VANVITELLI, Luigi
VANVITELLI, Luigi. – Nacque a Napoli il 12 maggio 1700 dal pittore vedutista olandese Gaspar van Wittel (detto Vanvitelli) e da Anna Lorenzani, figlia del medaglista e letterato Giovanni Andrea, che l’anno seguente lo condussero a Roma dove vissero poi stabilmente (Morelli, 2004).
Dopo un iniziale apprendistato come pittore sotto la guida paterna, accreditato dalla vittoria della terza classe di pittura del concorso Clementino dell’Accademia di S. Luca del 1716, Vanvitelli approfondì lo studio dell’architettura grazie a Filippo Juvarra, amico del padre, frequentandolo presso palazzo Ornani in piazza Navona, la succursale della corte del cardinale Pietro Ottoboni dove Juvarra tornava a risiedere durante le periodiche licenze concessegli da Vittorio Amedeo II di Savoia tra il 1715 e il 1721 (Manfredi, in Luigi Vanvitelli, 1700-2000, 2005). All’esempio di Juvarra si deve la sua precoce concezione della figura dell’architetto come attore e regista delle arti, e del disegno interdisciplinare come suo primario mezzo espressivo.
La prima notizia di un diretto rapporto di Vanvitelli con Juvarra proviene da Lione Pascoli, secondo cui il giovane Luigi, di ritorno a Roma con Gaspar da un viaggio al seguito del cardinale Annibale Albani fino a Urbino, dove si era dilettato a fare «varj disegni d’architettura per ornare alcune stanze, e risarcire alcune chiese, che non furono messi in opera», vi trovò Juvarra impegnato nel disegno in prospettiva «della nuova chiesa patriarcale e del real palazzo di Lisbona» (Pascoli, 1981, pp. 11 s.), ovvero il progetto commissionatogli nel 1717 dall’ambasciatore straordinario del re di Portogallo don Rodrigo Anes de Sá Almeida e Menezes, marchese de Fontes, raffigurato dallo stesso Gaspar in una veduta inviata alla corte di Giovanni V. A questa circostanza sono connessi alcuni disegni preparatori della veduta conservati tra i fogli vanvitelliani oggi a Caserta e riferibili a una possibile collaborazione del giovane Luigi (Sansone, 2012).
Grazie a Juvarra, Vanvitelli entrò in contatto con il pittore Sebastiano Conca, anche lui residente in palazzo Ornani, con il quale stabilì un duraturo rapporto di amicizia e collaborazione. Assieme a Conca egli comparve nel 1723 come pittore copista presso la Reverenda Fabrica di S. Pietro, dove nel 1726 venne nominato coadiutore dell’architetto soprastante Antonio Valeri, allora principe dell’Accademia di S. Luca e insegnante di architettura, che lo introdusse all’esercizio pratico della professione.
Al 1724 risale la prima opera pubblica, la decorazione pittorica della cappella delle Reliquie nella basilica romana di S. Cecilia in Trastevere, commissionatagli dal cardinale Francesco Acquaviva, che ne attestava da una parte l’adesione ai modi figurativi di Conca − anche lui attivo nella chiesa per lo stesso committente −, dall’altra la ricezione delle lezioni di scenografia e prospettiva architettonica di Juvarra e del padre Gaspar, allora insegnante di prospettiva presso l’Accademia di S. Luca; aspetti riscontrabili anche nell’affresco Daniele e Abacuc nella volta della chiesa del Suffragio a Viterbo, databile tra il 1728 e il 1730 (Petrucci, 2014; Parlato, 2015). Nello stesso arco di tempo si collocano altri lavori a Urbino per Annibale Albani, ancora riferibili alla sfera delle committenze paterne, e consistenti nella decorazione e ammodernamento del palazzo di famiglia (1728-29), nella fontana antistante (1729) e nella cappella gentilizia nella chiesa di S. Francesco (1731) (Giannetti, in Luigi Vanvitelli, 1998; Mariano, in Luigi Vanvitelli e la sua cerchia, 2000).
