MANCINELLI, Luigi
Nacque a Orvieto il 5 febbr. 1848, secondogenito di Raffaele, appartenente a una famiglia di commercianti, musicofilo e componente per alcuni anni della banda cittadina, e di Giacinta Ferracci. All'età di quattordici anni il M. suonava il contrabbasso nella cappella del duomo di Orvieto e nel 1863 entrò a far parte della banda. La passione per la musica lo spinse al rifiuto dell'attività commerciale, prospettata dal padre, e alla fuga a Firenze, dove studiò privatamente violoncello con J. Sbolci e composizione con T. Mabellini. Lavorò come violoncellista, dapprima nell'orchestra del teatro della Pergola di Firenze (1867), poi in quella dei teatri Argentina e Apollo di Roma (1871). Nel 1874 fu assunto come primo violoncello (e preparatore dei cantanti) al teatro Morlacchi di Perugia, dove in quell'anno sostituì all'ultimo momento E. Usiglio nella direzione dell'Aida di G. Verdi. L'abilità dimostrata nel debutto direttoriale - ma la prima esperienza sul podio l'aveva avuta nel 1873 con Luisa Miller di Verdi - colpì l'editore G. Ricordi e l'impresario V. Jacovacci, che decisero di scritturarlo all'Apollo di Roma nella veste di maestro sostituto per la stagione 1875 (Aida, Gli ugonotti di G. Meyerbeer, Guglielmo Tell di G. Rossini) e di direttore al fianco del più anziano E. Terziani in quella successiva (1876), inaugurata con La vestale di G. Spontini (già diretta dal M. a Jesi l'anno precedente).
Il carisma palesato nell'affrontare il problematico allestimento del capolavoro spontiniano e il successo di pubblico ottenuto dopo le recite del Guarany di C.A. Gomes, imposero il M. all'attenzione della critica, che lo sostenne nelle prime romane de La Gioconda di A. Ponchielli, Le roi de Lahore di J. Massenet e Mefistofele di A. Boito (1877). Da questa data si può far iniziare l'amicizia con Boito, che verso il M. dimostrò sempre profonda stima, tanto da ritenerlo il suo interprete ideale. Verso la metà degli anni Settanta il M. si era cimentato nella composizione di romanze (Un'ora di musica, Album in chiave di sol, Al chiaro di luna, La calma del mare, Un'estate a Perugia) e di musiche cameristiche.
Fino al 1881 il M. consolidò nei teatri di Roma (Apollo, Politeama, Argentina, Valle) un repertorio ampio e raffinato - nel quale spiccavano le interpretazioni di Lohengrin (che meritò un "bravissimo" scritto di pugno da R. Wagner) e di Aida (Verdi si congratulò con un telegramma) - esibendosi anche in una decina di piazze italiane del Centronord. Importante occasione in ambito internazionale come direttore e compositore fu la partecipazione ai concerti del Trocadero di Parigi per l'Esposizione universale del 1878, durante i quali eseguì tre dei suoi Intermezzi sinfonici per la Cleopatra di P. Cossa.
Queste musiche di scena (1877) - insieme con quelle per la Messalina sempre di Cossa (1876) e per Tizianello di E. Lombroso (1880) - costituiscono la prima, autentica espressione dell'arte compositiva del M., condensandone già i principali tratti: il preziosismo dell'orchestrazione modellato sul sinfonismo di conio germanico (assimilato attraverso lo studio delle partiture non tanto di Wagner quanto di L. van Beethoven, F. Mendelssohn, F. Liszt, C.M. von Weber, R. Schumann), il gusto per la perorazione finalizzata alla trascolorazione timbrica dei temi principali, la concezione della forma come paratassi di singole aree tematiche.
