CAMÕES, Luiz Vaz de
Della vita esteriore del maggior poeta del Portogallo e creatore delle Lusiadas sappiamo pochissimo. I documenti ci mancano; il fastoso centenario che si celebrò nel 1924 non ci portò nessuna luce; le biografie antiche del Mariz, del Correa, del Severim, del Sousa, quelle più recenti del Braga e dello Storck s'aiutano con congetture e allineano fatti e date coi suggerimenti avuti dalle allusioni capricciose e fallaci nelle liriche e nell'epopea, che interpretano sottilmente, ma come a loro talenta. Sembra sia nato a Lisbona, e non a Coimbra, nel 1524 e non nel 1525, nell'anno in cui si spegneva Vasco da Gama, l'eroe a cui egli diede una seconda vita di poesia e di sogno. Discendeva da un vecchio casato di hidalgos della Galizia del '300, trasferitosi nel Portogallo e impoveritosi via via. Il padre Simão Vaz de Camões era capitano di vascello, e morì a Gôa, allora capitale dell'India, forse quando vi andava errabondo il poeta. La madre Anna de Sá de Macedo sopravvisse al figlio, sostentata da una magra pensione; certo il poeta ebbe tenerezza per lei, ma non abbiamo ricordi. Quella dolcezza femminea che molceva il cuore del poeta, di robustissima tempra, e lo moveva alle lagrime, la malinconia istintiva, or soave, or cupa, che mai abbandona il cantore ramingo per i mari lontanissimi, erano retaggio della madre? Ci dovremo figurare altra guida nei labirinti della vita sentimentale del poeta, accendibilissimo, tocco da un nulla, sempre rivolto all'interiore?
Ogni espressione avuta lasciava solco profondo. Ed è peccato che del poeta, che condusse vita sempre agitatissima, sbattuta fra tempeste, e diceva di sé, nel 7° canto delle Lusiadas (str. 80):
Agora com probreza avorrecida
Por hospicios alheios degradado;
Agora da esperança já adquirida
De novo, mais que nunca derribado;
Agora ás costas escapando a vida,
Que dum fio pendia tam delgado,
Que não menos milagre foi salvar-se
Que pera o rei judaico acrecentar-se
Trabalhos nunca usados me inventaram
Com que em tam duro estado me deitaram;
è peccato che sempre fra le tenebre ci appaia il dramma della sua esistenza, e la sua "navigazione" avventurosa appena si distingua da quella, descritta e cantata, dei suoi campioni lusitani di conquiste e di sofferenze. Povero sempre, eterno vagante, con eterni sospiri e ambasce d'amore, or nelle grazie dei possenti, or esiliato, languente in un carcere, or combattente, milite destinato agli assalti e alle difese, quando più fervida batteva la fantasia negli altissimi spazî - "n'uma mão sempre a espada, e na outra a penna" - amministratore delle fortune altrui nei dominî oltreoceanici, trascinato agl'intrighi, alla lotta, col suo anelito alla pace idillica, al ristoro dell'anima e del cuore ch'egli concedeva ai suoi stanchi esploratori e naviganti, condotti alle isole amene e beate, i giardini d'Armida, da lui immaginati nel poema, come premio alle grandi fatiche, decisamente l'epopea era vissuta prima di essere scritta. E non dai placidi sogni unicamente, ma dalla propria durissima vita e dalle amare esperienze il C. traeva continua ispirazione per la nuova Odissea cantata al suo popolo.
Temprato al dolore, sapeva il martirio dei suoi eroi lanciati alle grandi avventure per amore della patria e per sete di gloria e grandezza. Era l'epoca dell'espansione maggiore della piccola nazione; le conquiste avevano del favoloso; si avanzava sicuri ad ogni contrario vento, e speditamente erano superati i mille ostacoli, sedate nei mari tutte le burrasche. Voleva la Provvidenza che allora sorgesse il poeta più valido per la celebrazione e consacrazione di così inaudite prodezze. L'aderenza a questa vita di eroismo e di sacrificio dei suoi Lusitani era intimissima, completa nel C. e concentrava in un foco unico le più intense energie. C. si fa l'interprete di tutte le ardenze dell'anima della sua nazione; il suo Calvario, il suo Eliso, tutto è nello specchio cristallino dei versi dei dieci canti dell'eroico poema.