Sempre nel solco dell’eredità familiare, nel 1728 avvenne la sua ammissione nell’Accademia dell’Arcadia con il nome evocativo di Cleante Fidiaco (mutato in Archimede Fidiaco intorno al 1764), riconducibile all’attitudine letteraria e poetica trasmessagli dal nonno materno (morto nel 1712), insieme al lascito di parte della sua ricca biblioteca, comprendente numerosi testi teatrali, che ne alimentarono la passione per le arti recitative e la musica (Thomas, 2010).
All’inizio degli anni Trenta, l’attività pittorica lasciò il campo a un’esclusiva dedizione professionale all’architettura, conclamata dalla nomina ad architetto della Reverenda Camera apostolica nel 1730 e da un crescente rapporto di condivisione e amicizia con Nicola Salvi. La partecipazione al concorso per la mostra della fontana di Trevi costituì per entrambi l’occasione di sperimentare un linguaggio che rispondesse alle istanze di rinnovamento del nuovo pontificato di Clemente XII Corsini attraverso l’adozione di un sobrio ordine gigante e di complementi plastici, più accentuati in senso poetico da Salvi, più conformati alla tradizione romana berniniana e cortonesca da Vanvitelli (Kieven, in Luigi Vanvitelli e la sua cerchia, 2000). Tale atteggiamento Vanvitelli lo ribadì nei due progetti, a singolo e doppio ordine, presentati nel 1732 per il concorso per la facciata di S. Giovanni in Laterano, con i quali, nei pareri della commissione di accademici di S. Luca presieduta da Conca come principe, contese fino all’ultimo il successo al fiorentino Alessandro Galilei, pupillo del connazionale cardinal nipote Neri Corsini.
Il concorso lateranense fu l’ultima occasione per Vanvitelli di confrontarsi direttamente con Juvarra condividendone il risentimento verso le ‘stelle fiorentine’ Galilei e Ferdinando Fuga, sostenute e privilegiate sulla scena romana dalla cerchia corsiniana. Per tutto il pontificato di Clemente XII egli fu attivo quasi esclusivamente nelle province dello Stato pontificio come architetto della Reverenda Camera, in stretta collaborazione con il tesoriere generale Carlo Maria Sacripante, in carica dal 1730 al 1739 (Benincampi, 2017). Come tale, oltre all’attività ordinaria, riguardante soprattutto sistemazioni di natura idrostatica (acquedotto di Vermicino, passonate e porto di Fiumicino, ponte d’Augusto e porto di Rimini, ponte sul Savio a Cesena), dal 1733 egli si occupò della commessa straordinaria del Braccio Nuovo del porto e del Lazzaretto di Ancona, che volle sempre considerare una compensazione da parte del papa e del cardinal nipote per le recenti vicende concorsuali romane. A questo prestigioso incarico pubblico ne seguirono diversi altri privati, riguardanti prevalentemente interventi su preesistenti edifici religiosi assolti a distanza grazie a diversi collaboratori inviati da Roma, tra cui il capomastro Pietro Bernasconi e gli architetti Antonio Rinaldi e, soprattutto, Carlo Murena, già aiutante di Salvi, impiegato per i lavori del Lazzaretto. Si segnalano in particolare la chiesa del Gesù con la contigua casa degli esercizi spirituali (1733-43) e il tempietto delle Reliquie nella cattedrale di S. Ciriaco ad Ancona (1738-39), la chiesa e il monastero degli olivetani di Montemorcino a Perugia (dal 1739), la basilica di S. Maria della Misericordia a Macerata, commissionatagli dal conte Guarniero Marefoschi insieme alla cappella privata del suo palazzo (1735-42), e la chiesa delle monache della Maddalena a Pesaro (1740).
