LUMINOSITÀ DEI CORPI CELESTI
. L'intensità luminosa degli astri fu oggetto di studio anche presso gli antichi astronomi, i quali però si limitarono a dividere le stelle in sei classi di grandezze, ascrivendo alla prima classe le più brillanti e alla sesta quelle appena percettibili all'occhio umano, e a paragonare con queste grandezze stellari le intensità luminose variabili dei pianeti. Con la scoperta del cannocchiale e con l'uso di altri strumenti sussidiarî dell'occhio, lo studio della luminosità dei corpi celesti si estese sempre più e si rivolse alla misura precisa di detta luminosità, facendo sorgere quell'importante ramo dell'astrofisica che è detta fotometria astronomica. Quando poi, in epoca più recente, si trovarono strumenti e sostanze sensibili ad altre radiazioni non percettibili all'occhio, la fotometria astronomica acquistò un significato più vasto, proponendosi di studiare e di misurare le intensità delle varie radiazioni, visibili e non visibili, che ci arrivano dagli astri. Appunto dal modo secondo il quale le dette radiazioni si rivelano ai nostri mezzi d'indagine la fotometria astronomica prende i seguenti nomi:1. Fotometria visuale, fondata sull'azione fisiologica delle radiazioni sul nostro occhio; è la fotometria propriamente detta, di antica origine, e che fino ad oggi ha dato i maggiori risultati. - 2. Fotometria fotografica, fondata sull'azione chimica delle radiazioni sulle sostanze che costituiscono lo strato sensibile della lastra fotografica; è presentemente molto applicata, perché assai comoda e specialmente adatta per corpi celesti di debole luminosità. Se la lastra fotografica con opportuni dispositivi è posta nelle identiche condizioni dell'occhio umano, in maniera da essere impressionabile dalle radiazioni visibili, si ha la fotometria fotovisuale. - 3. Fotometria fotoelettrica, fondata sulla variabilità della resistenza elettrica del selenio cristallizzato con la quantità di luce che esso riceve o sulla proprietà che hanno alcuni metalli alcalini di emettere elettroni quando sono colpiti dalle radiazioni luminose; è la fotometria che permette la massima precisione, ma non si può applicare a stelle di debole splendore. - 4. Fotometria spettrale, che studia la distribuzione relativa dell'intensità delle singole radiazioni entro lo spettro di un medesimo astro, oppure il rapporto tra le intensità di una stessa radiazione o di una stessa regione spettrale per due stelle; essa può essere tanto visuale quanto fotografica. - 5. Infine, più largamente, possiamo ritenere appartenente alla fotometria anche la radiometria, che si propone di misurare tutta l'energia radiante che giunge da un astro e si serve quindi di strumenti sensibili a tutte le radiazioni, mentre l'occhio umano, la lastra fotografica e le celle fotoelettriche sono più o meno selettivi, cioè sensibili solo a limitate regioni dello spettro.
Prima di trattare questi varî rami sperimentali della fotometria celeste accenneremo a qualche nozione di carattere teorico che serve di fondamento alle corrispondenti misure astronomiche e alle deduzioni che da queste si possono trarre. Osserveremo in primo luogo che le grandezze o le intensità di radiazioni che vengono misurate non sono quelle intrinseche degli astri, ma quelle percepite dall'osservatore nel suo momentaneo luogo di osservazione. Per le stelle le variazioni delle loro distanze sono così piccole di fronte alle distanze stesse che le loro intensità luminose non si possono ritenere variabili per i movimenti loro e per quello della Terra; le variazioni di luminosità che si notano per numerose stelle si devono dunque ascrivere a variazioni effettive della luce da queste emessa o ad altre cause intrinseche che su essa influiscono, e tali stelle si dicono quindi variabili; il loro studio costituisce un campo particolare della moderna astrofisica. Per la Luna, per i pianeti e per le comete, che ci rimandano la luce a essi inviata dal Sole, l'intensità luminosa che percepiamo e misuriamo, varia con la loro distanza dalla Terra, con la loro distanza dal Sole, con la loro fase, cioè con il rapporto fra la superficie illuminata visibile dalla Terra e l'intera superficie illuminata, e dipende inoltre dalle dimensioni dell'astro e dalla sua albedo, rapporto fra la quantità di luce che la superficie illuminata diffonde e la quantità totale di luce che essa riceve. Con la conoscenza dei primi dati e con l'ausilio di opportune leggi sul comportamento della luce incidente e diffusa in relazione all'angolo d'incidenza e di emissione, le misure fotometriche possono dare la misura dell'albedo, da cui si può trarre qualche deduzione sulla struttura superficiale di questi astri. Per questi corpi celesti e anche per quelli di per sé stessi luminosi, ma aventi una certa estensione, come il Sole e le nebulose, occorre distinguere l'intensità luminosa totale da quella unitaria, che arriva cioè dall'unità di superficie e preferibilmente dall'unità apparente, cioè dalla superficie compresa entro un angolo solido unitario; in questo caso l'intensità luminosa unitaria non varia col variare della distanza dell'astro.
