MENEGHELLO, Luigi
Nacque a Malo (Vicenza ), il 16 febbraio 1922, da Cleto (1892-1963), meccanico e gestore di una piccola azienda di trasporti, e da Giuseppina (Pia) Canciani (1894-1949), maestra originaria di Udine.
Il nonno paterno, Piero (1866-1943), mediatore di terreni e di bestiame, ma, secondo i nipoti, di vocazione contrabbandiere, aveva sposato Esterina Rubini; ebbero, oltre a Cleto, altri figli, che compaiono, nei libri di Meneghello, come memorabili figure di zii e zie, a volte presentati con nomi diversi: Antonia (zia Nina), Francesco (zio Checco), Ermenegildo (zio Ernesto), Elvira (zia Adele), Candida (a volte detta antifrasticamente zia Mora), Ubaldo (Baldo, zio Dino), il piú giovane e per certi aspetti il piú importante degli zii, «gran corteggiatore di donne: per me era il moroso di tutte le donne belle del mondo» (Opere scelte, 2006, p. LXXXVIII).
Ebbe due fratelli minori, Bruno (1925-2010), giudice, e Gaetano (1930-2006), ingegnere. Una sorella, Ester Elisa, nata nel 1935, morí bambina.
Ricevette l’istruzione elementare e media a Malo e poi a Vicenza; presa la maturità classica al liceo Pigafetta nel luglio 1939, nell’ottobre successivo si iscrisse alla facoltà di lettere dell’Università di Padova. Nel maggio 1940 partecipò, come membro del GUF (Gruppo universitario fascista), ai 'Littoriali della cultura' che si tennero a Bologna e riuscí primo nel concorso di dottrina fascista. I vincitori dei Littoriali potevano essere assunti da un giornale e dal 1940 al 1942 lavorò nella redazione del quotidiano di Padova Il Veneto, anche come assistente del direttore Carlo Barbieri, sul quale nei suoi libri si trovano osservazioni interessanti.
In quei due anni sostenne presso l'Ateneo patavino una ventina di esami universitari, ottenendo sempre il massimo dei voti, con alcuni fra i piú eminenti professori dell’epoca, quali Luigi Stefanini (estetica), Aldo Ferrabino (storia romana), Concetto Marchesi (letteratura latina), Diego Valeri (letteratura francese), Carlo Anti (archeologia), Norberto Bobbio (filosofia del diritto), Giuseppe Fiocco (storia dell’arte). Una serie di giudizi, spesso penetranti, ma anche impazienti e impietosi, si legge al riguardo in parecchie delle sue opere, e in particolare in Fiori italiani (Milano 1976).
Dopo la liberazione, il 17 dicembre 1945, si laureò con una tesi su Il problema della filosofia e della cultura moderna in «La Critica» che, presentata oralmente, come consentivano i regolamenti del periodo, fu approvata «col massimo dei punti e la lode». Più tardi confessò: «A quel tempo la tesi si poteva “fare” a voce, e io una mattina andai al Liviano a farla, e spiegai tutto a un gruppetto di persone in parte certamente serie e dotte, ma che forse sulla “cultura europea” non avevano particolari informazioni, e (strano) non mi parevano elettrizzate a sentire quello che gli dicevo» (Opere scelte, 2006, pp. CXIII s.).
Così si concluse formalmente, se pure in tono minore, il periodo dei suoi studi, sui quali lo scrittore tornò ripetutamente. Nel risvolto di copertina de Il dispatrio (Milano 1993), si legge la seguente sintesi, spesso citata dai critici: «Ho fatto studi assurdamente “brillanti” ma inutili e in parte nocivi a Vicenza e a Padova; sono stato esposto da ragazzo agli effetti dell’educazione fascista, e poi rieducato alla meglio durante la Guerra e la Guerra civile, sotto le piccole ali del Partito d’Azione. Mi sono espatriato nel 1947-48 e mi sono stabilito in Inghilterra con mia moglie Katia. Non abbiamo figli. L’incontro con la cultura degli inglesi e lo shock della loro lingua hanno avuto per me un’importanza determinante. Sono certamente un italiano, e non ho alcun problema di identità, né mi sono mai sentito per questo aspetto in esilio» (Opere scelte, 2006, p. LXXXVII).
