MALERBA, Luigi
MALERBA, Luigi (Luigi Bonardi)
Secondogenito di Pietro Bonardi e Maria Olari, nacque a Berceto, nell’Appennino parmense, l’11 novembre del 1927.
I Bonardi, sul finire degli anni Venti, erano proprietari di diversi ettari di terreno agricolo e boschivo nella zona di Berceto, sebbene le lontane origini della famiglia siano da collocarsi nella Savoia, da dove, verso la fine del XVI secolo, si spostarono in Piemonte, poi in Veneto e infine, nell’Ottocento, in Emilia.
Lo zio paterno, Giovanni, fu uno dei fondatori delle Missioni estere saveriane di Parma: operò come missionario in Cina, dove si recò una prima volta nel 1904 e dove rimase circa vent’anni; fu, inoltre, scrittore e importante storico e biografo dei missionari saveriani.
Malerba trascorse l’infanzia tra Parma – dove frequentò la scuola elementare cattolica dei padri lasalliani – e le campagne di Berceto: qui, durante i mesi estivi, ebbe l’opportunità di osservare il padre occuparsi della terra e amministrare le sue proprietà, seguendolo mentre predisponeva l’acquisto delle sementi o si adoperava per far sistemare le case dei contadini, quando «c’era da riparare il tetto, da comprare le macchine agricole […] da vendere un bosco, con la legna in piedi» (intervista di L. Vaccari a L. M., in Parole al vento, a cura di G. Bonardi, 2008, p. 187); la madre Maria, donna colta e capace affabulatrice, fu sempre molto attenta all’educazione dei figli, e infatti Luigi e il fratello maggiore Agostino mantennero con lei un rapporto affettivo intenso e sereno per tutta la vita.
Nel 1938, conclusa la scuola elementare, Malerba si iscrisse al ginnasio-liceo classico Giandomenico Romagnosi di Parma, nel quale trascorse un periodo determinante per la sua formazione: in quegli anni, infatti, vi insegnarono, tra gli altri, Attilio Bertolucci, Ferdinando Bernini – che Malerba apprezzò per la sua traduzione della Cronica di Fra Salimbene de Adam –, il prete antifascista don Cavalli e Tito Di Stefano, futuro direttore de Il Tempo e stretto collaboratore di Enrico Mattei; tra i compagni di classe si contano, invece, Baldassarre Molossi – al quale fu legato da intima e profonda amicizia –, poi direttore de La Gazzetta di Parma, i giornalisti Luca Goldoni, Giorgio Torelli (sodale di Giovanni Guareschi ne Il Candido) e Alfonso Madeo.
Più in generale il clima culturale di Parma, al quale il giovane Malerba partecipò, fu estremamente vivace e fecondo: la casa editrice Guanda, trasferitasi da Modena a Parma nel 1936, chiamò a collaborare Attilio Bertolucci, Carlo Bo, Oreste Macrì, Giacinto Spagnoletti; Cesare Zavattini insegnò in città proprio in quel periodo, venendo a contatto con Pietro Bianchi, intelligente e precoce critico cinematografico e raffinato intellettuale, che ebbe il merito di introdurlo al cinema, che allora si andava diffondendo tra la giovane borghesia illuminata di Parma attraverso la presenza di diversi cineclub, riviste d’avanguardia e piccole case di produzione. Lo stesso Bianchi – che Malerba riconobbe come una sorta di punto di riferimento – animò, con Bertolucci, i caffè della città, ai quali vennero attratti i giovani intellettuali, aspiranti scrittori (Mario Colombi Guidotti, Alberto Bevilacqua, i poeti della cosiddetta Officina parmigiana), pittori (Carlo Mattioli, Remo Gaibazzi), critici letterari e artistici (Giorgio Cusatelli, Francesco Squarcia, Roberto Tassi).