L’imponente complesso pentagonale del Lazzaretto inserito nel contesto portuale, ed esaltato dai disegni in prospettiva incisi da Giuseppe Vasi nel 1738, gli diede modo di misurarsi per la prima volta sulla grande scala urbana e paesaggistica, e al contempo di adattare modelli rinascimentali, come il tempietto di S. Rocco posto come nodo centrale della corte interna, o addirittura antichi, come l’arco trionfale interpretato in una raffinata interpretazione dell’ordine dorico vignoliano nell’Arco Clementino anteposto a monumentale ingresso alla città dal mare. A una scala più dettagliata, le opere religiose gli consentirono di sperimentare idee fin allora rimaste sulla carta o addirittura inespresse. In questo senso lo schema della facciata concava a ordini sovrapposti da lui applicato, con e senza pronao, nelle chiese di Ancona e Pesaro si pone come una lineare razionalizzazione delle innovazioni plastiche borrominiane filtrate dalla lezione di Juvarra, maturata, al di là di speculazioni teoriche, attraverso un pragmatico processo autoreferenziale ben riflesso nell’asserzione «sono architetto ancor io, di meno foco, ma di più ordine» (Strazzullo, 1976, II, p. 498, 8 aprile 1760).
Oltre ai lavori del grande complesso portuale anconetano, interrotti nel 1740 e proseguiti più tardi da Carlo Marchionni, a Roma l’attività pubblica di Vanvitelli fu sostanzialmente circoscritta anche durante il pontificato di Benedetto XIV alla Fabbrica di S. Pietro, dove il 13 novembre 1736, l’indomani della morte di Valeri, era stato promosso da coadiutore a revisore delle misure. Come tale ebbe occasione di occuparsi del complesso restauro della cupola della basilica in collaborazione con lo scienziato Giovanni Poleni (1742-47), della sistemazione degli ornamenti della tribuna e della Pietà di Michelangelo (1749-50) e dell’allestimento di diversi apparati effimeri festivi negli spazi basilicali, come il Teatro per la canonizzazione dei cinque santi inciso da Vasi (1746). Nello stesso ambito aveva conosciuto la moglie, Olimpia Starich, figlia di Domenico, contabile della Fabbrica, sposata il 3 marzo 1737 (pochi mesi dopo la morte del padre e della madre), dalla quale ebbe sei figli: Carlo (1739), Pietro (1741), Gaspare (1743), Francesco (1745), Maria Cecilia (1748), Maria Palmira (1750; Morelli, 2004).
Nell’ambito della committenza privata, contestualmente al restauro dell’appartamento nel palazzo al Corso del cardinale Prospero Colonna di Sciarra, cui si era legato presso la Fabbrica di S. Pietro, nel 1743 strinse un rapporto di collaborazione con Salvi, bisognoso di supporto per una malattia invalidante che lo avrebbe condotto alla morte nel febbraio del 1751. Insieme i due progettarono l’apparato decorativo della cappella di S. Giovanni Battista nella chiesa di S. Rocco a Lisbona, commissionato nello stesso anno a Salvi dall’ambasciatore del Portogallo Manuel Pereira de Sampajo per conto del re Giovanni V, e realizzato e spedito nella capitale portoghese nel 1747, e l’ampliamento del berniniano palazzo del duca Baldassare Odescalchi nella piazza dei Ss. Apostoli, compiuto tra la fine del 1745 e il 1746. Quando, nel 1748, le condizioni dell’amico si aggravarono Vanvitelli ne assunse pro tempore la carica di architetto dell’Acqua Vergine, oltre a quella di architetto, prefetto e commissario dell’Acqua Felice conferitagli in proprio l’anno prima. Analogamente in sostituzione di Salvi, impossibilitato a partire, fu inviato a Milano dal marchese Giovan Francesco Pallavicini e dal cardinale Alessandro Albani, dall’aprile al giugno del 1745, per una consulenza sul completamento della facciata del duomo, per la quale propose una soluzione ‘alla gotica’ come in precedenza Juvarra, venendo anche coinvolto nel dibattito per l’ampliamento del santuario del Crocifisso di Como, per il quale dopo il ritorno a Roma spedì un progetto rimasto inattuato (Repishti, in Luigi Vanvitelli, 1700-2000, 2005; Bonavita - Repishti, 2011).
