VANNUCCHI, Luigi
Nacque il 25 novembre 1930 a Caltanissetta da Michele e Rosa Spampinato. Pochi mesi dopo il padre accettò un trasferimento di lavoro, come topografo, in Cirenaica. La famiglia fece ritorno in Italia nel 1933, stabilendosi prima a Roma e poi a Modena dove il padre si impiegò all’ufficio del catasto e Luigi frequentò il liceo classico, maturando grande interesse per l’arte e la letteratura, in particolare avvicinandosi alle opere di Cesare Pavese. Non molto tempo prima dell’esame di maturità, Vannucchi scappò di casa, recandosi a Genova con l’idea di dedicarsi al teatro. Tornato in famiglia un paio di settimane dopo, riuscì comunque a ottenere la licenza liceale, decidendo nel 1949 di trasferirsi a Roma per seguire i corsi all’Accademia d’arte drammatica e al contempo iscrivendosi, per volere del padre, alla facoltà di Filosofia, che non concluse mai.
Tra i docenti dell’Accademia, Orazio Costa con il suo metodo mimico fu il più determinante nella formazione attoriale di Vannucchi e lo coinvolse prima nel coro drammatico di Il Poverello di Jacques Copeau (1950), a partire dal Cantico delle Creature di San Francesco, poi come Cristo in Donna del paradiso (1951), mistero medievale basato sulla laude Il pianto di Maria di Jacopone da Todi, che fu recitato con successo di fronte a papa Pio XII. In quel periodo fu notato da Vittorio Gassman, che lo volle nella sua compagnia del Teatro d’arte e a fianco a sé, nel ruolo di Laerte, nella messa in scena nel 1952 dell’Amleto, rappresentato per la prima volta in Italia, con grandissimo successo, nella sua versione integrale. Fu per Vannucchi l’inizio di una collaborazione triennale che gli permise di confrontarsi con la recitazione allo stesso tempo considerata modernissima e figlia della tradizione del grande attore, quella di Gassman, con la regia di Luigi Squarzina e con la messa in scena di grandi classici (Tieste, I Persiani, Antigone, Prometeo).
Nel 1954 Vannucchi entrò a far parte della compagnia del Teatro nuovo diretta da Gianfranco De Bosio, interpretando nello stesso anno Corte marziale per l’ammutinamento del Caine di Herman Wouk, Buio a mezzogiorno di Sidney Kingsley da protagonista e Sacro esperimento di Fritz Hochwälder. L’anno successivo fu coinvolto da Lucio Ardenzi, per il ministero dello Spettacolo, in una lunga tournée in Sudamerica assieme ai grandi attori italiani dell’epoca (Renzo Ricci, Eva Magni, Tino Buazzelli, Glauco Mauri…). Di ritorno in Italia cominciò ad affermarsi sempre di più come attore elegante, dalla voce seducente e tonante, prima in Inquisizione di Diego Fabbri e Hedda Gabler di Henrik Ibsen con la compagnia del Teatro regionale emiliano (1956), poi ne I Giacobini di Federico Zardi, per la regia di Giorgio Strehler (1957), interpretando la parte di Saint Just, e nel celebre Arlecchino servitore di due padroni nei panni di Florindo (1958/1959).
Agli inizi degli anni Sessanta Vannucchi entrò a far parte della compagnia degli Associati, una delle prime cooperative teatrali in Italia, fondata da Valentina Fortunato e Giancarlo Sbragia e poi allargatasi con Ivo Garrani, Enrico Maria Salerno, Gian Maria Volontè, Luca Ronconi, Sergio Fantoni e altri, nata dal desiderio degli attori di rendersi autonomi dalle condizioni economiche e dalle scelte culturali operate dai teatri stabili. Con la compagnia degli Associati Vannucchi partecipò a Strano interludio di Eugene O’Neill, Il diavolo e il buon Dio di Jean-Paul Sartre, Ciascuno a suo modo di Luigi Pirandello, Riunione di famiglia Thomas S. Eliot, Troilo e Cressida di William Shakespeare, Zio Vanja di Anton Čechov e Inferni, uno spettacolo quest’ultimo che riuniva Porte chiuse di Sartre e Canicola di Pier Maria Rosso di San Secondo. Nel 1973 si cimentò anche per la prima e unica volta con la regia, in occasione di Antonio e Cleopatra di Shakespeare.
Nel 1974 fu protagonista di Il vizio assurdo. Storia di Cesare Pavese, testo tratto dalla sua biografia scritta da Davide Lajolo nel 1960, che poi adattò per il teatro con Diego Fabbri. Lo spettacolo, nonostante fosse osteggiato dal teatro stabile di Torino, ebbe particolare successo, non solo perché raccontava gli ultimi due giorni della tragica vita di Pavese, ma anche perché riusciva a restituire la condizione sofferta dell’intellettuale nel periodo buio della dittatura e nel fermento del dopoguerra, tramite una messa in scena originale: il pubblico era disposto anche su tre gradinate montate sul palcoscenico e gli attori si muovevano liberamente pure in platea, oltre a recitare seduti a fianco degli spettatori. Con grande capacità mimetica, Vannucchi acquisì un leggero accento piemontese e si rese molto somigliante a Pavese, pur non facendone un’imitazione, bensì ricreandolo artisticamente. Molti critici la considerarono la sua miglior interpretazione, Natalia Ginzburg invece riservò un pesante attacco allo spettacolo e a Vannucchi che considerò colpevole, secondo lei, di rendere Pavese «un nevrotico, un vile, un deficiente» (N. Ginzburg, Pavese e Il vizio assurdo, in Corriere della sera, 7 apr. 1974).