Come venisse a tale virtù di poesia nessuno può sapere. Fantastichiamo sulla sua infanzia, che dovrebbe essere piena di ardore, e portare a rapido sviluppo. È documentata la sua presenza a Coimbra nel 1537 come alunno nel "Collegio das artes". Dopo alcuni anni di studio otteneva il baccellierato, e si preparava all'università, che non riuscì a frequentare. A Coimbra veramente trascorrevano i suoi anni più felici e sereni; a quella "florida terra, leda, fresca e serena", che ricorda tante volte nelle sue liriche (Canz. IV, ecc.), egli deve la sua formazione spirituale, le prime esperienze d'amore, decisive per la vita, quel fondo granitico di conoscenze che si portò poi nel doloroso peregrinare per terre e per mari, la passione per l'arte che sublima e trasfigura ed è di conforto a ogni miseria e squallore, lo studio, non capriccioso e non leggiero, degli antichi e dei moderni, l'amore per Virgilio e Omero e per i poeti d'Italia che furono i favoriti di Bernardim Ribeiro, di Sá de Miranda, di Pero de Andrade Caminha e di Garcilaso: il Petrarca, l'Ariosto, il Sannazzaro, il Bembo, Bernardo Tasso, e i lirici e i bucolici dominanti allora, soavizzanti le asprezze del crudo reale, nel mondo dei colti. Bisogna risolutamente ritenere il C. perseverante e tenace nel desiderio di approfondire gli studî. La sua virtù di autodidatta, come la presunta scapestrataggine, è chimera d'alcuni critici. C. è grato ai suoi maestri e li ricorda talvolta con commozione. La sua memoria è prontissima, ma è spronata dalle assidue letture. Tolto con violenza agli studî più gravi, poteva pur figurare degnamente nella famiglia degli umanisti, e vantare conoscenze non comuni, non solo della sua poesia divina, ma delle scienze storiche e naturali altresì, e sfoggiare dottrina geografica ed astronomica, non presa d'accatto, ma assorbita nello spirito. Uomo d'azione, facile agli entusiasmi, inebriato d'ogni audacia degli avventurieri del suo mondo lusitano, egli sa pur raccogliersi nella meditazione; piega la mente al pensiero grave; platonizza nelle liriche, e cosparge il superbo poema dei granelli d'oro delle sue lapidarie sentenze.
Da Coimbra si trasferisce, verso il 1542, a Lisbona; e si pensa che il conte de Linhares gli favorisse l'accesso alla corte. Ama ed è riamato dal suo spirito gentile (alma minha gentil), la sua Caterina (Natercia), per cui soffre ansie crudeli e febbri, e a cui, pur separandosi, si lega per la vita. Altre donne: Francisca de Aragão, Guiomar de Blasfé, tutte avvolte nel velo del mistero (mistero è pure il loro nome) gli dànno fiamme d'amore che non consumano e si estinguono rapide. Dell'unica Caterina (Catharina de Athaide?) spentasi nel fiore degli anni, nel 1561, è rimasta forte e lacrimata memoria nel canto. Si narrano meraviglie del focoso sentimento del poeta corteggiatore, e come sguainasse la spada per una minima offesa, e lo colpissero l'ira e la vendetta di rivali possenti.
Certo è che nel 1546 il poeta abbandonò la corte per recarsi a Ribatejo. Si dice che venisse in fastidio al re per le allusioni agli amori reali illeciti nell'Auto de El-Rei Seleuco, composto di quei tempi sui modelli offerti da Gil Vicente. Correva manoscritto, e del dispiacere cagionato all'alta sfera nulla sappiamo. Che brillassero all'alto inclementi le stelle in cui il poeta confidava è innegabile; i rovesci di fortuna erano continui. Dovette improvvisarsi soldato nel 1547, partire per Ceuta nell'Africa, mettersi nella guarnigione di quella piazzaforte; e fu in un combattimento di laggiù ch'egli perdette un occhio, non si sa se il destro o il sinistro: or di qua, or di là l'occhio si chiude nelle effigie del poeta, tutte fantastiche, che ci sono tramandate. Ricordate il Cervantes, con cui il C. ha tanti punti di contatto, mutilato a Lepanto, sedotto dalle imprese eroiche, come il suo cavaliere prode e triste e folle, che, battendosi con la spada, sospirava dal cielo sogni leggiadri e immagini soavi. L'ideale altissimo e la realtà squallida sono in continua opposizione anche nel C. Tutta l'anima andava ai prodigi di magnanimità e di grandezza, alle vittorie dei suoi nocchieri audaci; e il verso intesse le sue corone di gloria; ma stride pure una voce nel secreto del cuore, che grida la vanità delle imprese così disperate, la voce del vecchio do Restelo, il Sancho Panza, in cui parla il buonsenso del popolo rozzo, e che si intromette nel canto eroico, e sogghigna: "Ô gloria de mandar! Ô vã cubiça / desta vaidade". Mettono pietà i Prometei novelli: "O maldito o primeiro que no mundo / Nas ondas nella pôs em seco lenho / Dino da eterno pena do profundo". Da Ceuta il deluso poeta mandava a Lisbona le ottave Sobre o desconcerto do mundo, e anelava un romito asilo di pace: "Se o sereno céo me concedea / Qualquer quieto, humilde e doce estado / Onde con minhas musas só vivera, / Sem verme en terra alheia degredado".
