ROMANELLI, Luigi
– Nacque a Roma il 21 luglio 1751. Così risulta da una fonte indiretta ma assai utile circa la vicenda biografica del poeta improvvisatore e librettista, ossia dalla Bibliografia melodrammatica di Luigi Romanelli di Giovanni Salvioli (alias Luigi Lianovosani; Milano 1878) nell’esemplare della biblioteca del Conservatorio di Milano (CATA.28.1), proveniente dal legato dell'erudito milanese Francesco Somma, e dal medesimo annotato con abbondanti notizie, forse ricavate da un fascicolo personale sul già docente di declamazione e belle lettere in quell’istituto musicale superiore. Nei casi in cui le si è potute comparare con fonti archivistiche dirette, tali notizie si sono rivelate attendibili.
Nel 1769 venne ammesso nell’Arcadia di Roma con il nome di Corebo Ladonio. Figurò poi anche tra gli accademici Aborigeni, col nome di Olimpio Misio (alcuni suoi versi comparvero in varie collettanee romane: Adunanza … per la coronazione della celebre pastorella Corilla Olimpica, 1775; Adunanza … per l’acclamazione dell’AA.RR. di Carlo Emanuele principe di Piemonte e Maria Clotilde principessa di Francia, 1775; In lode delle belle arti, 1777; Rime degli Aborigeni riferite all’adunanza del 20 giugno 1780; Componimenti poetici dedicati agli eccellentissimi sig.ri conte d. Luigi Braschi Onesti e donna Costanza Falconieri, 1781). Nel 1777 poetò Il tempio della Virtù, «componimento drammatico» commissionato dal magistrato di Fano per il conferimento della porpora al cardinal Marcantonio Marcolini; fu dato nel «Nobilissimo Teatro di Fano» con musica di Lorenzo Baini.
Nel 1780 due suoi componimenti d’occasione vennero pubblicati e recensiti nelle Efemeridi letterarie di Roma (15 gennaio e 15 aprile), periodico divulgativo fondato nel 1772 da Giovanni Lodovico Bianconi e animato da esponenti di spicco dell’Arcadia. Nel presentarne i versi, il redattore riferì la «natìa spontanea facilità del Sig. Romanelli» (p. 121) e il rammarico nel constatare «qual distinto posto egli potrebbe assicurarsi sul parnasso Italiano, se disprezzando un po’ meno la propria gloria, si volesse risolvere a pubblicare la compita raccolta di tutte le sue poetiche composizioni, intese già per la maggior parte con unanime applauso nelle nostre letterarie adunanze» (ivi, p. 17).
Tali giovanili predisposizioni di Romanelli, nonché la riluttanza a dare alle stampe le proprie opere, trovano conferma nel Preambolo all’edizione dei suoi Melodrammi (8 volumi, Milano 1832-33, con elenco e un’ampia selezione dei suoi libretti). L’autore allude alle proprie vicende giovanili: il precocissimo ingresso in Arcadia; gli esordi nella pratica della poesia estemporanea, «la quale comunemente, e più che altrove in Roma, si ammira come un privilegio straordinario, accordato a pochi dalla Natura» (Melodrammi, I, pp. VII s.); e la successiva «capricciosa» necessità di lasciare la patria, per motivi non specificati.
Dovette allontanarsi da Roma sui trent’anni. Alcuni spostamenti si possono desumere dalle lettere che tra il 1784 e il 1794 indirizzò all’avvocato e intellettuale piacentino Luigi Bramieri (conservate principalmente a Parma, Biblioteca Palatina, carteggio Bramieri, cassetta 127, sub voce). Soggiornò a Piacenza, Busseto, Modena, Reggio, dove, col nome di Megisto, partecipò alle riunioni degli Ipocondriaci (cfr. L. Cagnoli, Memorie per l’Accademia degli Ipocondriaci di Reggio, Milano 1839, pp. 43, 56). Nel maggio 1784 fu a Parma, dove diede almeno due accademie in teatro; nei mesi successivi soggiornò a Brescia, Bergamo, Alessandria, Casale Monferrato e Tortona. Fece una visita a Salò e due a Chiari, da dove, nel 1785, si diresse in Trentino e nel Tirolo italiano, come attestano le Lettere di Lodovico Ricci (Brescia 1821), il canonico di Chiari che gli procurò delle commendatizie per Rovereto e, nel 1787, per Brescia (ivi, pp. 180-182, 58-60).
