Luigi Salvatorelli
Figura a lungo quasi dimenticata, Luigi Salvatorelli da qualche anno ha ritrovato un suo posto nella storiografia e nel dibattito culturale. La politica costituisce l’asse fondamentale del lavoro di Salvatorelli quando si cimenta con il cristianesimo delle origini o affronta le vicende della Santa Sede; quando, fra il 1919 e il 1925, si dedica all’analisi a caldo del «nazionalfascismo», oppure quando, nella Repubblica, primo tra gli antifascisti, prova a delineare la storia complessiva del regime mussoliniano; e quando, infine, disegna grandi sintesi del mondo contemporaneo. Il suo è un esempio di coerenza politica di un liberaldemocratico, ma anche di capacità di uno studioso di coniugare scienza e milizia civile.
Luigi Salvatorelli nasce a Marsciano (Perugia) l’11 marzo 1886, in una famiglia di piccola borghesia cattolica (suo nonno, monsignor Luigi, fu vicario generale dell’Archidiocesi perugina e docente nel Seminario). Compie i suoi studi al liceo di Perugia, poi all’Università di Roma, tra il 1903 e il 1907, dove si laurea in lettere, con Ernesto Monaci, con una dissertazione a carattere storico-filologico su La politica interna di Perugia in un poemetto volgare della metà del Trecento. Assunto al ministero della Pubblica Istruzione nel 1908, come primo segretario del Consiglio superiore, avvia la produzione scientifica ‒ che appare influenzata dal modernismo religioso, e in particolare dalla figura e dall’opera di Alfred Loisy ‒ indirizzata verso gli studi sul protocristianesimo, con una tendenza che già si delinea verso le sintesi divulgative e scolastiche.
Prende parte alla guerra come ufficiale di artiglieria e, prima della fine del conflitto, sposa Gina Minciarelli, marscianese, conosciuta fin dall’adolescenza. Nel 1915, intanto, si presenta al concorso universitario per storia del cristianesimo, giungendo secondo nella terna, e chiedendo la cattedra di storia della Chiesa all’Università di Napoli, incarico che infatti ottiene nell’ottobre 1916, quando ormai è al fronte, e che ricoprirà di fatto tre anni dopo. Contemporaneamente avvia l’attività di giornalista politico che sarà il suo secondo mestiere, talora il primo, per tutta la vita: nel biennio 1919-20, sul quotidiano «Il Tempo», diretto allora da Mario Missiroli, quindi su «La Stampa» di Alfredo Frassati che, nominato ambasciatore a Berlino nel 1921 proprio da Giovanni Giolitti nel corso dell’ultimo suo governo (1920-21), lo lascia di fatto a dirigere il giornale, formalmente nelle vesti di condirettore; si dimette quindi dall’università per dedicarsi a tempo pieno al giornalismo. Si avvicina intanto all’ambiente gobettiano, collaborando a «La Rivoluzione liberale», il che sottolinea la collocazione di Salvatorelli nell’alveo dell’antifascismo militante. Del resto la sua adesione all’Unione nazionale di Giovanni Amendola ne è già testimonianza.
Con il forzoso cambio di proprietà de «La Stampa», alla fine del 1925, è licenziato: collabora, da allora, prevalentemente con pseudonimo, al «Lavoro», quotidiano genovese, e, più tardi, al bolognese «Resto del Carlino», mentre riprende l’attività di studioso, non solo del cristianesimo, con recensioni, saggi, volumi di sintesi, nonché manuali scolastici e opere di alta divulgazione. Intensa è la collaborazione all’ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale), e alle riviste a esso collegate. Contemporaneamente scrive sui «Quaderni di Giustizia e libertà», voce dell’opposizione antifascista, radunata intorno a Carlo Rosselli a Parigi, avendo aderito al movimento giellista che a Torino raccoglieva un gruppo significativo di intellettuali, smembrato da due successive ondate di arresti, nel marzo 1934 e nel maggio 1935; in quest’ultima viene arrestato anche Salvatorelli (sospettato per la sua collaborazione all’ultima serie de «La cultura»), e sottoposto ad «ammonizione». L’adesione al Partito d’azione (1942-43), la fondazione de «La nuova Europa» (dicembre 1944, a Roma, dove ormai Salvatorelli si era trasferito), il ruolo rivestito nella Commissione di epurazione del mondo accademico, dopo la caduta del fascismo, sono i passaggi di un percorso coerente.