Dopo Roma, il M. svolse la professione con ritmi frenetici a Bologna (1881-86), dove fondò la Società del quartetto, diresse il teatro Comunale e il liceo musicale G. Rossini (insegnandovi composizione) e al contempo rivestì la carica di maestro di cappella in S. Petronio. La presenza del M. portò l'orchestra bolognese a un eccellente livello qualitativo, esplicato nell'esecuzione delle sinfonie beethoveniane, nonché nella tournée torinese per l'Esposizione musicale del 1884. Durante gli anni bolognesi il M. entrò in contatto con il giovane F. Busoni (di cui diresse la cantata Il sabato del villaggio) e incontrò personalmente Liszt e Wagner (al M. fu affidato il concerto veneziano dedicato dal liceo musicale B. Marcello ai due celebri maestri).
Nel 1881 il M. sposò la nobildonna Luisa Cora, trovando in lei, cantante e pittrice, una felice corrispondenza di interessi artistici. In occasione del Festival guidoniano di Arezzo il M. scrisse l'Inno-marcia a Guido Monaco su testo di Boito (1882), e due anni dopo affrontò l'agone teatrale debuttando come operista a Bologna con Isora di Provenza (libretto di A. Zanardini). Lo scottante insuccesso di questa prima opera al S. Carlo di Napoli (1886) forse fu all'origine delle inattese dimissioni da tutte le cariche ricoperte a Bologna e del repentino abbandono della città. Dal 1886 il M. concentrò le proprie energie all'estero: in Inghilterra - introdotto da A. Randegger presso l'impresario Augustus Harris - diresse a Londra l'opera italiana al Drury Lane (1887) e le stagioni estive al Covent Garden (1888-1905), mentre al festival di Norwich presentò le sue cantate Isaias (1887) e Sancta Agnes (1905) insieme con Ero e Leandro (1896, versi di Boito) in forma di concerto. In Spagna fu attivo al teatro Real di Madrid dal 1887 al 1893 (portando per la prima volta nel 1888 la Carmen di G. Bizet) e animò la locale Sociedad de conciertos. A Londra e a Madrid il M. unì il ruolo direttoriale con la funzione di direttore artistico, esercitando un inusuale potere sulla scelta degli interpreti e dei cartelloni. In tale duplice veste - che caratterizzerà G. Martucci, L. Mugnone e A. Toscanini e che fece della figura del direttore d'orchestra il primo interlocutore di impresari e di editori - il M. si adoperò per la diffusione del repertorio coevo italiano e per la divulgazione dei lavori wagneriani.
Nel 1892 fu ad Amburgo e a Vienna (con una puntata genovese per interpretare il Cristoforo Colombo di A. Franchetti nell'anniversario della scoperta dell'America), nel 1893 a New York per la riapertura del Metropolitan (sua la prima di Pagliacci di R. Leoncavallo), nel 1898 in Canada e nel 1900 in California. Le defatiganti tournées estere non cessarono con il nuovo secolo - Lisbona (tra il 1901 e il 1920), Varsavia (1902), Dublino e Rio de Janeiro (1905), Buenos Aires (inaugurazione del teatro Colón con Aida nel 1908; poi 1909 e 1913), Barcellona (1910-11, 1913) - mentre l'attività direttoriale in patria subì un netto rallentamento (tredici le città che ospitarono il M. fra il 1907 e il 1916), cui non si accompagnò mai un calo qualitativo (da ricordare la prima assoluta fuori Bayreuth del Parsifal di Wagner, avvenuta nel 1914 a Bologna, e la pionieristica imposizione dei lavori di R. Strauss (Salomè) e C. Debussy (Pelléas et Mélisande). La distensione dei ritmi lavorativi andò a vantaggio dell'attività compositiva del M., che tra il 1907 e il 1921 (anno della sua morte) diede alla luce undici lavori: Ouverture romantica (1907), Romanza senza parole per violoncello e pianoforte (1907), Paolo e Francesca (Bologna 1907, versi di A. Colautti), Prière des oiseaux per voci bianche e orchestra (1910), Sei melodie (1914), la "fantasia lirica" Sogno d'una notte d'estate (1915-17, non rappresentata), musiche per i film ("visioni storiche") Frate sole (M. Corsi, 1917) e Giuliano l'apostata (U. Falena, 1919), Inno-marcia dei mitraglieri (1917), Canto del tricolore (1919), Canto degli orfani morti per la patria (1921). Il M. scrisse inoltre 2 cantate per soli coro e orchestra, 12 opere vocali liturgiche, 9 opere vocali da camera, 5 pezzi orchestrali (tra cui Scene veneziane e Riflessi e paesaggi) e 8 brani cameristici.