Nell’estate del 1940 conobbe Antonio (Toni) Giuriolo, giovane vicentino, laureato in lettere nel 1935, che non poteva insegnare nelle scuole pubbliche perché aveva rifiutato di iscriversi al Partito fascista. Amico di Antonio Barolini e Neri Pozza, in contatto con intellettuali contrari al fascismo quali Luigi Russo, Francesco Flora, Aldo Capitini, Carlo Ludovico Ragghianti, Giuriolo esercitava uno straordinario fascino sui giovani con cui entrava in rapporto, contribuendo ad allontanarli dalla tronfia retorica di regime che dominava il costume e la cultura scolastica negli anni Trenta e a convertirli all’antiretorica, al gusto della litote, dell’understatement, dell’ironia.
In I piccoli maestri l’incontro fra Giuriolo e il capo di un gruppo di partigiani comunisti è presentato cosí: «un uomo piuttosto giovane, robusto, disinvolto. Aveva scritto sul viso: Comandante. […] Era ben pettinato, riposato, sportivo, cordiale. […] Il comandante avanzò sorridendo, a due metri si fermò, col pugno sinistro in aria, e disse allegramente: “Morte al fascismo”. Vibrava di salute, fierezza, energia. Toni un po’ imbarazzato disse: “Piacere, Giuriolo”, e gli diede la mano in quel suo curioso modo, con le dita accartocciate. Uno meglio dell’altro. Provavo fitte di ammirazione contraddittorie» (Opere scelte, p. 407).
Nel 1943, richiamato alle armi, s'iscrisse al corso allievi ufficiali alpini a Merano, e fu poi inviato a Tarquinia per partecipare alla difesa della costa tirrenica contro sbarchi alleati. Sorpreso dall’8 settembre, da qui riuscí a risalire nel Veneto e con un gruppo di amici vicentini contribuì a formare, all’inizio del 1944, nel Bellunese, anche con Giuriolo, un reparto partigiano che si richiamava al Partito d’Azione. Questi sono I piccoli maestri, le cui azioni, e i rastrellamenti subiti da parte di fascisti e tedeschi, furono descritti nel suo libro del 1964.
Dopo la liberazione Meneghello, che con il fraterno amico Licisco Magagnato condivideva gli ideali etici e politici del Partito d’Azione, con uomini come Ugo La Malfa, Leo Valiani, Emilio Lussu, Riccardo Lombardi, partecipò a tentativi di rinnovamento della società italiana che vennero ben presto elusi in un paese che restava dominato da due apparati di partito, quello dominante, democristiano, e quello di opposizione, comunista.
Fra 1946 e 1947 maturò la decisione del «dispatrio», per usare il titolo di una fra le sue opere più celebrate: vinto un concorso del British Council per una borsa di studio all’Università di Reading, vi si trasferí nel settembre 1947.
Frattanto, nel 1946, aveva incontrato Katia Bleier (1919-2004), che sposò a Milano, con rito civile, il 23 settembre 1948, avendola poi come inseparabile compagna della sua vita. Tutti i loro amici erano colpiti dalla sua intelligenza e da quanto Meneghello ricorresse alla sua intuizione e al suo giudizio anche su questioni accademiche e letterarie.
Katia era una ebrea iugoslava, di madre lingua ungherese, nata in Vojvodina. Nell’aprile 1941, quando i tedeschi travolsero l’esercito iugoslavo, la sorella maggiore Olga e il marito Eugenio Varnai, caduti per loro fortuna in mano agli italiani, furono internati a Malo. Katia, fuggita a Budapest, nella primavera del 1944 fu deportata ad Auschwitz con vari familiari che non sopravvissero alla prima selezione a Birkenau. All’inizio del 1945 era fra i superstiti mandati a Belsen dove fu liberata dagli inglesi nell’aprile 1945, riuscendo poi fortunosamente a raggiungere la sorella maggiore a Malo. Qui nel 1946, a una riunione di giovani del luogo, fece la conoscenza di Meneghello: «Era una sera serena, Katia abitava nell’alloggio sopra l’osteria delle Due Spade. Si saliva per una scala per raggiungere l’appartamento di Olga, da cui si apriva una finestra che guardava verso nord, e guardavamo il cielo stellato. E a un certo punto le ho chiesto: “Signorina Bleier voi credete in Dio?”, “No” ha detto lei. E io mi sono detto: “Questa qui la sposo”. Una ragazza piacente, vivace, straniera, culturalmente attraente (perché siamo esterofili), che viene da una famiglia di ebrei osservanti e non crede in Dio… Cosí io racconto la storia, l’ho raccontata tante volte a voce e la storia è diventata vera, Katia non l’ha mai contraddetta» (Opere scelte, 2006, p. CXXIV).