Non rientrerà più nell’università, dedicandosi esclusivamente alla ricerca, all’alta divulgazione storica e al giornalismo, come editorialista de «La Stampa», specializzato nella politica estera, su posizioni via via più filoatlantiste e anticomuniste. Muore a Roma il 3 novembre 1974.
In uno scritto autobiografico del 1961 (Profilo ragionato della mia attività e personalità, in appendice a Ghisalberti 1975, pp. 75-77), Salvatorelli fornisce precisazioni utili (anche se da usarsi con qualche cautela) parlando della propria duplice vocazione «di studioso degli avvenimenti passati e di interprete critico di quelli in corso, e cioè di storico e di articolista politico» (p. 75). Si tratta di vocazioni – egli precisa – che erano «germinate contemporaneamente», grazie agli studi, da una parte, e, dall’altra, alla partecipazione, come giovane, attento ascoltatore, di discussioni sugli avvenimenti politici contemporanei all’interno e sulla scena internazionale: la crisi di fine secolo e l’avvento di Giolitti, il processo Dreyfus, la strage degli armeni, la guerra ispano-americana. Non si trattava di interessi specificamente storico-religiosi, ma crescendo i suoi «appetiti di conoscenza storica» essi finirono per estendersi da un lato agli eventi politici, dall’altro «al campo ecclesiastico-religioso».
Anello di congiunzione fra questi diversi interessi, il Modernismo, che lascerà una traccia indelebile nella personalità intellettuale di Salvatorelli, influenzandone non soltanto gli orientamenti storico-critici, ma anche il complessivo atteggiamento verso la Chiesa cattolica, sempre disapprovata per la sua rigida chiusura alle novità e alla critica. Al Modernismo arriva anche attraverso l’attenzione all’opera politica di Romolo Murri: «la critica biblica ed evangelica, il fascino misterioso delle origini cristiane si associarono all’interesse per la lotta impegnata dai liberi cristiani con il dommatismo e l’autoritarismo cattolico-romano» (p. 76).
Dunque, un interesse storico-politico che si fonde con quello più specificamente storico-religioso, sotto il segno della ricerca della libertà: ecco l’ubi consistam di Salvatorelli fin dalle sue primissime prove di studioso alle prime armi, di giovane intellettuale, di cittadino consapevole. In altri termini, l’insofferenza verso il dogma, la sua espressione tanto teologica quanto ecclesiastica, ma altresì meglio precisata nel corso degli anni, anche nella sua formulazione politica. Proprio la politica costituisce il baricentro salvatorelliano, intorno al quale si articolano i suoi interessi per la religione, la storiografia, il giornalismo, in un fecondo rapporto tra l’uomo di studio e il cittadino del proprio tempo, e più specificamente tra l’attività storiografica e quella politica, intesa nel duplice senso dell’osservazione (il giornalismo) e della partecipazione diretta (il militante).
Nel suo lavoro, lo studioso umbro cercherà di muovere da un’attitudine filologica (sulla quale, oltre a Karl Julius Beloch che ebbe maestro a Roma, influisce senza dubbio la prima istanza, precisamente filologica, di Loisy), ma con un orizzonte storico che traguarda la stessa storia del cristianesimo e delle religioni, praticata fin dagli inizi con uno sguardo ampiamente comparativo.
In tale ottica, già nel 1914 ottiene un risultato importante, con un libro originale, non soltanto sulla scena italiana: Introduzione bibliografica alla scienza delle religioni, nato dall’esperienza di segnalazioni bibliografiche pubblicate sulla testata «Nova et vetera»: testo giudicato recentemente «il momento più significativo dell’opera storico-religiosa di Salvatorelli» (Spineto, in Luigi Salvatorelli (1886-1974), 2008, p. 43). Nella prefazione Salvatorelli spiega il perché dell’opera, precisando di non avere «mai partecipato al movimento modernistico, pure seguendolo con grande interesse». Altrettanto utile la precisazione di metodo: egli afferma di aver studiato e recensito «le opere più importanti […] scientificamente (e non teologicamente, né filosoficamente) […]» (Introduzione bibliografica alla scienza delle religioni, cit., p. VIII). Il libro intende la scienza delle religioni quale osservazione dei fenomeni religiosi, il che implica un procedimento analogo a quello delle scienze naturali. Detto altrimenti, è la fenomenologia religiosa «che tratta del fatto religioso in generale, e non delle singole religioni come unità storiche singole», ossia, la storia della religione. «Per essa deve intendersi lo studio generale del fatto religioso nei suoi caratteri fondamentali e nel suo svolgimento storico generale, di cui le singole religioni non sono che manifestazioni particolari» (p. 3).