Il carteggio con Bramieri, oltre a fornire informazioni sulle condizioni professionali degli improvvisatori, rivela anche taluni aspetti della vita privata di Romanelli. Il 18 settembre 1794 egli riferisce di aver sposato una donna, Geltrude, da poco rimasta vedova, con la quale aveva convissuto ben tredici anni, ossia dal 1781 (non si può escludere che la circostanza avesse qualche rapporto con il misterioso abbandono dello Stato pontificio; né si conoscono gli estremi anagrafici). Dovette comunque mantenere i contatti con gli arcadi romani, se una sua traduzione dell’ode oraziana ad Maecenatem venne pubblicata ancora nel 1790 sull’Antologia romana.
Nel marzo 1787 si stabilì a Bozzolo, dove continuò a esibirsi come improvvisatore. In un’altra missiva a Bramieri (15 settembre 1791; Bologna, Biblioteca dell’Archiginnasio, Collezione degli autografi, CXXI, 23.34) il poeta racconta di aver ricevuto la visita di un certo Feroni, improvvisatore folignate (forse Sante Ferroni, nato nel 1767), e di essersi adoperato perché «recuperasse almeno le spese del viaggio facendogli fare delle pubbliche accademie ed una privata in casa d’una dama che mi onora dell’amicizia sua» (probabile riferimento alla contessa Eulalia Pedretti Pacini in Piccioni, sua protettrice bozzolese). A Bozzolo trascorse poco meno di un quindicennio, prendendo parte attiva alla vita civile della cittadina mantovana. Tenne la cattedra di umanità e retorica e a partire dal 1794 la sovrintendenza di tutte le scuole comunali (Bettoni, 2012, p. 130). Non è improbabile che nell’agosto 1793 abbia attivamente aderito all’intento di un gruppo di cittadini associati di trasformare la stanza della «scuola vecchia» in sala teatrale. In campo didattico propugnò idee avanzate: si interessò dell’applicazione del cosiddetto ‘metodo normale’ e coinvolse i propri allievi in pubbliche accademie. Nel 1795 la straordinaria dedizione gli valse un aumento di stipendio e un generale apprezzamento trasversale, poi minato dai dissidi politici insorti in seno alla comunità bozzolese in occasione del passaggio dei francesi nel 1796 (Bettoni, 2002, pp. 61-67). Romanelli si schierò apertamente con i repubblicani e i bonapartisti; era così in vista che nel marzo 1797 il generale Sextius-Alexandre-François de Miollis, che aveva condotto l’assedio di Mantova, lo scelse insieme a Ippolito Piccioni e Francesco Pasotelli per la gestione provvisoria del comune di Bozzolo. Il 3 maggio organizzò i festeggiamenti per il passaggio di Napoleone, al quale dedicò un sonetto d’encomio (ivi, pp. 74, 90 nota 10), provvide all’erezione dell’albero della libertà e ne diede notizia in un articolo apparso il 17 maggio sul Giornale degli amici della libertà italiana fondato a Mantova da Giuseppe Lattanzi. Nella brevissima esperienza del Circolo costituzionale di Bozzolo, concepito, su modello di quello milanese, per l’educazione politica degli adulti, nell’agosto 1798 organizzò un saggio notturno con i suoi allievi.
L’impegno politico e i conseguenti contrasti possono forse spiegare perché Romanelli si sia allontanato dalla cittadina durante i tredici mesi dell’occupazione austriaca: nell’aprile 1799 chiese congedo dal ruolo di direttore delle scuole e riparò per prudenza a Milano. Scaduti i termini del congedo, in settembre fu licenziato. Intanto ebbe il primo impegno con il Teatro alla Scala, per il quale stilò due drammi giocosi per la stagione d’autunno del 1799 (Il trionfo del bel sesso, desunto da La forza delle donne di Giovanni Bertati, musica di Giuseppe Nicolini; Il ritratto, Nicola Antonio Zingarelli) e un’opera seria per il carnevale 1801 (I baccanali di Roma, Nicolini). Con il ritorno dei francesi e l’instaurazione della Seconda Cisalpina, ritornò a Bozzolo in veste di Ispettore della Sezione di Polizia, nominato a fine febbraio 1801 da Antonio Smancini, ministro della Giustizia e della Polizia generale. Dalle minute da lui redatte se ne evince il pensiero politico: la vocazione pedagogica ne guidò l’azione, si sforzò di arginare l’ingerenza degli ecclesiastici nelle questioni civili, l’ispirazione filantropica lo spinse a intervenire a sostegno degli indigenti e ad alleviare le condizioni sanitarie dei carcerati. L’esperienza durò però pochi mesi: già in ottobre venne destituito a seguito di un’inchiesta per corruzione a carico del suo collega Michel Angelo Azzolini; nondimeno nel novembre 1801 ricevette ancora incarichi amministrativi, seppure di minore importanza (ivi pp. 84-86, 113-119, 129-134, 137 n. 20, 213 s.). Sempre al 1801 risalgono il matrimonio con la bozzolese Maria Del Vecchio (nata nel 1774) e la stesura del testamento della contessa Piccioni, che gli riservò un legato di lire mantovane 2000 (l’amicizia e la gratitudine per la nobildonna sono testimoniate anche dal fatto che una delle figlie di Romanelli ne portò il nome, Eulalia).