La borsa di studio a Reading si tramutò in un incarico per insegnare, nel dipartimento di inglese, aspetti del Rinascimento italiano. Questo portò alla formazione nel 1955 di una sezione italiana e nel 1961 alla creazione di un dipartimento indipendente di studi italiani, diretto da Meneghello, col titolo di senior lecturer, e poi di professor, dal 1964 fino al 1980 quando si dimise per dedicarsi integralmente alla scrittura creativa.
Il dipartimento di inglese a Reading negli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta comprendeva persone di indiscusso valore: Philip Brockbank, noto studioso di Shakespeare; Donald Gordon, capo dipartimento, originale e raffinato rinascimentista; Frank Kermode, poi professore allo University College di Londra e a Cambridge, fra i piú prestigiosi critici letterari inglesi; Jo Trapp, futuro direttore del Warburg Institute; John Wain, scrittore associato a gruppi come gli Angry young men e The movement. Professore di francese era A.G. (George) Lehmann, fine interprete del simbolismo; rettore, nel periodo in cui fu assunto Meneghello, Frank Stenton, illustre medievalista e autore di Anglo-Saxon England (1943), un volume che resta ancora oggi la piú autorevole introduzione all’argomento.
Meneghello si trovò a suo agio in questo ambiente stimolante e profittò dell’espansione delle università in quel periodo per allargare il gruppo dei suoi colleghi secondo i criteri di originalità e di perfezionismo che praticava nella sua attività di scrittore. Collaborò fin dall’inizio con docenti piú giovani, come Judy Rawson, Ursula Martindale, Anna Laura Momigliano, John Scott, Franco Marenco, Giulio Lepschy, Stuart Woolf, Lino Pertile, Zyg Baranski.
Con l’ampiezza degli interessi che provenivano anche dalla sua formazione accademica italiana incoraggiò il costituirsi di un centro di studiosi che furono tra i primi a introdurre nell’italianistica britannica un programma che andava ben al di là dei tradizionali corsi di lingua e letteratura, nominando giovani colleghi specialisti di storia, di linguistica, di storia dell’arte, e poi anche di cinema, di gender studies, e di cultural studies: tutte aree oggi generalmente praticate, ma che spesso hanno origine nelle iniziative del centro di studi italiani di Reading. Nell’italianistica in Gran Bretagna (e a volte anche nell’anglistica in Italia) ancora oggi si trova un buon numero di docenti passati per Reading, come studenti, come colleghi o come lettori, nel dipartimento di Meneghello.
Nel corso della sua carriera universitaria a Reading Meneghello si dedicò anche a una costante attività di scrittore pubblicando molti libri, di solito designati nelle collane editoriali in cui uscirono, come «romanzi», oltre che saggi e riflessioni, 'auto-commenti' in cui illustrava il suo modo di scrivere a sé stesso e al lettore. Questi saggi piú brevi, presentati a volte in forma di plaquettes, che potrebbero provocare in un pubblico distratto o superficiale il sospetto di essere cincischiature pretenziose, si rivelano invece straordinariamente freschi ed efficaci.
L’opera che inaugurò la sua carriera come scrittore è Libera nos a malo (Milano 1963), una straordinaria rappresentazione della vita e della civiltà del suo paese, Malo appunto, un luogo che, dalla pubblicazione del libro, è entrato a far parte di una canonica geografia poetica dell’Italia. E' un paese dialettofono, dove, come osserva efficacemente l'autore, si parla una lingua che non si scrive, il dialetto alto-vicentino (designazione che esisteva topograficamente, ma che Meneghello ha introdotto nella dialettologia italiana), e si scrive una lingua che non si parla (quando va bene l’italiano letterario, quando va meno bene l’italiano scolastico). In esso una parola come «uccellino» compare in dodici forme diverse, delle quali undici, puntigliosamente elencate, sono illegali (ucelino, ucielino, ucilino ecc.) e soltanto la dodicesima (uccellino) è legittima, cioè «realizza il grado zero dell’illegalità». Queste sono tutte varianti della lingua scritta e indicano un animaletto privo di ogni vitalità, a differenza di quello che è designato dall’unica parola parlata vera, che appartiene al dialetto, e a Malo è oseleto (Opere scelte, 2006, pp. 990-992). Il libro, scritto con vivacità e arguzia straordinaria, fondendo con splendida bravura l’italiano più raffinato e differenti varietà del dialetto, si era fino a poco tempo fa sottratto a ogni ipotesi di traduzione, quando finalmente sono uscite, a poca distanza l’una dall’altra, due inattese ma efficaci versioni, ispirate da criteri diversi, la prima in francese (di Christophe Mileschi, Paris 2010) e la seconda in inglese (di Frederika Randall, Evanston [IL] 2012).