Un fenomeno che modifica l'intensità luminosa che ci perviene dagli astri è l'estinzione atmosferica, cioè l'indebolimento della luce da parte dell'atmosfera terrestre; essa è minima allo zenit e va crescendo quanto più l'astro se ne allontana e si approssima quindi all'orizzonte, poiché diventa sempre più lungo il tragitto luminoso entro l'atmosfera. Misure opportune permettono di determinare come varia la frazione di luce trattenuta dall'aria alle differenti altezze sull'orizzonte e quindi di ridurre i risultati delle misure a quelli che si otterrebbero se l'astro fosse allo zenit. A piccole altezze l'assorbimento della luce diviene però troppo sensibile e variabile con le condizioni di trasparenza dell'aria per la presenza di pulviscolo e di vapore acqueo; inoltre l'assorbimento si manifesta più fortemente sui raggi che hanno minore lunghezza d'onda e anche la colorazione viene modificata; le misure fotometriche (come le misure di posizione in causa dell'analogo effetto di rifrazione) vengono quindi evitate quando gli astri sono prossimi all'orizzonte.
Grandezze stellari. - La suddivisione delle stelle fatta dagli antichi astronomi, e particolarmente da Ipparco e da Tolomeo, in sei classi di grandezze è appoggiata esclusivamente sull'impressione visiva; e precisamente si riconosce che, dalle stelle d'una classe a quelle della classe successiva, la differenza di sensazione sull'occhio è grossolanamente costante. A partire dal secolo XVII lo stesso principio servì ad estendere la scala anche alle stelle visibili soltanto nei cannocchiali, e un notevolissimo esempio si ebbe alla metà del secolo scorso con la Bonner Durchmusterung, famoso catalogo stellare dovuto all'Argelander e completato dallo Schönfeld, contenente la posizione approssimata e la grandezza di circa 458.000 stelle e precisamente di tutte quelle dalla 1ª alla 9ª grandezza situate nell'emisfero boreale e in quello australe fino a 23° sotto l'equatore. Anche in questa prosecuzione della scala si seguirono procedimenti empirici; un procedimento più razionale poté essere introdotto soltanto dopo il 1850, quando venne enunciata dal Fechner la sua legge psicofisica, secondo la quale la variazione nella sensazione provata dall'uomo sotto l'azione d'una grandezza variabile accessibile ai suoi sensi è proporzionale non alla variazione di questa grandezza, bensì al rapporto di tale variazione al valore della grandezza, cosicché se la sensazione cresce in progressione aritmetica, lo stimolo che la produce deve crescere in progressione geometrica, o in altre parole la sensazione è proporzionale al logaritmo dello stimolo. Un esame accurato di tutte le grandezze stellari stimate da Ipparco ad Argelander rivela infatti che la divisione delle stelle è avvenuta inconsciamente in maniera che due classi successive presentano approssimatamente il rapporto di intensità luminosa 2,5; così ad es. una stella di 6ª grandezza è 2,5, 2,52, 2,53... volte più debole di una stella di 5ª, di 4ª, di 3ª... grandezza e, se fra due stelle vi è la differenza di 5 grandezze, il rapporto delle intensità luminose è 2,55, cioè circa 98. Poiché il valore 2,5 è soltanto approssimato, il Pogson ha suggerito di stabilire che due stelle si debbano dire differenti di splendore per una grandezza esatta quando il rapporto delle loro intensità luminose è 2,512..., la cui 5ª potenza è esattamente 100 e il cui logaritmo è esattamente 0,4. Perciò se I e I0 sono le intensità luminose di due stelle qualunque ed m, m0 le loro grandezze, vale la formula
a proposito della quale è da notarsi che numeri crescenti per le grandezze corrispondono a valori decrescenti d'intensità luminosa. Quando opportuni strumenti consentano di valutare il rapporto I:I0, la precedente formula di Pogson permette di definire rigorosamente, anche con numeri frazionarî, la grandezza d'un qualsiasi astro, purché sia nota quella m0 d'un astro campione. Si conviene oggi di assumere come tale la Stella Polare e di attribuirle la grandezza 2, 12, valore scelto in modo da mettere nel miglior accordo possibile le grandezze teoriche fondate sulla formula di Pogson e quelle empiriche stimate da Argelander. La grandezza 1,0 viene così a corrispondere alla luminosità media delle venti stelle più brillanti del cielo; esse sono ben lungi dall'avere eguale splendore e alla più luminosa di tutte, Sirio, di prima grandezza nel senso vago degli antichi, compete invece con le misure moderne e con la formula teorica il valore negativo -1,58. Similmente sono negative le grandezze di Giove e di Venere; e, quando si paragoni tutta l'intensità luminosa della Luna piena e del Sole con quella di una stella, si ottengono rispettivamente per la grandezza dei due maggiori astri i valori negativi −13 e −27 circa.