Nel 1746 arrivò la prima grande commessa autonoma romana, il rinnovamento del complesso conventuale di S. Agostino, conferitogli insieme alla carica di architetto di casa dal neogenerale dell’Ordine agostiniano, padre Agostino Gioia, che lo impose anche come autore dei progetti di rinnovamento alla moderna delle chiese e conventi agostiniani di Siena (1747) e di Soriano nel Cimino (1749) e consulente di quello di Cesena (1750; Benincampi, 2017; Mussari, 2017). Ma fu soprattutto con la sistemazione interna della basilica di S. Maria degli Angeli alle Terme di Diocleziano, affidatagli nel 1748 contestualmente alla carica di architetto dei padri certosini, che Vanvitelli fu in grado di presentarsi alla grande ribalta romana come il promotore di un linguaggio rigoroso e sobrio, adattabile coerentemente in tutti i contesti, da quelli più funzionali a quelli più aulici e monumentali, e al contempo come il detentore di molteplici competenze, dalla tecnica delle costruzioni, all’idraulica, all’architettura effimera e alla scenografia, nonché della peculiare abilità di modulare gli interventi sulle preesistenze tra consolidamento, restauro – inteso come riparazione – e rinnovamento.
La progressiva conquista di questa identità artistica, tecnica e culturale si rispecchiò anche nel mondo accademico e corporativo. Negli anni Quaranta Vanvitelli svolse un ruolo attivo presso l’Accademia di S. Luca, ricoprendo la carica di segretario (1744-45), oltre a quelle minori di sindaco (1741), stimatore d’architettura (1748-49) e custode (1750), dopo una sostanziale assenza seguita alla sua ammissione, avvenuta assieme a quella di Salvi, il 4 gennaio 1733, su proposta di Conca (Roma, Archivio storico dell’Accademia di S. Luca, Congregazioni, vol. 49, cc. 111r, 113v, 117v, e vol. 50, cc. 71v-72r, 81v, 89v, 97r, 108v, 127r, 146r). Contestualmente nel 1741 entrò nella Congregazione dei Virtuosi al Pantheon, in cui rivestì le cariche di primo aggiunto nel 1745 e reggente nel 1746 (Bonaccorso - Manfredi, 1998). Così, anche l’affermazione dei suoi allievi Francesco Sabatini, Gaetano Sintes e Francesco Collecini nella prima classe del concorso Clementino di architettura del 1750 fu il riflesso dell’ampia credibilità artistica e professionale che già l’anno prima aveva indotto Carlo III di Borbone ad affidargli l’impresa della nuova Reggia di Caserta, culmine del colossale programma costruttivo comprendente anche l’ospedale dei Poveri di Napoli, già assegnato a Fuga nel 1748.
Cercando le soluzioni più consone alla più grande commessa architettonica del suo tempo, Vanvitelli giunse a definire un impianto a quattro cortili imperniati su un nodo centrale ottagonale riecheggiante i progetti di Carlo Fontana per palazzi mitteleuropei e soprattutto quelli di Juvarra per il palazzo del conclave e per il Palazzo Reale di Madrid. Sia nell’articolazione dei prospetti esterni, impostati su alti basamenti con risalti angolari e centrali a ordine gigante, sia nella configurazione interna dello scalone d’onore, della cappella e del teatro di corte egli conseguì una più originale e armonica rivisitazione di matrici attinte dalle opere tipologicamente più rappresentative di diversi autori, da Bernini a Ferdinando Galli Bibiena, ben riflessa nelle spettacolari tavole illustrative della Dichiarazione dei disegni del Real Palazzo di Caserta alle Sacre Reali Maestà, pubblicata nel 1756 come un eccezionale strumento di autopromozione del committente presso le corti italiane ed europee.