Così, dopo aver brillantemente ottenuto il diploma nell’estate del 1946, Malerba si iscrisse a giurisprudenza e cominciò a dedicarsi al cinema, sua vera passione. Sul finire del 1948, infatti, compì un fondamentale viaggio a Parigi: in quell’occasione conobbe Henry Langlois e Lotte H. Eisner, i direttori della Cinémathèque française, che gli misero generosamente a disposizione alcune «rarità cinematografiche […]: i film surrealisti di Buñuel e René Clair ancora ignoti in Italia, le più rare comiche del muto o addirittura i fotogrammi colorati a mano di Émile Reynaud» (L. Malerba, C’era una volta il cinema italiano, 2004, p. 11). Fu proprio quel viaggio a confermare in lui le aspirazioni a una carriera cinematografica, così che poco dopo, nel luglio del 1949, cominciò una proficua collaborazione con la rivista Cinema, allora diretta da Adriano Baracco, e nel settembre dello stesso anno fu protagonista di una coraggiosa impresa come fondare e dirigere, poco più che ventenne, un periodico militante di settore: nacque, così, a Parma, Sequenze, quaderni di cinema, una rivista che pubblicò quattordici fascicoli di carattere monografico (l’ultimo uscì nel giugno del 1951), per realizzare i quali il giovane direttore convinse a collaborare Guido Aristarco, Attilio Bertolucci, Fernaldo Di Giammatteo, Domenico Meccoli, Antonio Marchi, Massimo Mida, Fausto Montesanti, Davide Turconi, Renzo Renzi, Mario Verdone, Glauco Viazzi. La rivista Sequenze – ha scritto Michele Guerra – «è lo specchio di un’educazione cinematografica abbastanza chiara ed esercitatasi nella lettura di prestigiose riviste italiane e non solo. Tra il 1949 e il 1953, il lavoro di Malerba nei confronti della critica cinematografica […] è principalmente quello di un curatore, che più che pronunciarsi in prima persona, pensa a divulgare il più possibile il sapere cinematografico coinvolgendo i nomi maggiori della critica nazionale» (Sequenze (1949-1951). Quaderni di cinema. Antologia, a cura di M. Guerra, 2009, p. 11).
Nel gennaio del 1950 Malerba si trasferì a Roma, dove, lavorando per il cinema, avrebbe avuto l’occasione di cogliere maggiori opportunità. Nei primi tempi convisse proprio con Bertolucci, anch’egli emigrato da Parma a Roma, in «un bell’appartamento in via del Tritone, quasi all’angolo con via Sistina, al quinto piano, con una grande vetrata dalla quale si vedeva un giardino interno di pini altissimi, insospettabile in quella strada (intervista di D. Fasoli a L. M., in Parole al vento, cit., p. 161). A Roma Malerba ebbe modo di frequentare gli intellettuali che si dividevano tra cinema e letteratura – Michelangelo Antonioni, Mario Monicelli, Ennio Flaiano, Fabio Carpi, Tonino Guerra – e soprattutto strinse legami con alcuni letterati che in quel periodo cominciavano a proporre un radicale rinnovamento delle lettere e della cultura, come Angelo Guglielmi, Alfredo Giuliani ed Elio Pagliarani.