Ma è pure in lui invincibile la voluttà di tragittare sulle onde infide. Il mare è la sua gran passione, la gran patria distesa attorno alla dolce terra in cui nacque. Sul mare lo lancia il destino, e ne percorre tratti immensi, gran parte dei regni oceanici su cui passò la nave del suo Vasco da Gama. Una magnificazione delle forze del mare, con le furie che si scatenano e le placide albe e i rosei tramonti, è l'intero poema delle Lusiadas. Ed è natura la personificazione compiuta di queste forze misteriose, una sua particolare visione, fantasmi che si concretano nell'accesa immaginazione. La grotta di Ceuta, dove C. si raccolse per stendere i primi canti del poema, è nel dominio delle fiabe, sicuramente, ma non può essere dubbio che già era fissa l'idea di un poema virgiliano e ariostesco sui trionfi dei Lusitani al primo salpare per i lidi lontani.
Dall'Africa passa a Lisbona nel 1549, e un anno dopo medita il viaggio nell'India. Un elenco rimastoci, del 1550, dei componenti la guarnigione dell'armata della nave S. Pedro de Burgaleses registra il suo nome. Ma è poi trattenuto, e il viaggio gli è imposto dopo una prigionia sofferta nel 1552, in seguito ad una rissa con certo Gaspar Borges, paggio alla corte e sorretto dai potenti. Il 26 di marzo del 1553 batte la gran via dei mari ed è condotto nell'India, su e giù per le sponde più strane, dalla Persia alla Cina, con frequenti ritorni a Gôa, il cuore dell'India portoghese, esule e ramingo per circa 17 anni, milite, e modesto impiegato, e finanziere, e addetto a particolari sorveglianze, e confidente di governatori e viceré, e poeta che s'improvvisa nei pubblici festeggiamenti. A Gôa, nel 1555, per le feste del governatore Francisco Barreto, si rappresenta il suo auto Filodemo (pubblicato postumo, nel 1587), specie di romanzo d'avventure, spezzato in quadri ed episodî, e si spande la sua Satira do tornero. A Gôa egli diffonde, poco dopo, una satira più mordente: Disparates na India, allargatasi sconvenientemente in 17 strofe, di cui le ultime 8 non sembrano essere di sua fattura. Doveva pure godere stima ed avere fianco sicuro, per versare fiele così acre contro la Babele indiana, e inveire così crudamente contro le cupidigie, le follie e depravazioni e il mercanteggiare sacrilego dei nobilucci spadroneggianti nelle terre di conquista, sferzati anche in un sonetto, che lamenta quel suo smarrirsi nel labirinto dei miserabili e sospira la patria lontana, il polo opposto alla fatale Babilonia, il suo Sion, la sua Lisbona. Appena sa ridere, e male trattiene l'amarezza che gli è entrata nel cuore.
Si arruola ancora soldato nel 1556 e prende parte a una spedizione al mezzodì della capitale indiana. Passa due anni dopo a Macao, non più fra gli armigeri, ma come "provveditore dei defunti", singolare carica che gli fu tolta dopo un'accusa di prevaricazione. Nel 1559 è a Gôa di nuovo, e che facesse allora non si sa. Ricorda un naufragio patito alla foce del Rio Mekong, a Cambogia, nell'Indocina, in cui miseramente si dibatte tra i flutti e stringe a sé il manoscritto del suo poema, che porta con sé, dopo infiniti stenti, alla riva ("Este receberá placido e brando / No seu regaço os cantos que molhados / Vem do naufragio triste e miserando / Dos procelos baxos escapados", Lus., X, 127). Alti affanni l'attendono in altre contrade, e sempre stridono furenti le tempeste sul suo capo. Ma lo vediamo tra ombre, nel buio più fitto, e non distinguiamo nulla nel seguito delle disperate avventure a Malacca, a Gôa, dove a intervalli sempre si riconduce. Gli ordiscono un processo, non indoviniamo per quali colpe, forse per debiti contratti - e dovevano essere continui - e pare soffrisse nuova prigionia e lo liberasse a stento il conte de Redondo. Per circa un decennio non un fatto sicuro ci è dato fissare dell'errabonda vita. Qualche mano amica doveva stendersi a lui nei pericoli più gravi. Ebbe pure qualche compagno nella sventura. È noto un suo sonetto posto innanzi ai Simplices e Drogas di Garcia da Orta, allora vagante nell'India.