Il M. morì a Roma il 2 febbr. 1921.
La sua biblioteca fu donata dagli eredi al conservatorio di Genova, mentre la maggior parte delle fonti autografe è nell'Archivio di Stato di Terni - Sezione di Orvieto.
Nonostante il M. si sia strenuamente battuto per la nobilitazione e per l'autonomia estetica della musica strumentale in Italia, il sistema produttivo italiano fece sì che i suoi principali sforzi creativi restassero concentrati sul melodramma. Le tre opere - onorate da un successo di stima solo se dirette dal loro artefice e poi cadute in oblio - sono oggi inquadrabili come ideale anello di congiunzione tra i lasciti più significativi della scapigliatura (incentivo alla sprovincializzazione della cultura italiana, adesione ai modelli letterari d'Oltralpe, concezione anticommerciale dell'opera d'arte) e l'imminente dannunzianesimo, del quale esse anticipano alcuni aspetti (la visione estetizzante della classicità antica, il culto wagneriano e le velleità di un Gesamtkunstwerk all'italiana).
La levigatezza metrica del libretto di Isora insieme con l'astrattezza delle situazioni drammatiche delineate ben si sposavano con l'edonismo orchestrale del M., che orientò la composizione verso una carrellata di tableaux sinfonico-corali, debitori sia a Ch. Gounod per alcuni spunti tematici e per le concatenazioni armoniche (largo uso di progressioni semitonali e di passaggi enarmonici), sia a Verdi per la dinamizzazione dei lunghi cori e dei concertati (nell'attenzione rivolta all'istituto morfologico del finale d'atto il M. si distingue dai compositori a lui contemporanei e anche da G. Puccini, poco interessato allo sfruttamento dei concertati di marca verdiana).
L'esibizione autocompiaciuta del sinfonismo e delle digressioni modulanti, l'intrinseca prolissità nelle perorazioni dei motivi conduttori e la drammaturgia sostanzialmente inerte erano dei limiti che in parte furono ovviati con la seconda prova operistica. In Ero e Leandro il M. intensifica da un lato l'apporto corale, dall'altro l'irrequietezza armonica, senza tuttavia conseguire una scorrevolezza drammaturgica e senza liberarsi da un irrisolto dualismo (davvero boitiano) tra l'ambizione a un neoclassicismo antiverista e l'arretramento in direzione del mélo romantico. Contraddittorio fu anche il rapporto fra le suggestioni wagneriane (palmari nell'ultimo duetto dei protagonisti eponimi, improntato a un cromatismo trabordante) e la volontà, dichiarata dall'autore stesso (cfr. Ero e Leandro [Autocritica], p. 10), di porsi lungo il solco tracciato dall'ultimo Verdi, specie per il declamato e nuovo ruolo di "commento psicologico" attribuito all'orchestra. Di un certo interesse si rivelarono alcune novità linguistiche - largo impiego di quinte vuote, scale pentatoniche - tese all'instaurazione di una tinta arcaicizzante.