Scrivendo a Benedetto Croce, nel luglio 1911, per proporgli la traduzione di testi storico-religiosi francesi e germanici, esprimeva considerazioni di ordine generale:
Se dall’Italia partisse un movimento di studi religiosi compiuti con spirito idealisticamente libero e con pensiero filosoficamente approfondito, io credo che questo sarebbe di grande vantaggio per la vita dello spirito e ritornerebbe a onore vero della nostra patria, poiché in esso verrebbero vinte e superate le verità superbe dei vecchi dogmatici, l’ignoranza astiosa dell’anticlericalismo democratico, l’incertezza sfibrante ed equivoca del modernismo. Una cultura religiosa di tal genere sarebbe anche assai d’aiuto – se io non m’illudo – agl’Italiani nella loro vita pratica specie politica […] (cit. in Galasso, in Luigi Salvatorelli (1886-1974), 2008, p. 6).
Cattolico di formazione, ma fermamente laico, senza tentazioni anticlericali, attratto dal modernismo, senza però diventarne adepto, Salvatorelli, mosso da un’attitudine di stampo illuministico non verrà mai meno a una concezione razionalistica della religione, di cui riconosce il peso nella storia. La storia del cristianesimo, per lo storico marscianese, deve essere posta in relazione con la più generale storia politica, economica, sociale.
Molti anni dopo, quando i suoi interessi di studio si saranno ormai abbondantemente dilatati, lo studioso osserverà:
Quando la storia del cristianesimo antico si affronti non per puro scopo erudito, nell’ambito di un angusto professionalismo, ma ci si sia condotti da un intimo interesse spirituale, non è possibile non considerare quella storia alla luce della vita attuale (Gli studi di storia, in “L’Acropoli” ad Adolfo Omodeo, 1946, pp. XI-XII).
Si tratta di una dichiarazione di fede storiografico-politica che delinea bene il profilo salvatorelliano. L’esperienza della guerra, con il quadro internazionale di urgenze politiche, induce Salvatorelli ad affrontare, anche negli studi religiosi, figure e temi che progressivamente allargano il campo cronologico, allontanandosi dalle origini della cristianità per collocarsi nel Medioevo e nelle epoche successive. La distanza tra lo storico del cristianesimo e lo storico politico va ulteriormente riducendosi. E, in fondo, figure come san Francesco e san Benedetto, nell’Italia fascista, costituiscono in una certa qual misura riferimenti ideali poco sintonici al regime, anche se la Chiesa nelle sue gerarchie vigilava onde non venissero sottratte al suo fermo controllo.
Tornando indietro, quando nel 1910 (La politica di Pio X, «La cultura», 1910, 29, 22, poi in Saggi di storia politica e religiosa, 1914, pp. 191-98) affronta l’operato di papa Pio X, Salvatorelli propone una riflessione generale sulla funzione del pontefice e sul suo duplice ruolo di guida spirituale e politica della cattolicità: la differenza comunemente indicata tra Pio X e Leone XIII (il primo, un papa religioso, il secondo, un papa politico) mostra l’errata concezione dell’opinione corrente sul ruolo e la funzione del pontefice. Invece, la differenza tra papa politico e papa religioso è estranea alla vera natura del cattolicesimo che è «una società che ha i suoi elementi costitutivi e la sua sfera di azione in questo mondo, che vuole avere la direzione della umanità intera, su questa terra […] e mira a chiuderla e assorbirla tutta in sé» (p. 195). L’antitesi tra pontificato religioso e politico non sussiste perché la Chiesa, esercitando una suprema tutela sulla società, sugli Stati e sui governi, si afferma come sovrana in Terra, e il pontefice come suo sovrano assoluto. Quindi Chiesa e pontificato sono istituzioni politiche, ossia strutture di potere.