Pomo pero. Paralipomeni d’un libro di famiglia (Milano 1974) è il secondo libro. Il sottotitolo ricorda ovviamente i Paralipomeni della Batracomiomachia, con la consueta ambivalente coesistenza fra alto e basso, fra un richiamo che nobilita (Leopardi, autore fra i più presenti nei testi di Meneghello) e un altro di opposto tenore (la battaglia delle rane e dei topi). L’ambivalenza è anche semantica: «continuazione» o «ciò che era stato omesso»? E il «libro di famiglia» allude a Libera nos o a Pomo pero stesso? Certamente si tratta di un libro di famiglia che acquista un risvolto genealogico-antropologico di sorpendente ampiezza: «Mio nonno è nato proprio nell’anno che il Veneto diventò Italia, dunque non ci sono altri italiani che lui e mio padre tra me e il tempo antico quando qui non ce n’erano ancora. Ci si sta comodi in tre in un secolo; una sessantina di persone da rintracciare tra me e i romani, qualche centinaio fino alle caverne, alcune migliaia tra me e i pitecantropi. È curioso che a metterli tutti insieme si farebbe all’incirca un paese come il mio e si potrebbe venirci a conoscere tutti; è molto probabile che dell’intera serie sarebbero alfabeti solo gli ultimi tre, nonno, papà e in un certo senso io; tutti invece, per la natura stessa della linea divisoria, saprebbero parlare. Non so se sarebbe probabile, ma vorrei sperare che le lingue facessero una catena, almeno in fatto di comprensibilità: in fondo dev’essere ben raro che il figlio non s’intenda affatto col padre, a parole. Si potrebbe dunque dirci qualunque cosa e aspettare che ciascuno la racconti all’altro, e alla fine veder ridere in fondo alla fila lo scimmiotto Meneghello o noi minacciarlo col pugno» (Opere scelte, 2006, p. 624).
In una lectio magistralis, tenuta a Palermo il 20 giugno 2007, raccontò che suo padre, quando fece i segnetti opportuni per tornire una vite senza fine (il 'capolavoro', come veniva chiamato nel linguaggio tradizionale delle corporazioni d’arti e mestieri, il pezzo presentato da un operaio all’esame per diventare 'maestro') venne fermato dal suo esaminatore che, avendo già capito quanto era bravo, gli disse «Basta cosí». Anch’io, aggiunse Meneghello, vorrei scrivere qualcosa, magari solo una paginetta, di veramente conclusivo, ma da scrittore veramente maturo (ibid., p. CLXV); senza sapere naturalmente che non era necessario perché quella paginetta l’aveva già scritta.
Più in generale gli scritti di Meneghello possono, se pur sommariamente, essere raggruppati in tre grandi gruppi: quelli di argomento 'civile', riconducibili a I piccoli maestri (Milano 1964), con la loro visione antiretorica della cultura italiana, a Fiori italiani (ibid.1976) sull'educazione-diseducazione di un giovane durante il regime fascista, e a Bau-sète (ibid. 1988), penetrante rievocazione del dopoguerra, dedicata all’amico Magagnato. In secondo luogo vi sono le opere che si potrebbero definire di argomento semiotico (sebbene Meneghello non usasse questo termine), sul rapporto fra lingua parlata e lingua scritta, dialetto, lingua letteraria, lingua della poesia: Jura. Ricerche sulla natura delle forme scritte (ibid. 1987), Leda e la schioppa (Bergamo 1988), Maredè, maredè… Sondaggi nel campo della volgare eloquenza vicentina (ibid. 1990); e infine i testi propriamente maladensi, a partire da Libera nos a malo.
Va comunque tenuto presente che una caratteristica della sua scrittura è l’auto-riflessività, il commento metalinguistico, l’illustrazione delle sue proprie opere, che rende difficile separarne lo svolgimento narrativo dal chiarimento esegetico, e una classificazione in base a temi e argomenti diversi. I libri di Meneghello danno l’impressione di rivolgersi a un pubblico 'di nicchia', di persone interessate ad apprezzarne le peculiari qualità stilistiche e linguistiche, che emergono anche al di là dell’interesse legato all’uso del dialetto; è stato osservato (Opere scelte, 2006, pp. XLVII, 1465) come, per esempio, lettori familiari con dialetti italiani meridionali riconoscano la loro stessa formazione leggendo espressioni vicentine in Meneghello e percepiscano quello che in inglese è stato chiamato lo shock of recognition.
