato libero e civile spettasse alla magistratura il compito di mantenere l'equilibrio fra tutti i poteri dello Stato. La sua opinione sul decreto-legge del 22 giugno sarebbe poi stata la stessa espressa dalla ben nota sentenza della Cassazione romana del 20 febbraio 1900, sui provvedimenti politici del 1899. Lucchini faceva parte proprio della prima sezione della Corte, presieduta da Tancredi Canonico, che sceglieva di dichiarare decaduto il cosiddetto decreto Pelloux.
Dopo l’omicidio di Umberto I, Lucchini intervenne nuovamente su alcuni dei temi già affrontati, come gli stati d’assedio del 1894 e del 1898, le sentenze di condanna che egli stesso definiva aberranti, il fatto che in quei momenti si accantonassero sia le leggi sia lo Statuto. Egli lamentava però che in tali casi non si fosse agito veramente sul serio, visto che appena possibile erano stati dati atti di clemenza sovrana e le condanne si erano tradotte in una burla. In realtà, la diagnosi non era obiettiva: in molti casi le pene irrogate erano state scontate, in tutto o in parte.
Nel 1895 vedeva la luce la prima edizione degli Elementi di procedura penale, volume agile della fortunata serie dei Manuali di scienze giuridiche sociali e politiche della casa editrice Barbera. Si trattava della prima di diverse edizioni, l’ultima del 1920 alla luce del nuovo processo penale, che già appariva a Lucchini non più nuovo e bisognoso di riforme. Nella Prefazione alla quarta edizione, Lucchini esponeva quei principi razionali che reggevano la scienza del processo penale fondati non già su chimeriche astrazioni, bensì sui bisogni essenziali e universali dell’uomo.
Piuttosto critico di fronte al nuovo codice di rito, e dubbioso sulla sua costituzionalità, visti i modi di attuazione della delega parlamentare ricevuta dal governo con legge «autorizzatrice» del 20 giugno 1912, argomentava la scelta degli Elementi partendo dalla precisa volontà di non fare il mero «rapsode», limitandosi a illustrare leggi che erano spesso la negazione della scienza. Emerge in questa sede un Lucchini molto incline a costruire un organismo scientifico della procedura penale, che soddisfi anche le più elementari e rudimentali esigenze scientifiche, limitando allo stretto indispensabile quell’erudizione tanto spesso «indigesta» e fuori luogo.
I primi anni Venti ci restituiscono un'immagine di Lucchini velata da un certo compiacimento per l’avvento del fascismo: nel saggio sui pieni poteri, in effetti, egli constatava che nel movimento fascista non v’era nulla di rivoluzionario, né di incostituzionale. Le «camarille politicastre» degli ultimi tempi avevano esautorato del tutto l’autorità regia, mentre i ministeri si facevano al di fuori dallo Statuto, che invece all’art. 65 riconosceva al re il potere di nominare e revocare i ministri. La marcia su Roma è in questo momento, per Lucchini, un evento eroico e al contempo uno spettacolo ma anche e soprattutto «il trionfo del patriottismo e del costituzionalismo»: il fascismo rappresentava per lui il ritorno alle ordinarie funzioni dello Stato. Ma pare chiaro che Lucchini avesse frainteso e forse in qualche modo ῾nobilitato᾿ l’operazione politica fascista (I pieni poteri nella giustizia penale, 1923, p. 7).
Tuttavia, a proposito dei pieni poteri richiesti dall’esecutivo, egli li considerava un gravissimo pericolo per le pubbliche libertà e istituzioni. È in questi passaggi che Lucchini descrive la sua posizione: egli condivide con l’homo novus, alias Benito Mussolini, il progetto di dare ordine e stabilità alle economie di bilancio, di semplificare i servizi, di imporre la rigida osservanza della legge. Ma il suo forte senso della legalità gli impone di porsi in contrasto con la richiesta di pieni poteri. Dunque, qualora vi fosse stata una condivisione del progetto politico ab imis, questa era già incrinata dalla posizione di Lucchini contraria all’istituto dei pieni poteri.