Ai papi e alla curia romana, Salvatorelli dedicherà, nel corso degli anni, numerosissimi interventi, quasi a conferma di un’attenzione politica della sua storiografia religiosa. Nella sua speciale vocazione per le sintesi storiografiche, saranno toccati anche temi religiosi, tra ventennio fascista e dopoguerra repubblicano. A dieci anni dalla fine della guerra, per es., egli dà alle stampe un’opera eccellente e agile, Chiesa e Stato dalla rivoluzione francese ad oggi, che illustra lo svolgimento della «storia ecclesiastico-religiosa […] e delle sue relazioni con la società civile» (p. 3) nell’Europa ottocentesca. Ancora una volta, dunque, il nesso religione/politica.
A rendere più noto l’orientamento antifascista di Salvatorelli, sempre connesso con l’attitudine dello studioso, giunge, nel bel mezzo dell’esperienza alla «Stampa», il volumetto Nazionalfascismo (1923), una raccolta degli articoli apparsi oltre che (soprattutto) sul quotidiano torinese, su «Il Tempo»: il volume non passa inosservato, anche grazie alla discussione che suscita nello stesso campo antifascista, a partire dalle colonne de «La Rivoluzione liberale». Il fatto che l’editore sia Piero Gobetti costituisce una pesante ammissione di responsabilità, per così dire.
Due sono le tesi fondamentali del libro: 1) il fascismo è espressione politica delle classi medie (in particolare la «piccola borghesia umanistica»), ovvero la «lotta di classe del terzo escluso»; 2) nel rapporto con il nazionalismo è stato questo piccolo movimento di intellettuali a fagocitare l’ormai enorme corpo del Partito nazionale fascista, e non il contrario come potrebbe apparire. Il volumetto si rivelerà, nel corso dei decenni, uno tra i più perspicui tentativi di indagine della natura del movimento mussoliniano, sia della sua natura piccolo-borghese (ma sottovalutando i legami tra classi medie e classi dominanti), sia dei suoi rapporti con il nazionalismo, di cui Salvatorelli, per primo, capisce il ruolo egemonico nei confronti del fascismo, al punto da presentarcelo come il suo vero padre ideologico. Al nazionalismo, Salvatorelli – il quale, da allora, andrà definendo una linea precipua di interessi concernenti le dinamiche della politica internazionale – dedicherà più tardi un secondo volumetto, Irrealtà nazionalista (1925), nel quale compaiono analisi interessanti, anche se forse condizionate, oltre che da valutazioni negative, da sentimenti di autentica antipatia per quel movimento, come testimoniano taluni giudizi pungenti espressi nel corso dell’esposizione, pur sempre pacata. Il che appare significativo tanto più ove si consideri una sorta di ritrosia dell’autore a esprimere posizioni nette. Quasi da interpretare in chiave psicologica, considerando che nell’età giovanile, come tanti della sua generazione, non era rimasto immune dal contagio delle ideologie nazionalistiche.
Dopo il 1925, allontanato senza complimenti dalla «Stampa» come antifascista dichiarato, Salvatorelli recupera a pieno titolo il proprio interesse storiografico, compresi gli studi religiosi, un po’ per necessità, un po’ per vocazione: parlare di religione, e tanto più se si tratta di epoche remote, è certamente meno rischioso della direzione di un quotidiano collocato esplicitamente su sponde ostili al movimento delle camicie nere proprio nel momento della sua espansione violenta che lo conduce alla presa del potere e poi alla prima costruzione di un regime illiberale. In ogni caso, in tutti gli scritti salvatorelliani dopo il 1925, sia articoli sia efficaci sintesi di storia internazionale e nazionale, il principio guida sembra essere sempre quello politico.
Nel 1929, vent’anni dopo i suoi esordi di studioso di religioni, pubblica quello che è forse il suo libro migliore insieme a Vita di San Francesco d’Assisi (1926), il più famoso nell’ambito della storiografia religiosa: la monografia su San Benedetto e l’Italia del suo tempo. Se il San Francesco esce nell’anno delle leggi speciali che segnano il definitivo avvio del regime totalitario, il San Benedetto è pubblicato nell’anno dei Patti Lateranensi, con l’annesso Concordato: un micidiale combinato disposto che, se risolve la ‘questione romana’, azzera la laicità dello Stato liberale, dando corpo a una pur problematica fusione d’intenti tra la Roma dei Fasci e quella della Croce.