L’occasione decisiva capitò a Malerba nel 1952, quando Alberto Lattuada gli permise di collaborare alla sceneggiatura della riduzione cinematografica de Il cappotto di Gogol insieme con Zavattini: da lì in avanti lavorò assiduamente «per la produzione Ponti-De Laurentiis alla Vasca Navale, luogo felice di megalomanie e fantasiose imprese» (L. Malerba, C’era una volta il cinema italiano, cit., p. 11). Proprio l’ambiente cinematografico della capitale gli ispirò l’esordio letterario, la storia di una ragazza di provincia giunta a Roma con la speranza di fare strada come attrice, ritratta attraverso l’espediente narrativo delle «lettere, entusiaste e patetiche» che questa «spediva al fidanzato rimasto nella sua città di provincia» (p. 12): nacquero così Le lettere di Ottavia, pubblicate a puntate e in forma anonima sulla rivista Cinema nuovo nel corso del 1956 (raccolte in volume solo da ultimo per Archinto, Milano 2004). Sebbene gli impegni come sceneggiatore fossero numerosi, soprattutto al fianco di Lattuada, e sebbene la sua carriera sembrasse bene avviata (nel frattempo Malerba continuò a collaborare alle più importanti riviste specialistiche e diresse, nel 1953, un film, l’unico, in prima persona, Donne e soldati, insieme all’amico parmigiano Antonio Marchi), a causa di alcune difficoltà con la censura che gli impedì di portare a termine la trasposizione cinematografica della Storia della colonna infame, Malerba venne di fatto allontanato dal cinema per quasi cinque anni. Per questi motivi nel 1959, insieme al regista genovese Paolo Spinola, costituì una società pubblicitaria con la quale realizzò alcuni importanti caroselli per il cinema e la televisione. Questa esperienza non fu secondaria poiché, per mezzo della pubblicità, ebbe modo di indagare e di mettere in pratica l’esercizio della parola come veicolo di convincimento e di rappresentazione non realistica e iperbolica della realtà.
Nell’agosto del 1962 Malerba si sposò con Anna Lapenna, con una cerimonia celebrata dallo zio, il saveriano padre Giovanni Bonardi.
In quei mesi era impegnato nella stesura di alcuni racconti ambientati nelle colline di Berceto con protagonisti i contadini della zona. La coerenza e l’uniformità dei testi, ispirati perlopiù all’esperienza diretta dell’autore e ai racconti della madre, lo indussero a tentare di pubblicarli, e così, dopo alcuni rifiuti, il libro, con il titolo La scoperta dell’alfabeto, nell’aprile del 1963, grazie soprattutto a «una presentazione di Ennio Flaiano trovò una accoglienza favorevole presso Valentino Bompiani, una casa editrice senza padrini» (intervista di D. Fasoli a L. M., in Parole al vento, cit., p. 71) suscitando reazioni positive presso la critica. Fu subito manifesto che questi racconti non appartenevano al filone realista e che, viceversa, esprimessero una vena surrealista, rappresentando la civiltà contadina in chiave grottesca anziché naturalista, tanto che i primi recensori dell’opera individuarono in Samuel Beckett, Franz Kafka, Massimo Bontempelli e Giulio Cesare Croce i modelli più vicini. Gli apprezzamenti ricevuti spinsero Malerba ad aumentare l’impegno letterario e in particolare a partecipare alle sperimentazioni che gli autori prossimi al gruppo dei Novissimi e alla rivista il verri stavano tentando di avviare. Malerba, pertanto, prese parte al Convegno di Palermo durante il quale si costituì il Gruppo ’63 e dove, in pratica, nacque la neoavanguardia italiana. In quella occasione lo scrittore mise in scena, per la regia di Luigi Gozzi, un atto unico dal titolo Qualcosa di grave.
Contemporaneamente alla nascita del figlio Pietro (nel maggio 1965), ebbe la possibilità di ricominciare a scrivere sceneggiature, attività alla quale si dedicò, parallelamente alla letteratura, ancora per quasi vent’anni, collaborando con numerosi registi italiani e stranieri, tra i quali Lattuada, Monicelli, Pasquale Festa Campanile, Franco Indovina, Yves Allégret, Ugo Tognazzi.