In parallelo all’attività teatrale Vannucchi condusse una ricca ed estesa carriera televisiva, che cominciò con la messa in onda dello spettacolo Il sacro esperimento, regia di Gianfranco De Bosio, nel 1954, cioè lo stesso anno in cui iniziarono le trasmissioni. Oltre ad apparire negli adattamenti televisivi dei suoi spettacoli teatrali (Amleto, Arlecchino servitore di due padroni,…) Vannucchi cominciò presto a partecipare agli sceneggiati televisivi (ne interpretò più di 30), diventando rapidamente uno dei volti più noti e apprezzati.
Il debutto fu nel 1960 con Ragazza mia di Mario Landi, in seguito Vannucchi instaurò una feconda collaborazione con il regista Anton Giulio Majano partecipando a ben suoi 11 sceneggiati, emergendo quasi sempre come interprete di personaggi leali, miti, generosi (come ad esempio nel ruolo di Guido Cavalcanti in Vita di Dante di Vittorio Cottafavi, 1963), salvo che in Una tragedia americana (1962), dove interpretò il ruolo del ‘cattivo’, con grande successo, che gli permise di sperimentare altre corde sentimentali. Lo stesso accadde per l’interpretazione di Raskolnikov, protagonista di Delitto e castigo ancora per la regia di Majano (1963). Sotto la guida del regista Sandro Bolchi, più sobrio nella resa estetica, lontano dalle scelte più melodrammatiche di Majano e molto attento a rimanere fedele all’opera letteraria di partenza, Vannucchi ottenne i suoi massimi successi televisivi, in particolare nel ruolo di Don Rodrigo, privato degli stereotipi del ‘cattivo’, in I promessi sposi e nel ruolo del barone di Santafusca, nobile napoletano amante della bella vita e tormentato dai sensi di colpa, in Il cappello del prete, che lo stesso Vannucchi considerò la sua migliore interpretazione. Nel 1972 partecipò con successo allo sceneggiato televisivo A come Andromeda interpretando il dott. John Fleming e dimostrando anche un’ampia conoscenza della letteratura di fantascienza. La recitazione di Vannucchi andò sempre più caratterizzandosi per uno stile asciutto, privo di enfasi, di grande sensibilità, con una tecnica a servizio della costruzione interiore del personaggio e con un approccio culturalmente solido.
Anche il percorso nel mondo del cinema – partecipò a una ventina di film tra il 1954 e il 1974 – corse parallelo alla carriera teatrale e televisiva, ma con minor soddisfazione. Prese parte, a fianco di Vittorio Gassman a Le piacevoli notti di Armando Crispino e Luciano Lucignani (1966), a L’arcidiavolo di Ettore Scola (1966) e a Il Tigre (1967) di Dino Risi. Recitò in due film nel genere ‘spaghetti western’, Johnny Yuma di Romolo Girolami e I giorni della violenza di Alfonso Brescia, ma trovò maggior valorizzazione nel ruolo del comandante Zappi in La tenda rossa di Mikheil Kalatozishvili (1969). L’occasione più importante arrivò nel 1974, quando fu chiamato a interpretare Alcide De Gasperi in Anno uno di Roberto Rossellini, film discusso per il suo impianto didascalico, ma in cui la critica riconobbe il talento mimetico di Vannucchi: «Il suo scarso impiego sullo schermo […] è la riprova se mai ce ne fosse bisogno, che il cinema italiano è incompetente e autolesionista» (G. Polacco, De Gasperi – manichino nel film di Rossellini, in Momento Sera, 16-17 nov. 1974).
Il 30 agosto 1978, nel pieno della sua carriera attoriale, giunta a solida maturità, si tolse la vita nella sua casa di Roma con un’overdose di barbiturici, lasciando la moglie Gianfranca Cuoghi e i due figli Luca e Sabina, anche lei attrice.
D. Lajolo, Lettera alla stampa per lo Stabile di Torino, in Corriere della sera, 14 febbr. 1974; F. Cappa - P. Gelli, Dizionario dello spettacolo del ‘900, Milano 1990, s.v.; O. De Fornari, Teleromanza. Storia indiscreta dello sceneggiato tv, Milano 1990, p. 71-104; M. Saetta, L. V., i volti di un attore, Caltanissetta 2001; S. Ridolfo, Tre maschere di un attore: per un ritratto di L. V., Università degli studi di Catania, tesi di laurea, a.a. 2006/2007.