Il trasferimento definitivo a Milano avvenne nel 1802 e coincise con il rinnovato, e da allora in poi assiduo, impegno teatrale: per la stagione estiva della Scala stese un nuovo melodramma giocoso, Il puntiglio (musica di Vincenzo Pucitta). La progressiva affermazione come poeta teatrale scaligero combaciò, almeno nel primo decennio del secolo, con l’esplicita adesione al bonapartismo. Già nei citati Baccanali di Roma (1801) la messa al bando dei superstiziosi culti dionisiaci si lascia leggere come stigmatizzazione delle posizioni giacobine e indipendentiste più estreme, osteggiate dallo stesso governo francese (cfr. Chegai, 1998). Il dramma Castore e Polluce (1803; Vincenzo Federici) offre poi l’esempio di un’opera che propaganda il regime napoleonico e «una visione nuovamente verticistica, atta al Primo Console poi Imperatore e Re, equiparato a Giove» (Carnini, 2007, p. 21, n. 71). Tanto più significativo è che la stessa opera sia stata selezionata tra i titoli ripresi alla Scala nel 1805 per omaggiare il novello sovrano in visita nella neo-istituita capitale del Regno d’Italia. Ancora nel 1811 Romanelli verseggiò la cantata Per la nascita di S.M. il re di Roma l’Italia esultante: musicata da Pietro Ray, dovette essere eseguita dagli allievi del Conservatorio nella sede del Senato.
Sulla fine del primo decennio del secolo Romanelli si affermò come uno dei poeti di punta della Scala, firmando tutte le inaugurazioni della stagione di carnevale per otto anni di fila: Abenamet e Zoraide (Nicolini), 1806; Adelasia ed Aleramo (Giovanni Simone Mayr), 1807; Cleopatra (Joseph Weigl), 1808; Coriolano (Nicolini), 1809; Raoul di Crequì (Mayr), 1810; Annibale in Capua (Giuseppe Farinelli), 1811; Virginia (Pietro Casella), 1812; Tamerlano (Mayr), 1813. Produsse inoltre un rilevante numero di opere comiche e semiserie per le stagioni di primavera e d’estate-autunno.
Tra di esse spicca La pietra del paragone, musica di Gioachino Rossini (26 settembre 1812). Lo straordinario successo venne amplificato sulla stampa dai giornalisti che si sentirono presi di mira dal caricaturale personaggio di Macrobio, «giornalista imperito, presuntuoso e venale». Nei Melodrammi Romanelli non tace lo «sdegno» ch’egli nutriva nei confronti dei gazzettieri «dominati dalla venalità, o da sconvenienti fini e riguardi» personali (I, p. XXII); ma il lepido libretto non lesina le critiche anche ad altre categorie, il poeta Pacuvio (in cui si può forse intravvedere un burlesco autoritratto dell’autore medesimo) e il maestro Petecchia, menzionato nel dialogo (atto II, scena X). Nei Melodrammi, di fatto, Romanelli si pronuncia non soltanto contro i cattivi giornalisti ma anche contro i poeti e i compositori moderni: ai primi rimprovera la tendenza a trarre i soggetti dai romanzi, per lo più stranieri, anziché dalla storia e dalla mitologia, con l’esito di produrre drammi inverosimili, inevitabilmente viziati nella forma, per la difficoltà di ridurne la materia entro i limiti di una pièce di teatro; ai musicisti rinfaccia il ricorso eccessivo a effetti plateali e colpi di scena, a scapito del giusto equilibrio tra parola e musica (cfr. Melodrammi, I, pp. XXVII s.; e gli ‘avvertimenti’ a La capricciosa pentita e a Gusmano, II, pp. 3 s.; VIII, pp. 49 s.).