Due anni più tardi, Salvatorelli viene ancora presentato nelle carte di polizia come «tenace ed irriducibile giornalista oppositore» (prefetto di Torino Umberto Ricci, al ministero dell’Interno, 26 febbraio 1931, in Archivio centrale dello Stato - Casellario politico centrale, b. 4549). Nel 1935, poco prima di finire nella rete dell’OVRA (Opera Vigilanza Repressione Antifascista) che sgominerà l’organizzazione Giustizia e libertà a Torino, pubblica l’opera Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870, per le insegne della Einaudi, la casa editrice che rischia di essere coinvolta nell’azione repressiva e viene salvata solo da un intervento presso il duce del padre dell’editore, Luigi, senatore del Regno. Si tratta di un’opera profondamente contraria alle interpretazioni correnti del Risorgimento italiano nella cultura ufficiale di regime, a cominciare da quella gentiliana, accennando agli influssi illuministici e della stessa Rivoluzione francese: ossia, una ricostruzione di impostazione antinazionalistica. L’opera inaugura, tra l’altro, la Biblioteca di cultura storica ideata da Leone Ginzburg, imprigionato nel carcere di Regina Coeli, fin dal marzo 1934, come capo della ‘cospirazione’ di Giustizia e libertà.
Salvatorelli si muove dunque nell’ambito dell’antifascismo torinese, anche senza assumere compiti organizzativi, né svolgere un autentico ruolo di milizia. Ma il suo percorso si sta indirizzando verso l’impegno diretto nel Partito d’azione, nel quale ormai milita quando pubblica, sempre per Einaudi, Pensiero e azione del Risorgimento, che esce nella primavera del 1943 e viene «letto come un manifesto politico cifrato» (Turi, in Luigi Salvatorelli (1886-1974), 2008, p. 168) dell’opposizione. In tale opera l’autore riprende il tema di un articolo scritto nel corso della drammatica crisi Matteotti, nel luglio 1924, ossia il fascismo come «antirisorgimento». Nello stesso anno scrive di getto Leggenda e realtà di Napoleone (che sarà edito all’inizio del 1945, con data 1944, da Franco Antonicelli): l’autore parla del «napoleonismo» come una sorta di anteprima del «ducismo» contemporaneo, anche se poi ammette che i fascismi (al plurale) più che a Bonaparte rinviano «alla controrivoluzione pura» (Leggenda e realtà di Napoleone, nuova ed. 1960, p. 114).
A dittatura archiviata, nei primi anni Cinquanta, lo storico, passato attraverso la milizia diretta contro il fascismo, si dedicherà, insieme a un sodale come Giovanni Mira, organizzatore dei reduci della Grande guerra, sostanzialmente estraneo al mondo degli studi, a uno dei primissimi tentativi di capire il fascismo che, come aveva scritto nell’esilio francese un ex comunista anch’egli vissuto come Salvatorelli a Torino, Angelo Tasca, significava scriverne la storia (A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo: l’Italia dal 1918 al 1922, 1950). Alludo a quella Storia d’Italia nel periodo fascista, apparsa nel 1952 come Storia del fascismo e giunta con il nuovo titolo all’edizione definitiva una dozzina d’anni più tardi, che è soprattutto un tentativo di rispondere alla domanda: da dove è scaturito il fascismo? Interrogativo che tormenterà l’intera storiografia italiana dei primi decenni del dopoguerra, anche quando si occuperà di temi diversi e cronologicamente distanti.