Sospirava il ritorno ai lontani lidi della patria abbandonata. Lunga era l'odissea dei guai sofferti; e anche l'odissea scritta degli eroi Lusitani doveva conchiudersi. E veleggia verso il Portogallo nel 1567, nella nave del capitano Pedro Barreto, che gli offriva il passaggio gratuito. Altri guai avvengono all'approdo a Mozambico dove il poeta sosta ancora per anni, lacero e triste; poverissimo - "tão pobre, que comia de amigos" - assicura chi allora lo conobbe. Tra i conoscenti impietositi v'erano Hector de Silveira e Diego de Couto. Immaginiamo il dolore e le torture dell'esule nei fallimenti perpetui della víta, già incline al pianto per natura, curvo sull'anima gemebonda, avvolto nel triste velo della "saudade". Nessuno più atto di lui a esprimere il sentimento nostalgico serpeggiante nel cuore dei Lusitani al chiudersi del secolo delle grandi conquiste. Un amore di terra lontana che non si placa, uno stringersi tra lagrime alle più care rimembranze, e un volgersi or qua or là per stanchezza e languore e fastidio dei tempi grami che correvano, il consumarsi fra speranze vane e desiderî impossibili. Il poeta dei fasti maggiori degli arditi esploratori è il poeta del dolor maggiore che strazia nella solitudine dell'anima. E come il poema del C. è il grido di tutto un popolo acclamante i trionfi avuti, la sua elegia è il pianto di quel popolo stesso al vanire dei sogni e al cadere delle illusioni e chimere. Particolare al C. è la dolcezza melodica del suo lamento, la soavità petrarchesca, un accento di tenerezza che s'insinua. Gli si attribuiva un tempo una traduzione dei Trionfi, non mai ideata. Certo egli è avvinto al Petrarca per i riflessi petrarcheschi nella sua lirica; e versi interi del Canzoniere trapianta nel proprio breviario d'amore e di dolore. Píù colpisce l'analogia del suo spirito con lo spirito del malinconico poeta di Laura e delle glorie e degli onori e delle pompe effimere. La voluttà nell'immergersi nella "saudade" non è d'altra natura della "saudade" petrarchesca, ondeggiante, vaga, non stemperata in vana sentimentalità.
Quando Dio volle, nel 1570, sulla nave Santa Clara, che non affonda e non si sfascia, si dirige al porto di Lisbona; e v'entra, ci figuriamo con quale tremito, e rivede la madre, i compagni d'un tempo, le mura che lo strinsero. Che poi facesse, a quali servizi attendesse per campare, non sappiamo. Recava in patria il poema compiuto, che affida alle stampe nel 1572, e ottiene un piccolo reddito dal monarca (15.000 reis di pensione annuale), a cui predice grandi trionfi nell'avvenire, mentre la sorte gli preparava la disfatta fatale e la tomba ingloriosa. Il canto così solenne, così acceso, si spandeva nel silenzio e lo disperdevano i venti. L'ultimo decennio di vita del poeta è il più oscuro e impenetrabile. Più accorato doveva essere il lamento per l'ingratitudine della sua patria, di quello già espresso nel poema (C. VI: "... assi sabem prezar con tais favores / a quem os faz cantando glorïosos"). Nel 1580, in una giornata del giugno, muore, colpito, sembra, dal contagio che allora infieriva a Lisbona; e "pobre e plebeiamente" lo seppellirono nella chiesa del monastero di S. Anna. Vedeva avvicinarsi la fine, e pensava che con lui cadeva trafitta la patria, perduta l'indipendenza ch'era sacra, chiusa ormai in un avello. Scriveva a don Francisco de Almeida: "Chi avrebbe mai pensato che in un letto così angusto la fortuna volesse raffigurare cosi grandi disavventure? E, come se queste non bastassero, mi pongo al suo seguito, per fuggir la vergogna di volermi opporre ai mali decretati. E così terminerò la vita e vedrò adunarsi tutto quanto mi avvinse d'amore alla patria mia, consentendomi la sorte non solo che io muoia in essa, ma che muoia essa stessa al mio disparire".
Alla Lusitania morente è rimasto come canto del cigno il poema dei suoi trionfi, della sua grandezza, una sintesi della storia dei suoi forti atleti e esploratori, uomini d'acciaio, redivivi Crociati, sorretti dalla fede più ardente. Già suggeriva la grande glorificazione João de Barros, nel Panegyrico a Don João III. L'Asia di questo storico, attentamente seguito dal C., arieggia all'epopea solenne, e solleva gli umili personaggi al livello degli eroi. Le sue Decadi sono tracce di canti per il poeta delle Lusiadas, che converte le tronche parole in immagini. E non esortava Antonio Feireira l'amico Antonio da Castilho a stendere la grande, la "clara" storia "do nome português... / Que vence da alta Roma a grã memoria"? Evidentemente C. riceveva il maggior stimolo da Virgilio, e dava altra rotta, per mari più ampî, alla navigazione di Enea. I suggerimenti dell'Eneide sono infiniti. Tutto il macchinario dell'antico poema è passato nel nuovo; la stirpe lusitana traeva origine dagli eletti Romani; Dio vegliava sul piccolo popolo e lo conduceva alle più audaci imprese, al dominio vasto e temibile. Tanto poteva l'amor patrio nel cuore del poeta, di tante fiamme s'accendeva la bella immaginazione, da fargli ritenere le gesta dei suoi prodi superiori a tutte le avventure fantastiche dei fantastici eroi del mondo antico e del mondo moderno. Dovevano impallidire Enea e Ulisse. "Houve no mundo / gentes, que taes caminhos commettessem?". Dal regno delle favole si passava alla realtà, dov'era fremito di vita verace: "A verdade que eu conto nua e pura / vence toda grandiloqua escriptura".