Alla luce dei buoni riscontri avuti con La scoperta dell’alfabeto e dopo la pubblicazione di alcuni atti unici, Malerba decise di continuare la sua ricerca letteraria e tra il 1963 e il 1965 portò a compimento la stesura del suo primo romanzo, Il serpente, che uscì nel gennaio del 1966 sempre per Bompiani. La critica accolse quest'opera con molto favore, cogliendone immediatamente il valore sperimentale e trasgressivo. Enrico Emanuelli, nel Corriere della sera del 27 febbraio 1966 (Un curioso serpente ci fa una bella lezione), parlò con toni entusiasti di «un romanzo da una parte […] figurativo e, dall’altra […] astratto», «di un giallo insieme patetico e corrosivo», mentre Angelo Guglielmi, in un articolo intitolato La sottrazione di Malerba, uscito in Tempo presente nel 1966, rilevò sottilmente il valore dissacrante del Serpente nei confronti del romanzo tradizionale, in quanto l’opera di Malerba – scrisse – «è una proposta di libertà, è una sfida alla razionalità, è una beffa giocata al romanzo naturalista, di cui accetta le regole del gioco […] per poi colpirlo, distruggerlo, abolirlo dal di dentro», un’opera nella quale i fatti anziché accadere spariscono, finché «giunti all’ultima pagina, l’incanto è interamente realizzato: il libro non esiste più» (in Guglielmi, 2010, p. 163).
Il serpente, insomma, riuscì a tradurre le spinte più radicali della proposta neoavanguardistica senza rinunciare alla leggibilità del testo, cioè una trama, personaggi riconoscibili e una lingua fruibile, fu «forse il primo libro di uno scrittore del Gruppo ’63 che avesse successo di vendite senza fare concessioni ai gusti più corrivi del pubblico» (intervista di M. Hardt a L. M., in Parole al vento, cit., p. 210). La ricezione da parte della critica e la diffusione del romanzo convinsero Malerba a dedicare una parte sempre più significativa del suo impegno creativo alla letteratura, e infatti – dopo la nascita della figlia Giovanna, avvenuta il 15 marzo 1967 – Malerba scrisse un altro 'antiromanzo' molto fortunato, Salto mortale, cui lavorò soprattutto nell’estate del 1967 durante un soggiorno nella campagna laziale e che pubblicò, ancora per Bompiani, nell’aprile del 1968. Anche Salto mortale, che pure rispetto al romanzo precedente accentua i tratti espressionistici del linguaggio, riscosse un ottimo successo di critica (nel 1970 vinse, su segnalazione di Italo Calvino, la prima edizione del premio Prix Médicis Etranger): tra gli altri fu lodato da Enzo Golino, in Mondo operaio, XXI (1968), da Walter Pedullà (1975), il quale definì il testo come l’esempio più compiuto, per l’Italia, di narrativa informale, e da Maria Corti (1978) che spiegò come nel giallo paradossale di Malerba il lettore si trovi «assai impegnato in tutto il libro a districare non le intenzioni e i fini di un criminale, bensì le intenzioni e i fini di uno scrittore, i trabocchetti del suo grottesco, e magari un po’ intellettualistico, gioco di invenzione» (p. 137).
Parallelamente alla letteratura, Malerba proseguì anche il suo impegno nella scrittura per il cinema e proprio in quel periodo avviò due importanti collaborazioni che si protrassero negli anni: quella con Tonino Guerra – con il quale, oltre a scrivere diverse sceneggiature, realizzò la 'saga' de Le storie dell’anno mille e del suo protagonista, il picaro Millemosche, dapprima pensate per la televisione e poi diventate una fortunata serie di testi per ragazzi, che proseguì, al ritmo di un volume all’anno, fino al 1974 – e quella con Fabio Carpi, insieme al quale realizzò numerosi film per il cinema e per la televisione. In generale, gli anni Settanta furono per Malerba un periodo di intenso, alacre e multiforme lavoro creativo e di impegno militante: dopo il successo di Salto mortale pubblicò ancora due romanzi: Il protagonista (Milano 1973), un testo che si collocò, con significative variazioni, lungo la scia delle due opere precedenti e che lo stesso scrittore definì «un romanzo “storico” sul fallimento della fallocrazia mediterranea» (intervista di L. Martinelli a L. M., in Parole al vento, cit., p. 53), e Il pataffio (Milano 1978), singolare romanzo plurilinguista e dissacrante che si svolge in un Medioevo immaginario ma verosimile, durante un surreale assedio a un castello.