Meneghello ebbe anche lunga consuetudine con l’attività di giornalista, cominciata sulle colonne de Il Veneto già nel 1940-42. Dopo la liberazione iniziò, da Reading, nel 1952, a pubblicare articoli su Comunità, la rivista di Adriano Olivetti, cui fu invitato a collaborare dal direttore, Renzo Zorzi, suo vecchio amico e compagno di università a Padova. Le recensioni su Comunità, di solito su libri pubblicati in Inghilterra, firmate con lo pseudonimo Ugo Varnai (il cognome era quello del cognato Eugenio), furono molto numerose. Dal 1967 iniziò anche una saltuaria collaborazione con vari giornali e riviste, come Corriere della sera, Stampa, Guardian, Times Literary Supplement. Dal 2004 pubblicò con una certa regolarità una serie di interventi sul supplemento culturale del Sole-24 ore (raccolti in L'apprendistato. Nuove carte 2004-2007, pref. di R. Chiaberge, Milano 2012).
Scrittore vario e raffinatissimo, ottenne nel 1988 il premio Bagutta per Bau-sète; nel 1992 il premio Nonino Risit d’Aur per Maredè, maredè; nel 1994 il Mondello per Il dispatrio; nel 1997 i premi Angelini e Vailate per La materia di Reading e altri reperti (Milano 1997). A Varese, nel 2001, ricevette il premio Chiara alla carriera e nel 2003 a Bergamo il premio Calepino. Il premio Antonio Feltrinelli per la narrativa avrebbe dovuto essergli consegnato all’Accademia dei Lincei il 6 luglio 2007.
Oltre alla cittadinanza onoraria di Vicenza (2002) e alla nomina a grand’ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica italiana (2003), vanno ricordate le iniziative con cui il Comune di Malo nell’estate del 2003 celebrò il quarantennale della pubblicazione di Libera nos, presso il Museo Casabianca fondato da Giobatta Meneguzzo, amico e cultore di lunga data delle sue opere, e in altri siti della città.
Ricevette anche numerosi riconoscimenti accademici, come le lauree ad honorem delle Università di Reading (1988), Torino (2002), Perugia (2003), Palermo (2007), e fu membro di numerose accademie, fra cui l’Accademia Olimpica di Vicenza e dell’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti.
Nel 1991 il Laboratorio Teatro Settimo di Settimo Torinese ha presentato una interpretazione teatrale di Libera nos a malo (drammaturgia di Antonia Spaliviero, regia di Gabriele Vacis, interpreti Marco Paolini e Mirco Artuso). Del 2006 è una lunga intervista filmata dello stesso Paolini a Meneghello, con la regia di Carlo Mazzacurati.
Nel 1998 da I piccoli maestri il regista Daniele Luchetti ha tratto il film omonimo, con Stefano Accorsi nella parte di Meneghello e Paolini in quella di Giuriolo.
Morì a Thiene il 26 giugno 2007, e fu sepolto a Malo, accanto alla moglie, nella tomba della famiglia.
Nel 2008 è nata a Malo, per iniziativa di Valter Voltolini, l’Associazione culturale Luigi Meneghello, dedicata a tener vivo il suo ricordo.
Fra le opere non citate nel testo: Le Carte. Manoscritti inediti 1963-1989 trascritti e ripuliti nei tardi anni Novanta, I-III, ibid. 1999-2001. Si vedano inoltre i due volumi delle Opere, I-II, a cura di F. Caputo, ibid. 1993 e 1997, nonché, a compendio, il «Meridiano» mondadoriano delle Opere scelte, progetto editoriale e introd. di G. Lepschy, a cura di F. Caputo e con uno scritto di D. Starnone, ibid. 2006 (III ed., 2007).
Materiale manoscritto con corrispondenza relativa alle opere di Meneghello è stato lasciato dall’autore al Fondo Manoscritti dell’Università di Pavia (Fondazione Corti). Per informazioni biografiche esaustive e attendibili si rimanda all’apparato di F. Caputo, in Opere scelte, cit., dove un'ampia bibliografia della critica è alle pp. 1773-1801.
Si vedano in particolare: Su/Per M., a cura di G. Lepschy, Milano 1983; E. Pellegrini, Nel paese di M.: un itinerario critico, Bergamo 1992; Per «Libera nos a malo»: a 40 anni dal libro di L. M., Atti del convegno internazionale di studi…, Malo… 2003, a cura di G. Barbieri - F. Caputo, Vicenza 2005.