All’indomani della tragedia Matteotti, egli ammetterà di aver ricostruito l’avvento del fascismo in termini di costituzionalità anche contro lo stesso pensiero del duce, e passerà alla denuncia aperta delle violenze, predicate dall’alto e praticate dai gregari. Matteotti viene da Lucchini descritto come un uomo di scienza e collaboratore della «Rivista penale». Per lui, chiede giustizia, «solenne, assoluta, severa, implacabile». Dubita dell’operato della magistratura, denuncia i ritardi dell’autorità giudiziaria (Chi semina vento raccoglie tempesta, 1924, p. 103). Egli sceglie di pubblicare nella sua rivista la lettera che Matteotti gli aveva inviato in risposta a una richiesta di collaborazione. Matteotti con parole affettuose rispondeva al Maestro che purtroppo non vedeva vicino il tempo in cui sarebbe tornato agli studi: «Non solo la convinzione ma il dovere oggi mi comanda di restare al posto più pericoloso, per rivendicare quelli che sono, secondo me, i presupposti di qualsiasi civiltà e nazione moderna» (p. 102).
L’antifascista Lucchini iniziava un nuovo capitolo della sua vicenda personale e scientifica: Lucchini chiudeva i suoi giorni lontano da Roma, a Limone sul Garda, ma terminava la sua lunga vicenda umana e professionale dando un esempio di coerenza non frequente; in questo senso, l’umiliazione del processo presso l’Alta Corte di giustizia nel 1926 per alcune frasi scritte nella sua rivista, lungi dal rappresentare un’onta, contribuiscono a delinearne un’immagine di intellettuale lucido e coerente.
Il carcere preventivo ed il meccanismo istruttorio che vi si riferisce nel processo penale. Studio di legislazioni comparate antiche e moderne seguito da uno schema-progetto di legge, Venezia 1872.
La filosofia del diritto e della politica sulle basi dell’evoluzione cosmica, Verona 1873.
Sull'antico progetto del nuovo codice penale italiano. Considerazioni generali, «Rivista penale», 1881, 15, pp. 457-74.
Soldati delinquenti. Giudici e carnefici, Bologna 1884.
Reato e delinquente in generale nel Progetto di codice penale italiano, «Rivista penale», 1885, 21, pp. 277-96.
I semplicisti (antropologi, psicologi e sociologi) del diritto penale. Saggio critico, Torino 1886.
Il decreto-legge sui provvedimenti politici, «Rivista penale», 1899, 25, pp. 125-43.
Diagnosi dolorosa!, «Rivista penale», 1900, 52, pp. 307-11.
Elementi di procedura penale, 4a ed. riv. e ampliata, Firenze 1920.
I pieni poteri nella giustizia penale, «Rivista penale», 1923, 97, p. 7.
Chi semina vento raccoglie tempesta, «Rivista penale», 1924, 100, pp. 101-04.
M. Sbriccoli, La penalistica civile. Teorie e ideologie del diritto penale nell’Italia unita, in Stato e cultura giuridica in Italia dall’Unità alla Repubblica, a cura di A. Schiavone, Roma-Bari 1990, pp. 147-232; ora in Id., Storia del diritto penale e della giustizia. Scritti editi e inediti (1972-2007), 1° vol., Milano 2009, pp. 493-590.
M. Sbriccoli, Il diritto penale liberale. La “Rivista Penale” di Luigi Lucchini (1874-1900), «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 1987, 16, pp. 105-83; ora in Id., Storia del diritto penale e della giustizia. Scritti editi e inediti (1972-2007), 2° vol., Milano 2009, pp. 903-80.
M.N. Miletti, Un processo per la Terza Italia. Il Codice di procedura penale del 1913, 1. L’attesa, Milano 2003.
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