Allo stesso tempo proseguì, con altrettanta efficacia, nella produzione di narrativa breve: nel 1974 uscì Le rose imperiali (Milano), una raccolta di racconti ambientati in una favolistica Cina medioevale, nel 1979 Dopo il pescecane (Milano), seguito da Diario di un sognatore (Torino 1981), la raccolta delle trascrizioni dei suoi sogni notturni stese tra il 1978 e il 1979, un esperimento unico nel suo genere, che suscitò molto interesse nella critica e nel pubblico. Dedicò inoltre parte non secondaria e non marginale dei suoi sforzi alla letteratura per ragazzi e per l’infanzia, nel tentativo di proporre ai suoi giovani lettori strumenti che, nel medesimo tempo, coniugassero un valore artistico e letterario – sancito dal loro inserimento all’interno di canoni di genere per certi versi tradizionali e da una inesausta ricerca stilistica – con un valore 'educativo', ottenuto attraverso la volontà di smascheramento delle ipocrisie della società consumistica e dei linguaggi del potere politico ed economico: la saga di Mozziconi (Torino 1975), Storiette (Torino 1977), Pinocchio con gli stivali (Roma 1977), Le galline pensierose (Torino 1980), Storiette tascabili (Torino 1984); compilò Le parole abbandonate (Milano 1977), un glossario dei dialetti delle alte valli del Taro e del Ceno, nel quale i lemmi della civiltà contadina ormai al tramonto furono descritti con intenzionalità narrativa anziché esclusivamente linguistica; realizzò un interessante volume di viaggio, Cina Cina (Lecce 1985), in cui raccolse i resoconti di un viaggio compiuto in Cina nel 1980 insieme con Alberto Arbasino, Mario Luzi, Vittorio Sereni e Aldo De Jaco, nonché altri articoli relativi a Paesi orientali visitati negli anni.
Con altri amici intellettuali, perlopiù provenienti dall’esperienza del Gruppo ’63, fondò una casa editrice, La cooperativa scrittori, per mezzo della quale fornì la possibilità ad autori e a testi marginali rispetto alle tendenze del mercato di misurarsi con il pubblico: il primo volume fu la Relazione della Commissione parlamentare antimafia (1973), che permise di rendere noti documenti e nomi fino a quel momento celati all’opinione pubblica. Successivamente vennero dati alle stampe testi di Arbasino, Colombo, Eco, Fachinelli, Leonetti, Antonio Porta, La Capria, ma anche l’opera prima in versi di Valentino Zeichen (Area di rigore) e Poveri homini, il diario cinquecentesco del parroco di Berceto, don Luigi Franchi. Nel 1982 iniziò una collaborazione assidua con il quotidiano la Repubblica, per il quale scrisse fino alla morte elzeviri, recensioni, resoconti di viaggio, commenti alla vita culturale, letteraria e politica del suo tempo; cominciò inoltre a interessarsi all’ambientalismo, impegnandosi in numerose battaglie per la salvaguardia del paesaggio, a cominciare dalla zona di Orvieto, dove, alla fine degli anni Sessanta, acquistò un’antica villa padronale in località Settecamini, nella quale poté tornare a dedicarsi all’agricoltura, come nei tempi dell’infanzia e della prima adolescenza, ritagliarsi un luogo appartato e privilegiato nel quale scrivere e lavorare, e coltivare, in un senso quasi umanistico, le amicizie con i colleghi scrittori, critici e intellettuali che dalla capitale usavano trascorrere i mesi estivi nei pressi della città umbra.
Con la pubblicazione del Pianeta azzurro (Milano 1986; premio Mondello nel 1987) è lecito individuare una seconda fase nella produzione artistica di Malerba, nella quale, pur confermando diverse costanti riscontrate fino a quel momento, concentrò lo sforzo sperimentale della sua prosa soprattutto sull’aspetto strutturale dei testi e su alcuni specifici elementi tematici, tanto che alcuni critici, come JoAnn Cannon (1989) o, più recentemente, Matteo Di Gesù (2003), ritennero possibile inserire Malerba all’interno della vasta categoria del postmoderno.
