LUIGI XVIII re di Francia
Louis-Stanislas-Xavier, conte di Provenza, nacque a Versailles il 17 novembre 1755. Aveva 19 anni, quando salì al trono il fratello maggiore Luigi XVI; e fino al 1781, cioè fino alla nascita del delfino, rimase nella posizione di erede presuntivo al trono.
Dotato di larga e pronta intelligenza e amante della cultura si imbevve delle idee di Voltaire e degli enciclopedisti, e fu fautore di un progresso illuminato; conscio della propria superiorità intellettuale in confronto del fratello, sentì con amarezza la posizione secondaria in cui fu tenuto, e che si accentuò specialmente per l'antipatia che lo divideva dalla regina Maria Antonietta. Nel periodo prerivoluzionario il suo atteggiamento fu di opposizione alla corte e di appoggio alle correnti avverse, soprattutto alla regina. Scoppiata la Rivoluzione, accentuò il suo dissenso dalla condotta del re e della regina, e per un momento fu considerato dal Mirabeau come possibile capo del vagheggiato governo costituzionale.
Emigrato al momento della fuga di Varennes (giugno 1791), si stabilì in un primo tempo a Coblenza, dove, intorno a lui e al fratello, conte d'Artois, si formò il quartiere generale dell'emigrazione, e dove la condotta sua e del fratello non poco contribuì a quegli errori che affrettarono la tragica fine di Luigi XVI. Assunse il titolo di reggente in nome del minorenne Luigi XVII dopo l'esecuzione di Luigi XVI, e il titolo di re Luigi XVIII dopo l'annuncio della morte di Luigi XVII (8 giugno 1795). Da questo momento fu instancabile e tenace nel rivendicare il trono di Francia e nel capeggiare il movimento realista, attraverso le tappe del lungo movimentato esilio (Verona, Blanckenberg, Mittau, Varsavia, Calmar, Gosfield, Hartwell, che fu l'ultima e più lunga residenza agevolata dall'ospitalità britannica: 1809-1814).
Presto deluso nella speranza (che accarezzò nel 1799-1800 e che provocò uno scambio di lettere tra lui e il primo console) d'indurre Bonaparte a farsi restauratore della monarchia borbonica, quasi novello Monk, divenne implacabile avversario del primo console e poi dell'imperatore, non abbandonando la rivendicazione dei propri diritti e mantenendo integra intorno a sé l'etichetta e l'illusione della corte, anche nei momenti in cui la fortuna e la potenza napoleonica apparivano più solide e splendenti. Fidi consiglieri e seguaci gli furono nel lungo periodo il conte A.-L. d'Avaray prima, il duca P.-C. di Blacas poi, realisti e legittimisti a oltranza. Intanto nell'esperienza del dolore e dell'esilio il suo senso politico, naturalmente sveglio e acuto, si affinava, mentre la sventura svegliava e sviluppava le qualità del suo temperamento.
La sua grande ora venne nell'aprile 1814, quando, occupata Parigi dagli alleati, Talleyrand promosse la restaurazione dei Borboni (3-6 aprile).
Facendosi iniziatore di siffatta soluzione, l'astuto principe di Benevento aveva calcolato di preparare una situazione nella quale la sua personalità avrebbe avuto il compito direttivo, tenendo la monarchia restaurata quasi sotto una specie di tutela. Ma il calcolo fu presto deluso e sconvolto dallo sviluppo degli avvenimenti e dall'azione e dall'abilità personale del nuovo sovrano, che fecero apparire la restaurazione non tanto il risultato dei maneggi e degl'intrighi alla testa dei quali era Talleyrand, quanto il portato di un movimento spontaneo e quasi unanime dell'opinione pubblica e della forza della tradizione monarchica radicata e indistruttibile nella vita e nella storia della Francia. Il 5 aprile era uscito il famoso opuscolo filoborbonico di Chateaubriand, Buonaparte et les Bourbons, il cui suceesso e la cui diffusione raggiunsero proporzioni tali da dare netta l'impressione che il movimento realista fosse travolgente in tutto il paese. Contemporaneamente le dimostrazioni a favore della dinastia borbonica cominciarono a succedersi da un capo all'altro della Francia.