Per seguire il gigantesco e lunghissimo cantiere della Reggia fin dalla posa della prima pietra, celebrata il 20 gennaio 1752 in occasione del compleanno di re Carlo, Vanvitelli stabilì la sua residenza a Caserta, dove lo seguirono prima la moglie e i figli maschi, poi le femmine (inizialmente lasciate a Roma sotto la cura degli zii Urbano e Petronilla). Da Caserta e da Napoli egli coordinò la rete dei suoi collaboratori, che a fronte della morte di Gaetano Sintes e della partenza di Rinaldi per la Russia, nel 1752, oltre i citati Bernasconi, Collecini e Sabatini (che nel 1764 sposò sua figlia Maria Cecilia), si allargò progressivamente a Marcello Fonton, Pompeo Schiantarelli, Francesco Sicuro, Giuseppe Astarita, Gaetano Barba, Giuseppe Piermarini e altri, fino al figlio Carlo, da lui educato allo studio dell’architettura insieme ai fratelli Pietro e Francesco, che raggiunsero a Madrid Sabatini, chiamatovi da re Carlo nel 1759 dopo la sua ascesa al trono di Spagna e l’insediamento dell’adolescente Ferdinando IV su quello di Napoli.
Subito dopo l’avvio dei lavori della Reggia, Vanvitelli fu gratificato da altre importanti opere di committenza reale: l’acquedotto Carolino, il restauro della facciata del Palazzo Reale di Napoli e la ristrutturazione della Casina di caccia di Persano. Tuttavia, nel 1755 il passaggio di poteri al vertice del governo da Giovanni Fogliani, suo alleato, a Bernardo Tanucci, partigiano del concittadino Fuga, anche lui trasferitosi definitivamente a Napoli nel 1751, accentuò la diffidenza di Luigi verso il rivale, riversata ossessivamente nelle lettere al fratello Urbano, nel timore di perdere il favore del sovrano. Tale favore fu peraltro ribadito dall’affidamento tra il 1757 e il 1759 delle commesse della caserma della Cavalleria al ponte della Maddalena e del foro Carolino in piazza Mercatello, entrambi a Napoli, e dall’intenzione, poi sfumata, di chiamarlo a Madrid per affidargli il completamento del Palazzo Reale e in particolare dello scalone monumentale, per il quale egli produsse progetti nel 1758-59 (Divenuto, 2003).
In confronto le commesse attribuitegli dal patriziato di corte e dagli enti religiosi ebbero un carattere più episodico (Stroffolino, in Luigi Vanvitelli, 1998). Infatti egli si occupò prevalentemente di ristrutturazioni e ammodernamenti parziali di preesistenti palazzi gentilizi e complessi religiosi, riuscendo comunque a improntarli stilisticamente anche laddove si trovò a subentrare ad altri architetti, come nel caso dell’incarico affidatogli nel 1762 dai Sanzo di Casacalenda per completare i cantieri del palazzo di Napoli e della villa di Resina dopo il polemico allontanamento di Mario Gioffredo. Una significativa eccezione fu rappresentata dalla vicenda della chiesa della SS. Annunziata di Napoli, gravemente danneggiata da un incendio nel gennaio del 1757. Dopo un ampio dibattito sulle modalità di intervento sullo spazio longitudinale, egli la rinnovò radicalmente a partire dal succorpo, coincidente con il vano centrale della cupola, offrendo la prova più matura della sua peculiare e razionale interpretazione sincretista in chiave monumentale dei maestri del Seicento romano, riscontrabile anche nella plastica articolazione dell’emiciclo del foro Carolino, che rimase la sua opera napoletana più compiuta su scala architettonica e urbana.