Ed è miracolo che il poeta, passato per tanti turbini, costretto mille volte a sospendere il canto, conservi inalterata, nell'unità infrangibile del suo poema, l'intonazione eroica. Entro lui era pure il pianto elegiaco; sognava l'idillio, mentre descriveva le pugne più fiere, il suo dolce nido, la sua dolce compagna, lo scintillio delle stelle non più avverse, la sua Arcadia, il verde, a cui andavano le onde frementi con un sospiro. Era ardenza tutta lirica quella della sua gioventù baldanzosa, che gli leniva le angustie, lo portava all'azzurro dei cieli, lo moveva a comporre sonetti, canzoni, egloghe, elegie, odi, sestine, redondillas; e gareggiava col Petrarca e i petrarchisti più in voga, e cantava le virtù e i prodigi dell'onnipossente amore, pronto a discendere nei labirinti del proprio cuore e a spiarvi ogni palpito, e aveva famigliari tutte le sottigliezze dei neoplatonici, versificava la sostanza degli Asolani, inneggiava all'eterna bellezza, prostrato al suo Dio in mistica adorazione, e coloriva la natura del suo intimo sentimento, ridava la pastorale ondeggiante nell'anima sua, il dramma di quell'anima provata a tanta estasi, a tanta sofferenza.
Un'onda, lirica molle di pianto si muove qua e là nell'austero poema degli eroi lusitani, e liriche, odi, canzoni e sonetti erano di sfogo al C. anche negli anni più gravi di sciagure, e accompagnavano l'inno alla patria. Appena sorprenderete il poeta fuori del suo cerchio maggiore d'ispirazione, tanto e con tanta costanza vi rimane raccolto, tutto assorbito nel magnificare e sublimare le virtù dei suoi eletti. Non vi sono scissure nelle Lusiadas, e le ampie divagazioni, l'elemento fantastico che vi si introduce coi sogni e l'Eliso della cavalleria ariostesca, il succedersi degli episodî, i convegni dei celesti, preludio alle grandi avventure che sorprendono in terra e sui mari, nulla turba l'unità organica della composizione, che appare un unico soffio di un vigoroso spirito, impossibile a rimuovere dal suo solenne imperativo. Così avvenne che la voce sua, sorgente dalla profondità della sua coscienza, apparisse come coro della patria intera che s'aduna sulle alture e, forte delle memorie di un passato glorioso, grida ai sonnolenti e lancia i gravi vaticinî. È quindi fallace ogni comparazione con altri poemi delle conquiste, e con la trama dell'Araucana dell'Ercilla. E non è da insistere sulle derivazioni, certo copiosissime, dai modelli seguiti e dagli oracoli rispettati al tramonto del Rinascimento, quando si annunziava la Gerusalemme del Tasso, così spiccata è l'originalità di questo poeta, che trasfonde in sé il Dio animatore della sua nazione e benedice la storia per portarla, calda del suo affetto, all'altare della poesia.
Con la storia, le leggende e tradizioni dei mari, popolati da mostri e da giganti nell'accesa fantasia degli arditi che li solcavano, quel sovrannaturale che emana dalla natura stessa e vive negli spazî occulti, la mitologia infine di cui usaron tutti come di anello di congiungimento fra la terra e il cielo. Lassù si decretano e si annodano i destini umani che si svolgono quaggiù. Né si vuotava l'Olimpo degli antichi ai cristiani più ferventi e propagatori dell'unica fede nelle terre più remote. Venere doveva vigilare sul popolo lusitano, che protegge con fervido, materno amore, come proteggeva il figlio diletto Enea. E se tramava Giunone nel poema di Virgilio e mandava scompigli e sciagure, or la sua missione perturbatrice e devastatrice doveva passare a Bacco, inviso ai Portoghesi, sovente in gran consiglio coi Celesti, ma regolarmente sconfitto, perché è bene che trionfi la virtù dei saggi e degli audaci e si compiano le imprese ordinate dall'Altissimo.