A partire dal 1813 le scritture scaligere si diradarono, non si sa se per ragioni politiche o per fattori d’altra natura. Certamente Romanelli appariva, anche come scrittore, un convinto sostenitore di Bonaparte, godendo inoltre del sostegno della critica teatrale filofrancese rappresentata, tra gli altri, dal Corriere delle Dame (periodico d’arte e costume fondato e compilato da Carolina Arienti e suo marito, il già citato Lattanzi). E però non ci sono elementi per ritenere che furono ragioni ideologiche a determinare la graduale eclisse del poeta. Il ritorno degli austriaci lasciò perlopiù intatta la struttura interna del teatro, comportò semmai un inasprimento del controllo amministrativo, fiscale e censorio. L’insuccesso del Tamerlano per l’apertura della stagione 1813 poté forse concorrere a ridimensionare il ruolo di Romanelli nel cartellone scaligero, al quale corrispose, in parallelo, l’ascesa di Felice Romani (cfr. W. Crutchfield e D. Carnini, in G. Rossini, Aureliano in Palmira, Pesaro 2019, p. XXIV; sulla concorrenza tra i due librettisti e la loro reputazione agli occhi dei compositori, cfr. Roccatagliati, 1996, pp. 26 s.); tuttavia l’impegno con La Scala venne confermato ancora, in varie tipologie contrattuali, fino al 1828, anno in cui, il 4 febbraio, debuttò senza successo il Saladino e Clotilde, musica di Nicola Vaccai (cfr. Il carteggio personale, 2008, ad ind., per la travagliata genesi dell’opera).
Complessivamente, dal 1799 al 1831, Romanelli firmò oltre settanta libretti per i teatri di Milano e, tra il 1818 e il 1820, di altre città, musicati da compositori di varia generazione, da Zingarelli e Valentino Fioravanti a Saverio Mercadante e Giovanni Pacini, nonché ai più rappresentativi del primo Ottocento milanese come Mayr, Weigl e Pietro Generali. Il citato catalogo dei suoi drammi (Salvioli, 1878) annovera anche i titoli derivati da libretti precedenti e alcuni inediti, tra cui Gusmano: quest’ultimo dramma di Romanelli avrebbe dovuto debuttare alla Fenice con la musica di Pacini (carnevale-quaresima 1832), ma il compositore lo accantonò a favore di Ivanhoe (testo di Gaetano Rossi), sotto pretesto delle debolezze del tenore scritturato (Melodrammi, VIII, p. 50).
La pluridecennale esperienza nella poesia estemporanea avrà agevolato una così tardiva, subitanea e intensa dedizione drammaturgica dell’autore, che intraprese la carriera di poeta teatrale a 48 anni. (I libretti anteriori al 1799 che alcuni repertori putativamente gli attribuiscono non sono suoi.) Da improvvisatore doveva aver accumulato un vasto bagaglio di letture classiche e moderne e una formidabile capacità mnemonica, unita alla rapidità nella verseggiatura: doti invero propizie alla versatilità tematica, alla duttilità stilistica e alla perizia tecnica che un genere teatrale sottoposto a severi condizionamenti operativi e a ritmi di produzione serrati com’è il libretto d’opera esigeva. La vastità dei riferimenti su cui poggiava la cultura storico-letteraria di Romanelli traspare peraltro dal suo voluminoso Compendio storico-cronologico delle quattro grandi monarchie della terra e d’altri regni e repubbliche (Milano 1838), ch’egli dedicò alla contessa Giulia Samoyloff (Samojlova), famosa nel bel mondo milanese per stravaganza e liberalità: concepito come un manuale di storia ad uso «d’un rispettabile Collegio in Milano», rivela una concezione della storiografia che si estende al mito e alle vicende narrate dai novellieri.
Nel tentare di condurre una valutazione stilistica dei libretti è opportuno distinguere i diversi generi che Romanelli praticò. Nel genere serio il termine di riferimento primario fu beninteso il Metastasio. Eppure, se Romanelli fu un ammiratore sincero della tragedia classica e delle sue leggi, si dimostrò nel contempo capace di adattarne il modello al teatro lirico moderno (cfr. Faverzani, 2015). Del pari le frequenti dichiarazioni di nostalgia per i maestri napoletani, e in particolare per Cimarosa, non gli impedirono di distinguere «il genio intollerante di freno» di Rossini dalla schiera degli epigoni, né di riconoscere in Vincenzo Bellini il possibile erede della «vera declamazione» (Melodrammi, V, pp. 67 s.), un’arte per lui ancora custodita, e trasmessa, nei conservatori di Napoli (VII, p. 62). Nella denuncia dell’asservimento dei librettisti ai compositori si manifesta forse l’esigenza di una rifondazione del rapporto tra parola e musica, tema cruciale sulla soglia dell’avvento del teatro musicale romantico (cfr. Ziino, 1984).