Più maturo l'ultimo cimento operistico, Paolo e Francesca, che condensava in un atto unico la verbosità aulica di Colautti, tramutando così la primigenia idea di un ipertrofico surrogato nostrano del Tristan und Isolde, in un dramma lirico intimo e "cameristico", distanziato dagli atteggiamenti della Giovine scuola - in quanto alieno da eccessi vocalistici o da facili effetti orchestrali - e degno prodromo dell'intellettualismo di I. Pizzetti. Le armonie d'impianto modale e la complessità delle soluzioni ritmiche si abbinavano a un melodismo asciutto e spesso tortuoso, indicativo di una volontaria "rinuncia al canto" (abbandonata solo nelle climax patetiche, tra cui spicca - come in Ero e Leandro - il duetto conclusivo tra gli amanti adulterini). Notevole la scelta di evidenziare la figura malvagia del Matto attraverso una discrasia fra i suoi intenti omicidi e la morbida vocalità tenorile con cui essi vengono espressi. Straniante e di grande efficacia drammatica fu poi l'intonazione, sempre da parte del Matto, di una dolce canzone intradiegetica (la Sirventa di Rudello) collocata poco prima della catastrofe e atta all'innesco di una suspense di tipo "filmico". Infine, mentre in Ero e Leandro poteva essere rintracciata con semplicità la vetusta struttura a numeri di pieno Ottocento, in Paolo e Francesca essa era neutralizzata da un continuum orchestrale che, se da una parte assicurava la fluidità nel passaggio tra le diverse scene, dall'altra portava la forma Durchkomponiert a una saturazione, conseguente all'assenza di stacchi e di respiri esatti dalle pause del dramma.
A ben vedere la costante predilezione per un tipo di drammaturgia statica (riproposta, identica a se stessa, nelle varianti neogotiche e neoclassiche) tradisce l'intrinseca indifferenza alle ragioni della scena da parte del M., che componeva "a tavolino" un melodramma alla stregua di un poema sinfonico, pensando cioè a una giustapposizione di affreschi sonori compattati con la tecnica dei Leitmotive (mai realmente sviluppati ed elaborati ma solo reiterati con "colori" differenti). Ciò considerato, non desta stupore il fatto che gli ultimi lavori compositivi del M. siano stati riservati alla musica cinematografica, un genere per statuto ontologico necessitato alla disposizione paratattica e alla ricorrenza di motivi conduttori associati ai nuclei espressivi della proiezione (al tempo di Frate sole ancora priva del sonoro). Nel confezionare le partiture per l'accompagnamento dei film di Corsi e Falena, il M. si riallaccia così all'esperienza del suo esordio con le musiche di scena per i drammi di Cossa: al pari di quelle anche le composizioni filmiche sono infatti concepite dal loro autore in guisa di un "poema sinfonico e corale da eseguirsi colla visione cinematografica e non già uno dei soliti commenti" (in Orfeo, IX, 29 maggio 1918, p. 1). In altre parole la musica - composta a film già montato e impossibilitata a essere fissata sul supporto tecnico che trasmetteva l'immagine - non si articola in una funzione referenziale relazionata allo svolgersi della proiezione, bensì diviene "una messinscena esattamente parallela a quella del regista" (cfr. Piccardi, p. 59). Nell'ottica del M. dunque, quanto avveniva sullo schermo - o sul palcoscenico nel caso degli spettacoli d'opera - solo in parte influenzava un pensiero compositivo che sostanzialmente restava di matrice sinfonica. Dato che in Italia la carriera compositiva coincideva ancora con quella operistica, il M. cercò di "contrabbandare" i suoi poemi sinfonici camuffandoli da musiche di scena o da melodrammi o da accompagnamenti per film muti, senza sapere che così facendo ne avrebbe decretato il fallimento sul piano ricettivo.
Marino, fratello maggiore del M., nacque a Orvieto il 16 giugno 1842. Appresi i rudimenti musicali dal padre e data prova del talento compositivo con un'Ave Maria e una Marcia funebre, studiò con A. Borroni, maestro di cappella in S. Francesco di Assisi. Completò in seguito il tirocinio formativo con Mabellini a Firenze. Divenne direttore dell'istituto musicale di Orvieto nel 1863 e nel '66 inaugurò il teatro Comunale della città natale. Continuò a comporre musiche bandistiche e celebrative (un oratorio, una messa solenne, un inno), mirando ad affermarsi nella carriera direttoriale, iniziata nel '74 al Politeama di Roma (memorabili il Rienzi di Wagner e Stella del Nord di G. Meyerbeer) e al Comunale di Bologna (1877: prima italiana del Vascello fantasma di Wagner). Forte della stima di Verdi (che lo considerava insieme con E. Mascheroni l'unico degno erede del podio di F. Faccio alla Scala), Marino si lanciò alla conquista del circuito operistico internazionale. Il tentativo tuttavia, a differenza di quanto era avvenuto per il M., si rivelò infausto: il fallimento dell'impresa d'opera da lui fondata in Brasile lo spinse al suicidio, avvenuto a Rio de Janeiro il 2 sett. 1894. L'unico melodramma scritto da Marino fu I ribelli (Lisbona 1888).