La riflessione sul recente passato è del resto nel cuore stesso del Partito d’azione al quale Salvatorelli aderisce sin dalla fondazione, nel 1942. Le ultime opere qui menzionate, come gran parte della produzione degli anni a cavallo tra fascismo e postfascismo, rientrano nella temperie di quel partito di intellettuali che per il Salvatorelli del tempo doveva essere un grande partito della democrazia, con uno sguardo antinazionalistico e un orizzonte decisamente europeo. Non a caso s’intitola alla «Nuova Europa» il contributo più rilevante di Salvatorelli alla battaglia politico-culturale di quel tempo di «eroici furori» (per citare Elio Vittorini). Un’Europa, peraltro, che lo stesso Salvatorelli concepisce, almeno in certo tratto della sua elaborazione, come un mondo non chiuso, pensando all’ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite) come a una sorta di assemblea di popoli, funzionale al superamento delle unità statual-nazionali. E guarderà ai primi svolgimenti della situazione internazionale dopo la fine della Seconda guerra mondiale, lucidamente, con qualche timore di una pericolosa bipolarizzazione intorno a Stati Uniti da un canto, Russia dall’altro, spingendo verso la fascistizzazione i primi, e radunando intorno alla seconda tutti i renitenti al predominio americano.
Si tratta di una visione anticipatrice della guerra fredda (a cui nel 1956 dedicherà un’ampia trattazione) nella quale, peraltro, contraddittoriamente, nel corso dei decenni seguenti, la posizione del Salvatorelli ormai giornalista che ha rinunciato alla milizia politica – ma non certo alla storiografia, sia pure su un crinale prevalentemente divulgativo, indirizzato alle sintesi nazionali e internazionali – si riconoscerà diventando paladino di una delle due parti in campo, quella statunitense. E la sua idea, in fondo una ripresa del suo Nazionalfascismo, è quasi una riproposta di un partito delle classi medie non fascista, di un partito dei non partitici, un partito della democrazia «pura e semplice», non cattolica, né comunista, né liberale, di fatto una democrazia «interclassista o superclassista, e estraconfessionale» (I partiti e la Costituente, «La nuova Europa», 8 luglio 1945; ora nella ristampa del 2004). Si tratta di un tema che sarà oggetto di ampio confronto, negli anni seguenti, fra intellettuali e politici (compreso lo stesso Palmiro Togliatti) di area comunista e di provenienza azionista, a cominciare da Norberto Bobbio.
Un tema che testimonia la vitalità del dibattito politico-culturale di un’Italia avviata verso una democrazia che tutti avvertono, al di là degli schieramenti e delle stesse possibili etichette, come assai faticosa da raggiungere. A quel dibattito complessivo «La nuova Europa» – un gruppo di redattori e una notevole, per qualità e quantità, pattuglia di collaboratori (tra gli altri Arrigo Cajumi, Aldo Capitini, Guido Calogero, Mario Vinciguerra, Carlo Antoni e così via), con Guido De Ruggiero affiancato a Salvatorelli alla guida del settimanale nato a Roma nel dicembre 1944 – fornirà idee generali, stimoli culturali e anche precise proposte politiche.
Su quest’ultimo piano, ancora una volta Salvatorelli sembra aver fatto tesoro della lezione degli ideologi nazionalisti, pur disprezzati e condannati; ossia una visione realistica della politica come gioco di interessi o, per dirla con Antonio Gramsci, «rapporti di forze». La visione salvatorelliana era però temperata – e dunque resa diversissima negli obiettivi da quella di un Enrico Corradini, di un Alfredo Rocco e di un Francesco Coppola – dalla cultura razionalistica, dall’aspirazione a superare gli Stati nazionali verso una comunità sovranazionale, da una concezione pregna di idealità ben lontane dal rifiuto del principio della libertà, dallo stolto bellicismo e dal folle programma di imporsi comunque e sopra tutti i contendenti, dando così prova, quegli ideologi, come notava già nel 1925 nel suo Irrealtà nazionalista, di un profondo irrealismo.
Erano del resto gli ideali e i limiti dell’azionismo, in particolare della corrente ‘di destra’, legata a Ugo La Malfa, di cui Salvatorelli sarà sempre alfiere, anche dopo la fine di quella breve esperienza (marzo 1946), che segue non casualmente la scissione del Partito d’azione, nel febbraio.