Intanto L. - preceduto di qualche giorno dal fratello conte di Artois, che il 12 aprile entrava a Parigi ed era dal senato riconosciuto luogotenente del regno - si metteva in viaggio dall'esilio britannico verso il trono, e fino dai primi ricevimenti ufficiali concessi il 29 aprile a Compiègne ai marescialli e agli alti dignitarî e il 2 maggio a Saint-Ouen ai grandi corpi dello stato rivelava la forza della sua personalità e quelle doti di abilità e di prestigio che gli assicuravano l'obbedienza e il rispetto generale. Quando il 3 maggio fece la sua solenne entrata in Parigi, vi entrò non come uno strumento d'intrighi e d'interessi estranei, ma come il sovrano e il padrone legittimo che tornava nella pienezza della sua forza e del suo diritto, dopo una lunga assenza.
Questa pienezza di autorità che il re restaurato cominciò a esercitare fino dal primo giorno del ritorno in Francia sembrava in contrasto con la goffaggine del suo aspetto fisico, deformato da un'obesità eccessiva. Ma sul corpo enorme traballante su due gambe troppo piccole, si ergeva una testa ricca d'intelligenza e una fisionomia improntata a un alto senso di fierezza e di dignità, che erano l'espressione della vecchia illustre progenie da cui il re discendeva e che lo spingevano ad assumere una posizione, se non superiore, almeno da pari a pari di fronte allo stesso zar Alessandro, il quale pure avrebbe tanto volentieri assunto il compito di benefattore e di protettore. L. XVIII rivelò insomma le doti necessarie a togliere agli eventi, attraverso i quali la restaurazione era avvenuta, il carattere troppo umiliante per l'orgoglio francese, e a dare forza di verità al detto, affermante che la Francia cessava di essere gigantesca per diventare grande.
L'attività del re si applicò subito ai due problemi più gravi che incombevano: uno di politica estera, e cioè la liquidazione delle conseguenze della guerra e la sistemazione dei rapporti coi vincitori; l'altro di politica interna, e cioè l'organizzazione del regime costituzionale richiesto dal senato, con le stesse deliberazioni con le quali era stata restaurata la monarchia, e promesso dal re. Alla soluzione del primo problema provvidero il trattato di Parigi del 30 maggio, che riconduceva la Francia ai confini del gennaio 1792, e l'azione che spiegò Talleyrand al congresso di Vienna sotto la continua sorveglianza e quasi sotto la direzione del re, come dimostra la corrispondenza tra sovrano e ministro. La situazione interna fu regolata con la concessione della Carta; che se non costituì un regime parlamentare, stabilì una monarchia temperata in cui il concetto della sovranità del re era accentuato deludendo le speranze delle correnti più liberali.
Siffatte delusioni, unite a misure che facevano prevedere un ritorno completo del vecchio regime, al malcontento dell'esercito, ai contrasti tra gli emigrati che tornavano carichi di rancore e i vecchi elementi rivoluzionarî, e al lavorio del relegato all'Elba e dei suoi seguaci, provocarono la crisi del marzo 1815, il ritorno di Napoleone, la fuga della corte borbonica a Gand, e la vicenda dei Cento giorni chiusa col dramma di Waterloo. Dopo Waterloo, L. dovette riprendere in circostanze più difficili la posizione assunta nel maggio 1814.
Nel proclama che egli diresse alla nazione da Cambrai annunciava di accorrere per porsi una seconda volta tra gli alleati e i Francesi. Ma questa volta il ritorno assunse di fronte al sentimento e all'orgoglio nazionale francese un carattere più amaro e quasi odioso, in quanto veniva dopo una disfatta umiliante. Fu "il ritorno nei furgoni degli alleati"; e il carattere umiliante fu accentuato dalla nuova invasione straniera più grave e minacciosa della prima, dalle clausole del secondo trattato di Parigi che diminuiva territorialmente la Francia e le imponeva un'indennità di guerra e l'insediamento di truppe straniere per alcuni anni in una parte del territorio. Tutto ciò, mentre i rancori e gli odi tra realisti e avversarî si scatenavano più violenti che mai, e gli estremisti del realismo si abbandonavano al terrore bianco.