Il pianeta azzurro, infatti, fu il risultato di un’operazione metaletteraria che combinò tre racconti simili, ma differenti per significative quanto lievi variazioni, nascondendo, nella sua triplicazione quasi perfetta, l’identità e il ruolo della voce narrante e, nello stesso tempo, la posizione dell’autore e il ruolo del personaggio protagonista. A questo punto della sua carriera il tema cui maggiormente Malerba dedicò la propria attenzione divenne la sovrapposizione illusionistica tra realtà e finzione e l’impossibilità di tracciare un confine netto e definito tra questi due poli (non a caso, l’importante monografia di Francesco Muzzioli dedicata a Malerba, pubblicata nel 1988, si intitolò proprio La materialità dell’immaginazione).
Ne Il fuoco greco (Milano 1990; premio Flaiano e premio Capri) – romanzo storico ambientato a Bisanzio al tempo della reggente Teofane – attraverso uno dei personaggi centrali del testo, l’eunuco Lippas, Malerba esplicitò una vera e propria dichiarazione di poetica: «“So soltanto che questa storia finirà quando io deciderò di finirla e che si concluderà nel modo che vorrò io. In questa storia sono io che comando. Io sono un umile eunuco, ma quando scrivo ho più potere dell’imperatore […]. Io posso far morire una persona con una sola parola mentre l’imperatore deve dare ordini, pronunciare sentenze, porre firme, deve servirsi di giudici, inquisitori, eparchi, cancellieri, carnefici. Io mi servo soltanto della mia penna, di un’ampolla di inchiostro e di un foglio di pergamena”» (p. 189). Ne Le pietre volanti, infatti (Milano 1992; premio Viareggio), lo scrittore – utilizzando in modo mimetico il genere autobiografico – mescolò il piano della realtà (l’ispirazione fornita dalla vita e dall’arte del pittore Fabrizio Clerici) e quello della finzione (l’esistenza esemplare e misteriosa di un artista, giunto, alle soglie del secondo millennio, in prossimità di una apocalisse ambientale), così che risultasse impossibile separarli.
Malerba, insomma, nelle opere degli anni Novanta rinsaldò la propria poetica sperimentale sviluppando con originalità quanto aveva costruito fin dagli esordi: nel romanzo Le maschere (Milano 1995; premio Comisso e premio Palmi), ambientato nella Roma cinquecentesca di Adriano VI, già nel titolo volle alludere al tema del vero e del verosimile di matrice pirandelliana; in Itaca per sempre (Milano 1997), anche in virtù della tecnica del 'monologo esteriore', cioè il discorso dei due personaggi che, come da un palco invisibile, alternativamente si rivolgono al pubblico evitando il confronto diretto con il loro antagonista, mise in scena una riscrittura metaletteraria e ironica dell’Odissea; ne La superficie di Eliane (Milano 1999; premio speciale della Presidenza del Consiglio), insistette sul tema dell’illusione e delle apparenze; mentre ne Il circolo di Granada (Milano 2002) ebbe modo di tornare su un altro tema ricorrente nelle sue opere, il valore relativo e convenzionale del tempo, mutuato dalle indagini della fisica postquantistica su cui da anni andava interrogandosi in termini di resa poetica: «Hanno cominciato gli scienziati, fisici e biologi, a mettere in dubbio nozioni che sembravano così sicure, a smantellare leggi che parevano reggere un universo così ben organizzato e compatto. Da alcuni decenni la scienza è “impazzita”, ci offre campioni di una realtà diversa (da Heisenberg a Monod) e mette a nostra disposizione nuovi strumenti e perciò nuovi metodi di ricerca» (cit. in Mauri, 1977, p. 3).