Così, dopo il preambolo e le contese all'alto e il principio della grande navigazione, giunto al regno di Melinde, l'eroe degli eroi Vasco da Gama, sollecitato al racconto, mentre tace il vento e dormon l'onde, di quanto avvenne a lui e ai suoi fidi nei lunghi anni delle esplorazioni più spettacolose, può sciogliere il cantico e offrire il compendio della storia più gloriosa del Portogallo; esaltare le gesta degl'illustri, principi, monarchi, naviganti, avventurieri, condottieri, che apersero le vie dell'Oriente e diedero ali per l'ampio dominio alla patria, descrivere le battaglie decisive di S. Mamede, di Ourique, le guerre mosse ai Saraceni, le spedizioni di Ceuta, i pericoli affrontati, l'incontro con Adamastor, l'arrivo a Mozambico, e, poi ch'egli si rimise ai mari e si batté tra nuove tempeste per giungere ad altri lidi, lasciare al fratello il seguito della grande rapsodia lusitana, l'illustrazione di altri episodi di abnegazione e di eroismo, tollerare altri affronti e congiure e sollevamenti e, con l'aiuto di Venere, approdare coi suoi fidi alle isole d'amore, udire alfine da Tetide il presagio delle future gesta dei Portoghesi, e, dalle alture che raggiunge, ottenere la visione dell'universo che gli si squaderna e che gli è minutamente descritto.
C. ha la visione nitida, concreta, e gli riescono plastiche le figure, limpide le immagini. Riconosci l'uomo conscio della missione che Dio gli affida, sgomentevolmente serio, incapace di trastullarsi. È un amplificatore per istinto; ha innanzi un fatto reale, ma deve farlo diventare fuori del comune, e d'un tratto lo solleva alle alte sfere e lo trasforma simbolo. Qualche fredda allegoria è passata al poema, e occorrerebbero gli occhi suoi profondi per vedere l'umano in alcune sue personificazioni. Ma il suo gigante Adamastor, di mostruoso, orrendo aspetto, che si stacca dall'orizzonte e oscura il mare immenso, è persona viva, e non importa ch'egli figuri il capo delle tempeste, temutissimo dai naviganti che l'accerchiano. Come s'estolle sui flutti, e minaccia irato e poi s'ammansa e narra di sé, caduto negli abissi, tra i "filhos asperrimos da terra", preso d'amore tenerissimo per Tetide, che egli non oblia nelle profondità tenebrose, cosi sempre è presente al nostro spirito. Corre sulle acque con un tremito d'amore il suo ruggito, quando egli scompare disfatto in una nube nera.
L'armatura esteriore, i concilî degli dei, i sogni, le profezie, le favole narrate per passatempo dei marinai, sono le parti caduche del poema. Rimane il cuore della creazione di quest'araldo della gloria dei Lusitani; il poema è come il santuario del piccolo popolo, portato all'alba dell'era nuova a vertiginosa altezza, dominante sui mari, un tempio in cui i devoti alla patria si raccolgono, e vi trovano, viventi più che nelle cronache e nelle storie, le loro care memorie, lo spirito degli avi illustri che ancora vi aleggia, scritti su tavole d'oro, i fasti della nazione, le gesta meravigliose degli Albuquerque, Duarte Pacheco, gli Almeida, Egas Moniz, Fuas Roupinho, Giraldo Sem Pavor, Martim Lopes, Paio Peres Corrêa, Gonzalo Ribeiro, Fernão Velloso, Nun'Alvares e Aljubarrota e, troneggiante su tutti, Vasco da Gama. Il dramma di amore e morte di Inés de Castro, "misera e mezquinha, / que despois de ser morta foi rainha", è già tutto nelle Lusiadas, coi suoi fremiti di passione e i turbini di dolore, senza i languori delle cento tragedie e pitture a cui i densi versi del C. diedero origine.
Che il poema dei Lusitani appena ritragga l'aspetto delle terre remote, le meraviglie dei tropici e il color locale dell'India conquistata, era d'aspettarsi. Né il poeta, né i suoi eroi si spingevano addentro oltre la costa su cui sbarcavano e le città dei loro traffici, per scoprirvi le foreste vergini e i mondi persi tra le nubi: non li spingeva la sete dell'esotismo, il sentimento romantico della natura. E la missione del C. non era di stendere un trattato di scienza geografica o etnografica, ma di compiere l'apoteosi dei Lusitani in un poema immaginoso. Del mondo fisico abbastanza ritraeva perché reggesse il mondo morale e il mondo eroico, che tutto lo assorbivano; e l'osservazione sua è minuta e piena d'amore anche per le piccole cose viventi nella natura (Ed. Sequeira, Fauna dos Lusiadas; Conde de Ficalho, Flora dos Lusiadas). Al mare si affida, ed è l'epopea marittima ch'egli canta; sulle onde si svolgevano i grandi destini. E nessuno fu più attento di lui al giuoco dell'acqua e dell'aria, ai contrasti tra l'ombra e la luce sulle distese dei mari, entro i grandi archi del cielo, su cui, quando non battevano i turbini e le sconvolgenti burrasche, e non si sollevavan le trombe marine, nelle notti tacite, si accendevano benigne le stelle, e brillava Venere che metteva in fuga le tempeste. Comprendiamo lo stupore del naturalista Humboldt (Cosmo, II) per tanta vivacità d'impressioni, per l'esattezza dei quadri offerti nelle Lusiadas, ritraenti l'eterno scambio tra il mare e l'aria, la vita delle nubi correnti sugli Oceani.