La situazione veramente terribile fu superata da L. con una saggezza e un'abilità a cui la storia ha reso omaggio. Mite di carattere, dotato, oltre che di larghezza di vedute, di buon senso e di equità, ammaestrato dalle dure esperienze delle traversie sofferte e dell'esilio, assunse come direttiva quella d'instaurare un regime in cui il riassestamento della Francia dalle scosse formidabili di un ventennio di sconvolgimenti e il suo ritorno a una grande posizione nel campo internazionale avvenissero attraverso una politica di moderazione e di pacificazione.
Queste direttive del re apparvero in pieno quando, dopo avere dovuto subire gli eccessi degli ultrarealisti e degli ultrareazionarî durante il terrore bianco, assunse un atteggiamento di resistenza di fronte alla Camera introvabile, uscita dalle elezioni dell'agosto 1815, nella quale gli estremisti di destra erano prevalenti, dato l'ambiente infuocato in cui si erano svolte le elezioni. La camera fu sciolta (settembre 1816) e lasciò il posto a un'altra di carattere assai meno acceso, nella quale tra una destra spiccatamente reazionaria e una sinistra in cui si univano bonapartisti e liberali, si trovava una forte massa di tendenze conservatrici moderate su cui il re mirò a imperniare la politica della Francia, in contrasto col fratello conte d'Artois, strettamente legato allo spirito del vecchio regime e di tendenze reazionarie.
Le tendenze del re si rivelarono anche nella scelta degli uomini ai quali concesse la fiducia e affidò il carico principale del governo: il duca di Richelieu e il duca É. Decazes. Soprattutto quest'ultimo, che ebbe una posizione nella quale in certo modo si rinnovò l'antica figura del favorito, fu l'espressione caratteristica di quello che poté chiamarsi il periodo liberale della restaurazione durato fino al 1820, e ricco di risultati importantissimi in politica interna ed estera, quali il riassestamento politico e finanziario, l'anticipato sgombro dei territorî occupati dagli alleati nel 1815 e il ritorno della Francia nel concerto europeo.
Col 1820, e precisamente dopo la crisi provocata dall'assassinio del duca di Berry, L. modificò in senso più conservatore e restrittivo l'indirizzo della politica, cedendo in certa misura alle pressioni del fratello e della destra reazionaria. Avvenimenti significativi di questo mutamento d'indirizzo furono l'avvento del capo della destra Villèle, dopo una breve parentesi impersonata dal Richelieu, le restrizioni nella politica interna, l'atteggiamento assunto dai rappresentanti della Francia al congresso di Verona (1822) e la spedizione di Spagna (1823).
A quest'orientamento a destra in senso conservatore-reazionario, destinato ad aggravarsi nel 1824 con l'avvento al trono del conte d'Artois va legata l'origine della crisi che poi nel 1830 travolse la dinastia borbonica. Esso si trovò infatti a coincidere, in modo pericoloso per i Borboni, con una evoluzione nella psicologia popolare francese, nella quale il risorgente benessere del paese e il passare degli anni facevano dimenticare i danni, i pesi e gli errori dell'impero e ne lasciavano in vista soltanto lo splendore di epopea, mentre per contro risaltava sempre più quella che per ogni patriota francese era la macchia originaria della monarchia restaurata, e cioè il suo legame con la sconfitta e con l'invasione straniera.
L. nel tramonto della sua vita, che si chiuse il 16 settembre 1824, non fu rattristato dalla sensazione della crisi, ormai preparantesi. Egli poté morire col conforto dei risultati conseguiti nei nove anni di regno: la Francia reintegrata nella sovranità del suo territorio e in una grande posizione internazionale, risollevata dalla gravissima crisi economico-finanziaria seguita al crollo dell'impero, ricostituita nella sua efficienza militare, perché di nuovo dotata di un solido esercito.
Bibl.: V. la bibl. gen. della voce francia. Inoltre: Correspondance inédite du prince de Talleyrand et du roi Louis XVIII pendant le Congrès de Vienne, Parigi 1905; L. Pingaud, Bernadotte, Napoléon et les Bourbons, Parigi 1901; P. Rain, L'Europe et la restauration des Bourbons (1814-1818), Parigi 1908; P. De La Gorce, L. XVIII, Parigi 1926.