Come s'è detto, le grandezze delle stelle non misurano la quantità di luce emessa da questi astri, ma quella che noi riceviamo; per le stelle di cui si conosce la distanza può essere però calcolata la grandezza che esse avrebbero se fossero portate tutte a una medesima e determinata distanza dalla Terra: è questa la grandezza assoluta e per contrapposto si dice allora grandezza apparente quella che risulta direttamente dalle osservazioni.
La formula di Pogson è stata estesa anche ai risultati delle misure fotografiche e di quelle radiometriche e le grandezze stellari si distinguono quindi in visuali, o fotografiche, o bolometriche a seconda che le radiazioni si riferiscono alla regione visibile dello spettro, o a quella fotografica, o allo spettro intero. La differenza: grandezza fotografica meno grandezza visuale si dice indice del colore, dipendendo essenzialmente dal colore della stella, ed è tanto maggiore quanto più una stella tende al rosso, essendo la lastra fotografica meno impressionabile da questo colore e risultando quindi la corrispondente grandezza numericamente maggiore; analogamente la differenza: grandezza visuale meno grandezza bolometrica, crescendo con l'intensificazione delle radiazioni calorifiche non agenti sull'occhio, si dice indice del calore.
Metodi e strumenti usati per le misure fotometriche celesti. - Il metodo più semplice della fotometria visuale è quello di far servire direttamente l'occhio a stimare le grandezze stellari; basta per questo scopo che l'osservatore, con sufficiente esercizio, sia riuscito a imprimersi nella mente l'intensità luminosa corrispondente alle successive grandezze, quali sono fissate in seguito alle osservazioni antiche e moderne. Ma a stima diretta è troppo difficile apprezzare le frazioni decimali di grandezza e troppo incerto il proseguire la scala verso le stelle più deboli, visibili soltanto nei cannocchiali più potenti.
Il metodo ottico diretto, applicato in larga scala già da Argelander, può dare invece risultati di notevole precisione quando già si conoscano le grandezze di certe stelle e si vogliano determinare quelle di certe altre mediante confronti, ciascuno dei quali sia fatto tra stelle di splendore assai poco dissimile. Così nello studio delle stelle variabili viene data, o formata dall'osservatore stesso, una sequenza di stelle, cioè una serie di stelle situate in vicinanza della variabile e ordinate secondo le loro luminosità espresse in grandezze o in altra scala arbitraria, e volta a volta l'osservatore determina fra quali due stelle consecutive della serie è compresa l'intensità luminosa della variabile al momento dell'osservazione e in che relazione essa sia con le intensità di quelle due. Il procedimento è usato anche oggi da qualche astronomo di professione e da un largo stuolo di astronomi dilettanti.
Quando però si voglia far servire la formula di Pogson all'effettiva determinazione della differenza fra le grandezze di due astri sono necessarî strumenti, detti fotometri, destinati a far variare in modo misurabile l'intensità luminosa dell'uno o dell'altro dei due corpi celesti o quella di un'opportuna sorgente di luce con cui essi vengano confrontati, per modo che l'occhio debba soltanto apprezzare quando le intensità luminose che osserva sono divenute eguali. Poiché l'occhio può percepire anche minime differenze di luminosità, un metodo siffatto di misura conduce a risultati molto precisi. Generalmente il fotometro è dotato di un apparato riduttore, il quale serve a diminuire lo splendore dell'oggetto più luminoso da confrontare, fino a renderlo eguale allo splendore dell'oggetto meno luminoso; talvolta viene invece seguito il metodo di completa estinzione che consiste nell'indebolire, l'uno indipendentemente dall'altro, i due oggetti luminosi da confrontare, fino a quando l'occhio cessa di vederli.