Per diversi anni Vanvitelli e Fuga estesero la loro competizione da Napoli a Roma, dove entrambi coltivavano l’idea di ritornare da protagonisti. Alla fine del 1752 essi si contesero la carica di principe dell’Accademia di S. Luca per l’anno successivo, conquistata al ballottaggio da Fuga, che la detenne anche nel 1754 (Manfredi, in Luigi Vanvitelli, 1700-2000, 2005), emarginando Vanvitelli con il sostegno del concittadino Giovanni Gaetano Bottari, ispiratore della politica culturale dell’Accademia, e feroce critico della metodologia adottata nel restauro della cupola vaticana. Ciò non impedì a Vanvitelli di mantenere tutte le sue cariche pubbliche e addirittura di succedere a Filippo Barigioni come architetto soprastante presso la Fabbrica di S. Pietro nel 1754, occupandosi come tale della risistemazione del celebre S. Pietro in bronzo, con la nuova cattedra marmorea rimossa però due anni dopo.
Con l’aiuto di Murena, al quale dal 1751 aveva affidato la conduzione dello studio romano e delegato tutte le sue mansioni pubbliche e private, egli riuscì a conferire la propria connotazione stilistica sia alle opere in corso sia a quelle di nuova acquisizione, come la ristrutturazione delle logge del braccio occidentale e la costruzione del campanile del palazzo Apostolico a Loreto (1751, 1755), la cappella Sampajo in S. Antonio dei Portoghesi a Roma (1753-56) e la ricostruzione del monastero dei certosini di S. Maria degli Angeli in via dei Banchi Vecchi (1756-57). Nel frattempo il ricco repertorio di progetti realizzati e irrealizzati custodito da Murena, divenne occasione di esercizio didattico per diversi allievi provenienti da ogni parte d’Italia e attratti dalla fama di Vanvitelli, ormai riconosciuto come l’unico architetto capace di aggiornare e ricodificare la tradizione romana. Tra essi Ermenegildo Sintes e Piermarini, che si trattennero nello studio come assistenti di Murena, fino a quando la morte prematura di quest’ultimo, nel maggio del 1764, non indusse Vanvitelli a chiuderlo, affidando a Sintes la prosecuzione dei cantieri ancora attivi (Manfredi, 2008).
Da allora Vanvitelli ridimensionò drasticamente le sue aspettative romane e, dopo avere abbandonato definitivamente la speranza di essere chiamato a Madrid da Carlo di Borbone, concentrò tutte le sue attività a Caserta. Da qui nel 1766 inviò a Siena il progetto ‘alla gotica’ per la facciata della loggia della Mercanzia, in contrapposizione con quello ‘alla romana’ elaborato da Fuga, e nel 1771 delegò a Piermarini la delicata ristrutturazione della cattedrale di S. Feliciano a Foligno, predisposta fin dal 1754. Infine nell’estate del 1769, invitato dal conte Carlo di Firmian a occuparsi della sistemazione del Palazzo Regio di Milano, raggiunse la capitale lombarda in compagnia del figlio Carlo e di Piermarini, avendo anche modo di compiere una breve visita a Torino, confrontandosi per la prima volta direttamente con l’opera juvarriana. Su proposta dello stesso Vanvitelli la sistemazione fu affidata a Piermarini, che rimase a Milano come architetto di corte degli Asburgo, avendo anche modo di curare l’attuazione dei progetti del maestro per lo scalone di palazzo Bigli (1769) e per l’attico del palazzo della Loggia a Brescia (1773), testimonianze dell’eredità artistica del maestro che Piermarini seppe rinnovare in modo originale interpretandone coerentemente il metodo creativo più di ogni altro allievo, anche a riguardo del suo atteggiamento curioso ma sostanzialmente distaccato verso la cultura dell’antico con la quale si trovò a confrontarsi soprattutto alla corte borbonica.
Vanvitelli morì a Caserta il 1° marzo 1773, assistito dal figlio Carlo, che ne fu l’ultimo collaboratore ed epigono.
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