L’azione salvatorelliana, doppiato il capo della nascita della Repubblica, della Costituzione, della vittoria della Democrazia cristiana alle elezioni del 1948, sarà, come s’è detto, prevalentemente giornalistica, affiancando a essa nondimeno un’intensissima produzione storiografica, che non smette la ricerca puntigliosa su singole questioni, con l’antica cura filologica, mentre produce affreschi di ampio respiro di storia d’Italia, d’Europa, del mondo: una duplice declinazione della politica, in un registro quasi sempre attento, da una parte, alla situazione italiana e, dall’altra, a quella internazionale, a cominciare, appunto, dall’Europa. L’eredità dell’Illuminismo che, d’altronde, nell’humus culturale torinese ha prodotto risultati significativi. Non si limiterà, Salvatorelli, a interpretare gli avvenimenti, ma azzarderà consigli ai governanti, italiani e talora anche stranieri, suggerendo prudente concretezza e insieme nobili ideali. In fondo, la parte del mero osservatore – sia come studioso, sia come cronista – non gli bastò mai.
Introduzione bibliografica alla scienza delle religioni, Roma 1914.
Nazionalfascismo, Torino 1923 (nuova ed. con prefazione di G. Amendola, Torino 1977).
Irrealtà nazionalista, Milano 1925.
Vita di San Francesco d’Assisi, Bari 1926.
San Benedetto e l’Italia del suo tempo, Bari 1929 (nuova ed. con postfazione di G. Arnaldi, Roma-Bari 2007).
Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870, Torino 1935 (ed. riv. e accresciuta Torino 1941, 1942, 1943).
L’Italia medioevale. Dalle invasioni barbariche agli inizi del secolo XI, Milano 1938.
Pio XI e la sua eredità pontificale, Torino 1939.
Pensiero e azione del Risorgimento, Torino 1943.
Leggenda e realtà di Napoleone, Torino 1944 (recte: 1945; nuova ed. Torino 1960; poi con introduzione di L. Mascilli Migliorini, Torino 2007).
La Chiesa e il mondo, Roma 1948.
Prima e dopo il Quarantotto, Torino 1948.
Chiesa e Stato dalla Rivoluzione francese a oggi, Firenze 1955.
La guerra fredda (1945-1955), Venezia 1956.
L. Salvatorelli, G. Mira, Storia d’Italia nel periodo fascista, Torino 1956; 2ª ed. ampliata, Torino 1964 (ed. definitiva di Storia del fascismo, Roma 1952).
Storia del Novecento, Milano 1957.
Miti e storia, Torino 1964.
Un cinquantennio di rivolgimenti mondiali (1914-1971), prefazione di G. Spadolini, Firenze 1972 (ed. aggiornata a cura di L. Bortone, Firenze 1976).
La Nuova Europa (1944-1946), rist. anast. promossa dalla Fondazione Luigi Salvatorelli con introduzione di A. d’Orsi, Marsciano 2004.
Omaggio a Luigi Salvatorelli, «Rivista storica italiana», 1966, 78 (si vedano in partic. i contributi di F. Parente, P. Renouvin, A. Galante Garrone).
L. Valiani, Luigi Salvatorelli storico dell’unità d’Italia e del fascismo, «Rivista storica italiana», 1974, 86, pp. 724-49.
A.M. Ghisalberti, Luigi Salvatorelli, «Rassegna storica del Risorgimento», 1975, 52, pp. 73-77.
G. Spadolini, Il mondo di Luigi Salvatorelli, Firenze 1980.
Salvatorelli storico, a cura di F. Tessitore, Napoli 1981.
L. Casalino, Un’amicizia antifascista. Le lettere di Lionello e Franco Venturi a Luigi Salvatorelli (1914-1941), «Quaderni di storia dell’Università di Torino», 1997-1998, 2, pp. 441-62.
Cinque lettere di Leone Ginzburg a Luigi Salvatorelli, a cura di A. d’Orsi, «Annali della fondazione Luigi Einaudi», 2003, 36, pp. 371-84.
Luigi Salvatorelli (1886-1974). Storico, giornalista, testimone, a cura di A. d’Orsi (con la collab. di F. Chiarotto), Torino 2008 (in partic. G. Galasso, Per una biografia intellettuale di Luigi Salvatorelli, pp. 3-26; N. Spineto, Luigi Salvatorelli e la storia delle religioni in Italia, pp. 39-82; G. Turi, Luigi Salvatorelli, un intellettuale attraverso il fascismo, pp. 141-70).
A. d’Orsi, Salvatorelli storico (politico) del cristianesimo, in Storici e religione nel Novecento italiano, a cura di D. Menozzi, M. Montacutelli, Brescia 2011, pp. 371-401.