MUZZI, Luigi
– Nacque a Prato il 4 febbraio 1776 da Giovanni e da Carlotta Cantini.
Ragazzo irrequieto e poco incline ad assoggettarsi all’autorità paterna, fu iscritto al collegio Cicognini, ma abbandonò gli studi regolari nel 1792. Nell’aprile 1795, costretto dal padre, che originariamente avrebbe voluto indirizzarlo al sacerdozio, entrò nell’esercito toscano, in un reggimento di stanza a Siena. Ma, insofferente della vita militare e attratto dai fermenti liberali di quegli anni, disertò nell’aprile 1797 e fuggì a Bologna, dove si ridusse per qualche giorno a mendicare e dormire all’addiaccio. Nei mesi successivi militò per un breve periodo in un corpo di ussari a sostegno della Repubblica Cisalpina.
A Bologna nella primavera 1798 sposò Maria Guerra, da cui ebbe nove figli (due morirono appena nati). Nello stesso periodo ebbe il primo di una serie interminabile di impieghi, con l’ufficio di segretario di Antonio Lei, commissario per la polizia generale del Dipartimento del Reno. L’instabilità lavorativa, unita ai dissapori col padre, che si dimostrò sempre molto restio a concedergli aiuti, furono causa delle difficoltà economiche che lo tormentarono lungo tutta la vita.
Nel maggio 1799, approfittando dell’occupazione francese che rendeva di fatto estinto il reato di diserzione, Muzzi – che professava idee progressiste attraverso un’attività pubblicistica in vari periodici, tra cui il Giornale dei patrioti – si stabilì a Firenze. Il 22 luglio dello stesso anno, dopo la cacciata delle truppe francesi, venne arrestato e processato non solo come disertore, ma anche per aver partecipato a una sommossa popolare filofrancese. Il processo, che vide partecipare il fratello Giuseppe come testimone dell’accusa, si concluse nel novembre 1799 con la condanna al confino a Portoferraio nell’isola d’Elba. Riuscì a fuggire nel giugno 1800, nascondendosi in una barca in cui venivano trasportati alcuni detenuti liberati.
Tornato a Bologna, vi rimase per quasi un quarantennio, salvo brevi periodi trascorsi a Brescia e a Milano, dove svolse incarichi di segreteria. L’intensa attività di studioso nel campo linguistico e letterario lo portò a ricoprire posizioni anche prestigiose, ma sempre di breve durata. Tra il 1802 e il 1804 lavorò come copista nell’Istituto di scienze, lettere ed arti di Bologna (in seguito vi rimase come semplice coadiutore). Nel 1808 fu nominato pubblico ripetitore di eloquenza italiana e latina all’Università (occupando il posto che era stato di Pietro Giordani); in seguito per un breve periodo fu professore di belle lettere. Nel 1809 entrò a far parte dell’Accademia italiana. Nel 1824 divenne socio corrispondente dell’Accademia della Crusca; nei decenni successivi si adoperò con tenacia per esservi ammesso come socio ordinario, ma lo ostacolarono vari accademici, con i quali «ebbe controversie vivissime a cagione delle sue opinioni troppo larghe in argomento di lingua» (Pitrè, 1868, p. 130).
Il 4 agosto 1828 fu arrestato per aver opposto resistenza all’ufficiale giudiziario che gli notificava un’ingiunzione di sfratto. Rimase in prigione, in attesa di un processo che non fu mai celebrato, fino al 14 ottobre; vi tornò, dopo mesi di domicilio coatto, nel giugno 1829. Riacquistò la libertà l’11 agosto grazie all’intervento del legato pontificio cardinale Tommaso Bernetti. Il 22 novembre ottenne finalmente una sentenza di piena assoluzione. Non è chiaro quale fosse l’accusa rivoltagli; secondo Papi (1966, pp. 49 s.), all’origine dell’incarcerazione fu una macchinazione ordita dai figli della sua padrona di casa, che si era rivolta a lui perché intervenisse in suo favore in una lite familiare. Nuovi problemi con la giustizia si verificarono nel 1831: il 19 luglio fu incarcerato a causa della querela rivoltagli da un magistrato contro il quale aveva pubblicato un foglio polemico nel febbraio precedente. Gli vennero inoltre sequestrati tutti gli scritti trovati in casa. Rimase in carcere fino al 9 agosto; il processo cui fu sottoposto non arrivò a una sentenza e la vicenda si risolse definitivamente solo il 4 agosto 1835, quando un rescritto papale cancellò ogni addebito. Un’altra disavventura legale gli capitò nel novembre 1837: perse una causa civile che gli costò 1400 scudi.