Oltre all’incessante indagine condotta attraverso lo strumento della forma romanzesca e del riutilizzo ironico dei generi letterari consolidati, Malerba continuò anche nell’esercizio della forma breve, anzi, per taluni autorevoli lettori, come, ad esempio, per Romano Luperini, fu proprio nel genere novellistico a raggiungere i risultati migliori (R. Luperini, in Simmetrie naturali, 2013): se i racconti di Testa d’argento (Milano 1988; premio Grinzane Cavour) furono una fra le opere più importanti della narrativa italiana degli ultimi vent’anni del Novecento, allo stesso modo Ti saluto filosofia (Milano 2004) fu un tentativo riuscito di ironica speculazione filosofica sotto specie letteraria. Ugualmente ripropose con efficacia alcuni esempi di letteratura odeporica, tanto nelle raccolte di resoconti di viaggi (Il viaggiatore sedentario, Milano 1993; Città e dintorni, Milano 2001), quanto attraverso gli articoli per Repubblica: tra questi, forse il più coinvolgente e affascinante fu quello dedicato a un ennesimo viaggio in Cina, compiuto insieme alla moglie e ad altri amici intellettuali proprio nei giorni drammatici dei fatti di piazza Tienanmen: Quei topi nella casa di giada (in la Repubblica, 23 giugno 1989).
Non venne meno neppure il suo impegno civile, anzi per certi versi si moltiplicò: oltre alle battaglie ambientaliste, che continuò a condurre con pervicacia e passione, Malerba partecipò a dibattiti e polemiche in campo culturale e politico, si cimentò nella scrittura saggistica attraverso testi perlopiù brevi, tanto più efficaci quanto più diretti a un pubblico ampio, in virtù di una prosa elegante e di un taglio divulgativo (Che vergogna scrivere, Milano 1996, e La composizione del sogno, Torino 2002); nel 1996 entrò a far parte del comitato scientifico del progetto 100 libri per 1000 anni, insieme con Walter Pedullà, Attilio Bertolucci, Nino Borsellino, Aurelio Roncaglia, Rosario Villari e Giovanni Macchia, e nel 1997 venne nominato, dall’allora ministro Walter Veltroni, membro della Commissione nazionale del libro con Paolo Galluzzi e Cesare Garboli.
Nel 2006 gli venne attribuito il premio Chiara alla carriera e pubblicò il suo ultimo romanzo, Fantasmi romani (Milano), che, per certi versi, poté esser letto come un compendio dei temi e delle forme care a Malerba: in questo romanzo, infatti, dedicato alla crisi di un matrimonio che metonimicamente rappresenta la crisi della società borghese, oltre a riproporre l’escamotage del 'libro nel libro' e la scelta stilistica del 'monologo esteriore', e oltre a ripetere scene, frasi, immagini del proprio repertorio, tornò a interrogarsi circa la difficoltà e l’opportunità di poter distinguere il piano della realtà da quello della finzione, mescolò e confuse i ruoli cardine della finzione romanzesca (autore, narratore, personaggio) e suggerì la letteratura quale possibile bussola – necessariamente imperfetta, consapevolmente non dogmatica né portatrice di morali – con cui tentare di orientarsi nel complicato labirinto della contemporaneità.
Malerba, dopo che, a causa di un’operazione chirurgica, a partire dal 1999 aveva sofferto di gravi problemi alle articolazioni che lo ostacolarono negli spostamenti e gli resero sempre più difficile lavorare, morì nella sua casa romana di via della Domus Aurea nella notte dell’8 maggio 2008.