Fonti e Bibl.: L. Mancinelli, Epistolario, a cura di A. Mariani, Lucca 2000; Id., "Ero e Leandro" (Autocritica) scritta per incarico della Aeolian Company di New-York, trad. it., Genova 1923; A. Peña y Goñi, L. M. y la Sociedad de conciertos de Madrid, Madrid 1891; E. Sánchez Torres, L. M. y la Sociedad de conciertos en Barcelona, Barcelona 1891; Giudizi della stampa italiana sull'opera "Isora di Provenza", Roma 1892; L. Arnedo, L. M. y su ópera "Hero y Leander", Madrid 1898; A. De Angelis, Figure e aneddoti musicali nei ricordi di Luisa Mancinelli, in Noi e il mondo, 7 luglio 1921, pp. 489-493; U. Falena, Discorso commemorativo( in occasione delle onoranze a L. e Marino Mancinelli, Foligno 1923; G. Orefice, L. M., Roma 1921; C. Ferri, L'archivio Luigi Mancinelli, in Boll. dell'Ist. storico artistico orvietano, XV (1959), pp. 48-50; R. Mariani, Il gusto di L. M., in I grandi anniversari del 1960, a cura di A. Damerini - G. Roncaglia, Siena 1960, pp. 93-99; L. Silvestri, L. M. direttore e compositore, Milano 1966; V. Gui, Ricordo di L. M., in Nuova Riv. musicale italiana, V (1971), pp. 242-248; G. Zampini, "Isora di Provenza" di L. M., tesi di laurea, Univ. di Bologna, facoltà di lettere, a.a. 1975-76; G. Salvetti, L'approdo al Novecento antiverista: Smareglia e M., in Storia dell'opera, a cura di A. Basso, Torino 1977, I, 2, pp. 484-489; L. De Giorgi, M.: una strada non seguita, tesi di laurea, Univ. di Bologna, a.a. 1984-85; C. Piccardi, Agli albori della musica cinematografica: "Frate sole" di L. M., in Musica/Realtà, XVI (1985), pp. 41-74; G. Salvetti, I dannunziani, in Musica in scena, a cura di A. Basso, Torino 1996, II, pp. 461-464; B. Brumana - G. Ciliberti - R. Magherini, L. M., Immagini e documenti, Orvieto 1998; A. Mariani, L. M.: la vita, Lucca 1998; Id., Marino Mancinelli: competenza e sfortuna, Lucca 2001; G. Fornari, Un "epigono" di G. Verdi: L. M., in G. Verdi (1813-1901) nel 100( anniversario della morte. Resoconto del Colloquio internazionale( 2001, Merano 2003, pp. 198-230; L. Mattei, Tre libretti per L. M. tra riflessi scapigliati ed estetismo, in Scapigliatura & Fin de siècle. Libretti d'opera italiani 1860-1915. Scritti in onore di M. Marini, a cura di J. Streicher (in corso di stampa); Enc. dello spettacolo, VII, coll. 29-32; Diz. encicl. univ. della musica e dei musicisti, Le biografie, IV, p. 604; The New Grove Dict. of opera, III, pp. 176 s.; The New Grove Dict. of music and musicians, XV, pp. 729 s.; Die Musik in Geschichte und Gegenwart, Personenteil, XI (2004), coll. 948 s.