Dal 1839 si stabilì a Firenze. Il 27 maggio 1842 ottenne il posto di coadiutore per le lingue orientali nella Biblioteca Mediceo Laurenziana, che ricoprì per tre anni. Nel 1848 partecipò ai moti insurrezionali e il Governo provvisorio di Toscana lo nominò rappresentante a Costantinopoli, carica che, ovviamente, non esercitò mai a causa del ritorno al potere del granduca. Nell’aprile 1849 fu coinvolto nel processo contro Francesco Domenico Guerrazzi, che per lui ebbe come unica conseguenza una sanzione pecuniaria.
La vecchiaia fu segnata dalla miseria, oltreché da gravi impedimenti fisici, conseguenza di una frattura al femore occorsa nel 1853 da cui non si riprese mai completamente.
Morì a Firenze il 15 marzo 1865.
Le molte traversie non gli impedirono di coltivare per oltre sessant’anni un’intensissima attività nel campo delle lettere. Le sue numerose pubblicazioni (parecchie delle quali sparse in periodici e in miscellanee d’occasione) mostrano una molteplicità di interessi e una spiccata attitudine a tentare di battere strade nuove. Grande impegno profuse come curatore di testi (Fioretti di s. Francesco, Bologna 1817; D. Cavalca, Specchio di croce, ibid. 1819; B. Menzini, Dell’invidia de’ letterati, ibid. 1820; A.M. Salvini, Discorsi, ibid. 1821; L. Magalotti, Delle lettere famigliari contro l’ateismo, ibid. 1820-23; Guido da Pisa, Fiore d’Italia, ibid. 1824; l’Ottimo commento della DivinaCommedia, Pisa 1827-29; Tre epistole latine di Dante, Bologna 1845); fu anche traduttore dal latino (V. Patercolo, Le storie, ibid. 1808) e interprete di singoli aspetti delle opere di Dante e Petrarca (Sopra un luogo del Petrarca e per incidenza sulla proposta del sig. cav. Vincenzo Monti, ibid. 1823; Sopra un luogo del Petrarca nella canzone a Nostra Donna, ibid. 1823; Epistola contenente la nuova esposizione di un luogo del Petrarca e di alcuni di Dante, ibid. 1825; Sopra alcuni luoghi della Divina Commedia, Forlì 1830; Sul verso di Dante «Poscia più che il dolor poté il digiuno», ibid. 1830).
Diede un contributo rilevante nell’ambito della lessicografia (Nuovo spoglio di vocaboli tratti da autori citati dagli Accademici della Crusca, Bologna 1813; Picciola rivista al gran dizionario della lingua italiana che si stampa in Bologna, ibid. 1819; Per un diverso sistema di compilare i vocabolari, Firenze 1851), tanto sul versante della documentazione di parole mal note, quanto su quello delle questioni di metodo. Avanzò tra l’altro la proposta di accogliere nei dizionari italiani anche una selezione di parole non toscane, oltre a neologismi formati per analogia. Il frutto più impegnativo fu l’Adiettivario o sia Vocabolario degli adiettivi propri, pubblicato dapprima in appendice al Vocabolario de’ nomi propri sustantivi di Claudio Ermanno Ferrari (Bologna 1827-28), poi in edizione autonoma (Padova 1831). Si inserì nelle polemiche suscitate dalle teorie anticruscanti di Vincenzo Monti e Giulio Perticari con l’aperta rivendicazione della preminenza linguistica di Firenze, esposta nell’Epistola sulla quistione del nome, che convenga alla nostra lingua, inserita nella raccolta di suoi scritti Saggio di rime prose e iscrizioni (Bologna 1825). Entrambi i letterati erano peraltro già stati attaccati in precedenti saggi da Muzzi, causando l’irritazione di Monti, che in una lettera a Perticari lo definì un «fatuo pedantuzzo» (Epistolario, V, 1830, p. 86). Dimostrò un’attenzione per aspetti linguistici allora tutt’altro che ovvi, come la microsintassi, nel Saggio sulle permutazioni della italiana orazione (Milano 1811), un singolare tentativo di individuare con mezzi aritmetici alcune regole per la migliore collocazione delle singole componenti frasali. Il testo suscitò l’interesse di Foscolo, che vi ravvisò una certa «curiosità teorica», ma non quell’utilità pratica che era obiettivo principale dell’opera (Foscolo, Epistolario, IV, 1954, p. 143).