È rimasto così nel poema il suggello della nazionalità portoghese, una quintessenza del suo spirito. Non vi ritrovate il riso, l'ironia sottile, il fino e blando umore che erano nell'Ariosto natura; natura era nel poeta lusitano la serietà, e natura la tristezza. Toglie dalla sua lira le note più dolenti e gravi, di un'invincibile "saudade" concepisce eroicamente la vita, degna d'essere vissuta, ma pregevole anche perché se ne può far gettito, affrontando i pericoli, come facevano gli avi, "nossos avos/elles a desprezar nos ensiram / todo temor". Le considerazioni amare guizzano nel poema delle glorie eccelse. La fama dei suoi illustri ha così poca consistenza; tutto si sfascia, tutto corre alla rovina; solo il dolore ha eterna durata. Il nostro cammino è sempre incerto, e il cielo si accanisce contro i poveri mortali che perseguita e flagella. Che importa loro l'essere umano, così meschino, "um bicho da terra tam pequeno"? (Lus., c. I; e vedi Canz. X). Il poeta si doleva acerbamente anche del degenerare della sua stirpe, un tempo così forte e così altera. La rozzezza vinceva. Si era indifferenti per l'arte, che più non allettava ormai e nemmeno si comprendeva. Il vate deluso avrebbe addensate, con le ire sue, tutte le ire di Dio sul capo dei miseri traviati e infiacchiti, indegni dell'esaltazione delle virtù antiche che egli compiva; il canto approdava a "gente surda e endurecida". Quasi gli si spezza tra pianti la lira al chiudere l'inno, ahimé sì vano: "No mais, Musa, no mais".
Fallita l'arte com'era fallita la vita. Ma i posteri ritrovarono il poeta sincero e forte e lo risollevarono all'altezza dei maggiori e si deliziarono ai suoi versi ch'erano il respiro dell'anima sua. E si diedero tanto affanno per ricostruire la sua vita, tutta avvolta nel mistero; e non è miracolo che sui casi strani e le avventure romanzesche si facessero romanzi e drammi e poemi, e ricollocassero il poeta nel mondo del sogno e della fantasia il Garrett, il Tieck, Friedrich Halm, il Le Jardin e tanti altri.
Bibl.: Indicazioni bibliografiche; generali: T. Braga, Bibliographia Camoniana, Lisbona 1880; J. de Vasconcellos, Bibliogr. Cam., Porto 1880; P. W. de Brito Aranha, A obra monumental de Luiz de Camões. Estudos bibliographicos, Lisbona 1887, voll. 2. Vedi anche le indicazioni sugli studî camoniani in F. de Figueiredo, Critica litteraria como sciencia, Lisbona 1920; A. de Ornelas, Iconografia de C., Lisbona 1925.
Fra le ediz. delle opere complete, sempre consultabile quella del Visconde de Juromenha, Obras de L. de C., Lisbona 1860-65 (per le Anotações ineditas di Antonio Feliciano de Castilho a 15 sonetti del C., destinate all'edizione del Juromenha, vedi Lusitania, 1924, fasc. 2, p. 183 seg.); buona la Nova ediçao delle Obras completas de L. de C., Lisbona 1912, voll. 3. Si veda per le Lusiadas: Ed. segundo o texto da 1ª de 1572 com as variantes da 2ª impressa por Manoel de Lyra em 1584, e acrescentada com dois Apendices pelo dr. Gonçalves Guimarães, Coimbra 1919; altra ediz. con facs., un'introduz. e apparato critico di J. M. Rodriguez, Lisbona 1921; ed. curata da C. Michaëlis Vasconcellos, Strasburgo 1908; da A. Coelho (Gabinete de Leitura de Rio de Janeiro), 1913; ed. "para escolas" (ottima) curata da Mendes dos Remedios (Lisbona, Porto, Coimbra 1924); altre ediz. con commenti di E. Dias, di A. Epifahanio. Vedi: Barbosa de Rettencourt, Subsidios para a leitura dos Lusiadas. Segnaliamo la prima ediz. delle liriche: Rhytmas de L. de C., divididas em cinco partes, Lisbona 1585, altre otto ediz. sino al 1880. Sempre consultabile, anche per gli ampî commenti e le riflessioni sulla paternità dubbia di molte liriche, l'ediz. tedesca di W. Storck (che studiò C. per tutta la vita); L. de C. Sämmtliche Gedichte. Zum ersten Male deutsch, Paderborn 1880 seg., voll. 6. Prime stampe del Filodemo e dell'Amphitriões, in Primeira parte dos Autos e Comedias Portuguesas feitas por Antonio Prestes, e por Luis de Camões, e outros auctores portuguezes, por A. Lobato, Lisbona 1587.