Autodizionario degli scrittori italiani, a cura di F. Piemontese, Milano 1990, ad ind.; L’invenzione della realtà. Conversazioni su letteratura e altro, a cura di M. Gemelli - F. Piemontese, Napoli 1994; Conversazione con L. M. Elogio della finzione, a cura di P. Gaglianone, Roma 1998; R. Capozzi, Incontro con M., in Rivista di studi italiani, XXVIII (2000), 1, pp. 145-155; L. Malerba, C’era una volta il cinema italiano, introduzione a Id., Le lettere di Ottavia, Milano 2004;G. Conti, intervista a L. M., in Palazzo Sanvitale, X (2008), 23-24, pp. 102-112; L. Malerba, Parole al vento, a cura di G. Bonardi, San Cesario di Lecce 2008; P. Mauri, Tutto cominciò con la scoperta dell’alfabeto, in la Repubblica, 9 maggio 2008; Dossier L. M., a cura di A. Malerba, in Il Caffè letterario, VIII (2008), 43-44, pp. 40-85; L. Malerba, Diario delle delusioni, Milano 2009; Sequenze (1949-1951). Quaderni di cinema. Antologia, a cura di M. Guerra, Parma 2009; L. Malerba, Appunti per un’autobiografia (testo pubblicato sulla pagina Facebook dedicata a L. M. e scritto dall’autore in previsione della nota biografica per il «Meridiano» Mondadori).
Si vedano inoltre: A. Guglielmi, Vero e falso, Milano 1968, pp. 157-160; Id., La letteratura del risparmio, Milano 1973, pp. 110 s.; W. Pedullà, La letteratura del benessere, Roma 19732, pp. 502-505; Id., Il morbo di Basedow ovvero dell’avanguardia, Cosenza 1975, pp. 93-114; P. Mauri, M., Firenze 1977; M. Corti, Viaggio testuale, Torino 1978, pp. 137-143; G. Almansi, M., in Alfabeta, III (1981), 26-27, pp. 21 s.; R. Ballerini, M. e la topografia del vuoto, Chieti 1988; M. Corti, L. M.: una scommessa con il reale, in Autografo, V (1988), 13, pp. 3-21; F. Muzzioli, M. La materialità dell’immaginazione, Roma 1988; S. Sora, Modalitäten des Komischen. Eine Studie zu L. M., Wilhelmsfeld 1988; J. Cannon, Postmodern Italian fiction. The crisis of reason in Calvino, Eco, Sciascia, M., Rutherford-London-Toronto 1989; F. Muzzioli, L. M., in Belfagor, XLIV (1989), 5, pp. 521-527; G. Menechella, Intervista a L. M., in Quaderni di italianistica, XIII (1992), 1, pp. 133-138; M. Heyer-Caput, Per una letteratura della riflessione: elementi filosofico-scientifici nell’opera di L. M., Berna-Stoccarda-Vienna 1995; C.E. Trevisan, Violenza e immaginazione nella prosa di L. M., New York-Ottawa-Toronto 1996; G. Accardo, La letteratura come irrisione. Le forme del comico nell’opera di L. M., in Forum italicum, XXXIV (2000), 1, pp. 105-120; M. Di Gesù, La tradizione del postmoderno, Milano 2003, ad ind.; G. Alfano - A. Cortellessa, Tegole dal cielo. L’“effetto Beckett” nella cultura italiana, Roma 2006, ad ind.; S. Cirillo, Nei dintorni del surrealismo. Da Alvaro a Zavattini: umoristi, balordi e sognatori nella letteratura italiana del Novecento, Roma 2006, ad ind.; Illuminista, VI (2006), 17-18, n. monografico: La narrativa di L. M., a cura di W. Pedullà - F. Muzzioli; G. Marchetti, I fatti e le maschere, in Paragone, LIX (2008), 78-80, pp. 165-175; A. Guglielmi, Il romanzo e la realtà, Milano 2010, pp. 159-164; L. Weber, L. M., o della visione periferica, in Atlante dei movimenti culturali dell’Emilia-Romagna dall’Ottocento al contemporaneo, III, Bologna 2010, pp. 289-304; R. De Palma, Lo scrittore indignato. Sperimentalismo, erotismo e critica sociale in L. M., Bari 2012; G. Ronchini, Dentro il labirinto. Studi sulla narrativa di L. M., Milano 2012; Id., L. M. Una sperimentale sfida al labirinto, in Storia di Parma, IX, Le lettere, a cura di G. Ronchi, Parma 2012, pp. 457-463; Simmetrie naturali. L. M. tra letteratura e cinema, a cura di N. Catelli, Parma 2013.