Accanto all’attività di poeta teatrale, Romanelli fu impegnato come docente in diversi istituti d’istruzione milanesi. Dal 1807 al 1811 fu maestro di lingua italiana al Collegio reale degli Orfani militari. Prestò servizio come maestro di lingua italiana e storia presso il Collegio Reale delle Fanciulle fin dall’apertura, 3 marzo 1811; e «alle alunne emerite» della scuola, istituita da Napoleone, dedicò l’edizione dei Melodrammi: iniziativa editoriale singolare per un librettista dell’Ottocento (l’elenco dei sottoscrittori dà un’idea della rete di relazioni su cui faceva affidamento in Milano). Dal 10 marzo 1813 ricoprì il ruolo provvisorio di maestro di declamazione e di belle lettere, insegnando anche elementi di storia e geografia, al Reale Conservatorio di musica in Milano, dove venne stabilizzato il 15 ottobre 1827: l’assunzione di quest’incarico comportò il dimezzamento dell’altro stipendio presso il Collegio delle Fanciulle, come da prassi (cfr. G. Lalatta Ronzoni, Il Collegio Reale delle Fanciulle in Milano, Milano 1993, pp. 13 s.). Ottenne infine il congedo da entrambi gli istituti sulla soglia degli ottant’anni.
Gli ultimi suoi anni furono angustiati dalla perdita di tre figli e forse anche dall’indigenza, che traspare dall’apprensione per il destino della moglie, la quale alla sua scomparsa avrebbe potuto godere soltanto di un’esigua pensione (Melodrammi, I, p. XI).
Morì a Milano il 1° marzo 1839 e fu sepolto nel cimitero di Porta Tosa.
Fonti e bibl.: è stata appurata l’esistenza di certificati, atti amministrativi e autografi conservati in varie sedi (Archivio Storico di Mantova, Archivio storico comunale di Bozzolo, Archivio di Stato di Milano, Archivio storico civico di Milano, Biblioteca teatrale ‘Livia Simoni’ del Museo teatrale alla Scala), che le restrizioni sanitarie del 2020 non hanno consentito di esaminare esaurientemente. –A. Ziino, L. R. ed il mito del classicismo nell’opera del primo Ottocento, in Chigiana, XXXVI, n. 16, Firenze 1984, pp. 173-215; A. Roccatagliati, Felice Romani librettista, Lucca 1996, ad ind.; A. Chegai, L’esilio di Metastasio. Forme e riforme dello spettacolo d’opera fra Sette e Ottocento, Firenze 1998, p. 112; L. Bettoni, La ruota e la freccia. Formazione di una borghesia ebraico-cristiana: Bozzolo dal principato al napoleonico Regno d’Italia, Brescia 2002, ad ind.; D. Carnini, L’opera seria italiana prima di Rossini (1800-1813): il finale centrale, PhD. Diss., Università di Pavia, 2007; Il carteggio personale di Nicola Vaccaj che si conserva presso la Biblioteca comunale Filelfica di Tolentino, a cura di J. Commons, 2 voll., Torino [2008], ad ind.; L. Bettoni, Città e paese. Bozzolo in età lombardo-veneta, San Zeno Naviglio 2012, ad ind.; S.E. Stangalino, Giuseppe Nicolini alla Scala: “I baccanali di Roma” (1801) e l’affermazione del piacentino, in Giuseppe Nicolini, 1762-1842, a cura di P. Florio et al., Pisa 2012, pp. 13-27; C. Faverzani, Sulle orme di Racine: le due versioni della “Fedra” di L. R. per Ferdinando Orlandi e Giovanni Simone Mayr, in Id., Ginevra e il Cardinale. Libretti italiani da Salieri a Ponchielli, Lucca 2015, pp. 133-157; prefazione all’edizione critica de La pietra del paragone, a cura di P.B. Brauner e A. Wiklund, Pesaro 2017, pp. XXIII-XXXII.
– Si ringraziano Ludovico Bettoni, Daniele Carnini e Alessandro Roccatagliati per le informazioni generosamente fornite.