Ricordiamo di sfuggita le vecchie biografie, sempre fantastiche, del Mariz, del Corrêa, del Severim, del Faria e Sousa. Studî più coscienziosi inizia nella 2ª metà dell'800 il Juromenha. Seguirono le biografie di T. Braga, C. vida e obras, nuova ed., Porto 1907 (e si veda del laboriosissimo Braga, la Historia de C., I: Vida de L. de C., Porto 1873; II: Eschola de C., Porto 1874, voll. 2); R. F. Burton, C. His life and his Lusiads, Londra 1881, voll. 2; l'ampia biografia dello Storck, tutta intessuta di sottili congetture, si dovrà leggere nella trad. port. curata da C. Michaëlis de Vasconcellos, Vida e Obras de L. de C., Lisbona 1898. Si vedano le storie letterarie più coscienziose: T. Braga, Historia da litteratura portguguesa, Camões (A obra lyrica e epica), Porto 1911 (nuova ed., Porto 1919); F. de Figueiredo, Historia da Litteratura classica, 1ª Epocha, 2ª ed., Lisbona 1922 (cap. su Camões, pp. 247-292; buone particolarmente le pagine dedicate alla lirica).
Tra i saggi sul C. notevole quello del Reinhardstoettner (del 1881), ottimo quello di H. Schuchardt, in Romanisches und Keltisches, Berlino 1886, pp. 84-102. E vedi: C. Castello Branco, L. de C., Porto 1886; J.M. Latino Coelho, L. de C., Porto 1880; J. P. Oliveira Martins, C., os Lusiadas e a Renascença, Porto 1891 (notevole); conferenze del brasiliano J. Nabuco, Camões e os Lusiadas (svolte negli Stati Uniti nel 1920, trad. in port. da A. Bomilcar); J. Mendes dos Remedios, Camões e o ideal da sua obra, Coimbra 1923; C. Poeta da Fé, Coimbra 1924 (considerevoli entrambi gli studî); J. M. Rodrigues, Fontes dos Lusiadas, in O Instituto, LI-LX (1904-1913); id., C. e a Infanta D. Maria, Combra 1910: A. de Campos, Camões lirico, in Antologia portuguesa, 1921; L. Pereira da Silva, Astronomia dos Lusiadas, in Rev. da Univ. de Coimbra, 1915; id., A concepção cosmologica nos "Lusiadas", in Lusitania, 1925, p. 263 segg.; J. de Carvalho, Estudos sobre as leituras filosoficas de C., in Lusitania, 1925, pp. 215-253.
Fra le traduzioni delle Lusiadas (ve ne sono in tutte le lingue, parecchie anche in latino), notevoli quelle inglesi del Mickle e del Burton, quella tedesca dello Storck. Ricordiamo le traduz. ital. del Paggi (risale alla metà del '600), del Nervi, del Carrer, del Bellotti, del Peragallo (di lui è pure una versione delle Liriche, del 1892); quella francese più recente di Le Gentil, C., introd., traduction et notes, Parigi 1923.
Si veda J. de Vasconcellos, Camões en Allemanha, Porto 1880; l'appendice dello Storck alla sua versione delle Liriche: C. in Deutschland, Paderborn 1881; e J.-J. Bertrand, C. en Allemagne, in Rev. de littér. comparée, 1925, p. 246 segg.
Pubblicazioni della Sociedade de estudos camonianos, Rio de Janeiro, 1924: A. Peiscoto e P. A. Pinto, Dicionario dos Lusiadas; P. A. Pinto, A margem dos "Lusiadas"; id., A medicina dos "Lusiadas"; P. A. Pinto e A. Peiscoto, Camonologia ou os estudos camonianos; Os Lusiadas (nuova ed. del poema). Per le imitazioni del C. di Orazio v. M. Menéndez y Pelayo, Horacio en España, II, Madrid 1885, p. 317 seg.; sulla malinconia del C., v. C. Michaëlis de Vasconcellos, A Saudade Portuguesa, Porto 1913, cap. 1°, note 1-3.