Si applicò anche alla didattica, a cui dedicò parecchi volumi: Della grammatica della lingua italiana (Bologna 1819); Nuovo metodo di imparare a leggere e a scrivere (ibid. 1820); Sillabario secondo il metodo fonico pel magistero di leggere e scrivere (Firenze 1863; precedenti edizioni: Bologna 1827, Firenze 1854). Vi si esponeva in particolare un modo di insegnare ai bambini a leggere, basato non sull’alfabeto ma sulle sillabe. Tali teorie ebbero un discreto seguito tra i pedagogisti dell’Ottocento; viceversa, nessun’influenza esercitarono certe proposte di innovazioni ortografiche (tra cui la più vistosa è l’uso della q in parole come quore), sparse in vari suoi testi.
Una grande notorietà derivò a Muzzi dalla sua attività nel campo – allora nuovo e controverso – dell’epigrafia in italiano, in cui spiccò se non altro per la quantità di iscrizioni composte (dopo la pubblicazione di Iscrizioni trecento, Prato 1827, seguirono altre sette centurie: Forlì 1828, Prato 1829, Bologna 1832, Prato 1834, Padova 1836, Bologna 1838, Firenze 1846; ulteriori quattro centurie rimasero inedite). Un curioso esperimento è costituito da L’innamorata del sole. Iscrizioni (Firenze 1842), che rinisce 24 iscrizioni composte da Muzzi per una giovane alienata, internata nell’ospedale della Salpêtrière di Parigi. Il successo di tutte le raccolte epigrafiche tra i letterati del tempo fu ampio, ma non mancarono i detrattori, che deplorarono soprattutto la libertà linguistica, in particolare lessicale, dimostrata da Muzzi in molte occasioni. Coltivò anche, ma con minore impegno, la scrittura poetica, il cui frutto più rilevante fu il carme Giulietta e Romeo (Firenze 1842); alcuni testi sono raccolti in Saggio di rime (cit.).
La vastissima rete dei suoi rapporti con intellettuali coevi è testimoniata dall’ingente mole di lettere, molte delle quali conservate in biblioteche pubbliche (il fondo più consistente è quello della Biblioteca comunale di Poppi, Mss., 343-393). Una scelta dai carteggi familiari fu pubblicata della figlia Olimpia (Epistolario, Firenze 1872).
Fonti e Bibl.: U. Foscolo, Epistolario, a cura di P. Carli, II, Firenze 1952, pp. 463 s.; IV, ibid. 1954, pp. 142 s.; V. Monti, Epistolario, a cura di A. Bertoldi, III, Firenze 1929, p. 143; V, ibid. 1930, pp. 86, 187; C. Guasti, Bibliografia pratese, Prato 1844, pp. 162-170; I. Cantù, L’Italia scientifica contemporanea, Milano 1844, pp. 519 s.; P. Colomb de Batines, Bibliografia dantesca, Prato 1845, pp. 680 s.; O. Muzzi, Biografia del fu prof. L. M., Fano 1865; C. Cantù, Alcuni italiani contemporanei, II, Milano 1868, pp. 313-316; G. Pitrè, Nuovi profili biografici di contemporanei, Palermo 1868, pp. 129-133; C. Guasti, Giuseppe Silvestri, l’amico della studiosa gioventù, I, Prato 1874, pp. 207-228; G. Baroni, Alcune lettere inedite di L. M. e M. Leopardi al conte Raffaello Servanzi, in La Rassegna italiana, IV (1884), 2, pp. 21-40; E. Mestica, Manuale della letteratura italiana nel secolo decimonono, Firenze 1885, p. 602-610; Lettere di L. M. ed altri e articoli concernenti l’italiana epigrafia, a cura di T. Camporota, Castrovillari 1901; C. Trabalza, Storia della grammatica italiana, Milano 1908, pp. 436, 480; F. Martini, Confessioni e ricordi, Firenze 1922, pp. 34-36; G. Mazzoni, L’Ottocento, Milano 1938, I, pp. 290, 432, 520; II, 231, 419 s.; R. Papi, L. M., principe dell’epigrafia italiana, Prato 1966; G. Tellini, Letteratura e storia, Roma 1988, pp. 39-52; M. D’ascenzo, La scuola elementare nell’età liberale. Il caso Bologna, Bologna 1997, p. 278; G. Tortorelli, Il torchio e le torri. Editoria e cultura a Bologna dall’Unità al secondo dopoguerra, Bologna 2006, pp. 171 s.