Per ridurre l'intensità luminosa di una sorgente, la luce può essere fatta passare attraverso a diaframmi, o attraverso un mezzo assorbente, o attraverso un analizzatore dopo essere stata polarizzata. Il metodo dei diaframmi (a iride o a settori) di apertura variabile e misurabile, collocati davanti all'obiettivo o anche nell'interno del cannocchiale, non è molto preciso ed è oggi quasi completamente abbandonato. Il metodo dell'assorbimento della luce è seguito già da lungo tempo nella fotometria celeste. Nella forma primitiva si mettevano insieme tante lastre di vetro o di corno oppure carte oleate, finché non passava più luce; e dal numero delle lastre o delle carte si calcolava grossolanamente l'intensità luminosa. Presentemente si usano cunei di vetro, cosiddetto affumicato o a tinta neutra, cioè tale da assorbire in eguale rapporto tutti i raggi visuali senza alterare il colore della sorgente luminosa. Un tale cuneo a (fig.1) di spessore uniformemente e lentamente crescente (accoppiato a un secondo cuneo b trasparente disposto in senso inverso, così da impedire fenomeni di deviazione e dispersione dei raggi) serve molto bene quale apparecchio assorbente misuratore in quanto che la parte di luce che esso assorbe lungo una sezione parallela al suo spigolo, valutata in grandezze stellari, è proporzionale allo spessore del cuneo in detta sezione e quindi anche alla distanza l di detta sezione dallo spigolo, distanza che viene facilmente letta su apposita scala o meglio impressa con speciale meccanismo su una striscia di carta scorrevole. In luogo di cunei di vetro neutro, si possono anche usare cunei fotografici consistenti in una lastra rettangolare oblunga, impressionata e sviluppata gradatamente da una estremità all'altra, per modo che il suo annerimento e quindi il potere assorbente aumentino proporzionalmente alla distanza da un estremo. Con il dispositivo registratore della lettura della scala l'occhio non è turbato da luci estranee a quelle che deve osservare al cannocchiale a cui il fotometro viene applicato, e il fotometro riesce di costruzione assai semplice quando si usi il metodo di estinzione applicato alla stella di grandezza ignota e a una stella di confronto di grandezza nota.
Il terzo metodo di riduzione dell'intensità luminosa di una sorgente consiste generalmente nell'applicazione di due prismi di Nicol A e B l'uno girevole intorno all'asse secondo il quale si propaga la luce, l'altro fisso (fig. 2), destinati, il primo, a lasciar passare soltanto un raggio di luce polarizzata, il secondo, a ridurne l'intensità secondo la legge di Malus e cioè proporzionalmente al cos2 a, essendo a l'angolo mutuo dei due prismi, che può essere letto su apposito cerchio graduato D. Nel fotometro di Zöllner questo dispositivo è interposto nel tragitto dei raggi provenienti da un piccolo foro O, illuminato da una luce artificiale, ed è applicato lateralmente al tubo del cannocchiale presso l'oculare. Un sistema di lenti dà del foro un'immagine puntiforme che, attraverso l'oculare, si vede riflessa dalle due facce parallele di una lastra di vetro E, inclinata di 45° sia sul tragitto dei raggi, sia sull'asse del cannocchiale, mentre attraverso questa lastra, per trasparenza, si vede l'immagine della stella in esame, data dall'obiettivo. Con la rotazione del Nicol A le due immagini della stellina artificiale vengono ridotte d'intensità pari a quella dell'immagine della stella nota.
L'uso della stellina artificiale serve anche con il fotometro a cuneo; questo può venire inserito o nel tragitto dei raggi della stellina artificiale, al posto del Nicol, o nel tragitto dei raggi provenienti dall'obiettivo. Nel fotometro meridiano di E.C. Pickering e in altri, in luogo di una stellina artificiale, vengono mandati nel cannocchiale, mediante uno specchio o un prisma a riflessione totale, posti davanti all'obiettivo, i raggi provenienti da una stella campione, generalmente scelta in vicinanza del polo.
Uno dei più gravi inconvenienti della fotometria visuale deriva dalla diversità di colore delle sorgenti di luce che si devono confrontare, in causa del fenomeno di Purkinje, d'ordine fisiologico, per effetto del quale, se due sorgenti di luce, una ad es., azzurra, l'altra rossa, sembrano egualmente brillanti, la prima appare più luminosa della seconda quando entrambe siano ridotte più deboli nello stesso rapporto; in causa dello stesso fenomeno gli oggetti luminosi molto deboli hanno la tendenza ad apparire leggermente azzurri. Per questa ragione alcuni fotometri comprendono anche un apparato colorimetrico, o costituito da semplici filtri di luce cambiabili a volontà, o, come nel fotometro di Zollner, da un Nicol C e da una lamina di quarzo Q, la quale fa ruotare la luce polarizzata uscente da C di angoli differenti secondo la varia lunghezza d'onda, per modo che facendo girare attorno all'asse il sistema costituito da C e da Q, il Nicol A lascia passare luce variamente colorata.
La fotometria fotografica è fondata sulla diversa impressione che i raggi luminosi, provenienti da stelle di diverso splendore, determinano su una lastra fotografica posta nel fuoco (o in prossimità del fuoco) dell'obiettivo o dello specchio che li ha raccolti. Quando la lastra è nel fuoco, le immagini stellari si presentano come dischi di diametro e di annerimento tanto maggiori quanto maggiore è la luminosità delle stelle. Pertanto i metodi della fotometria fotografica consistono nel misurare o il grado di annerimento o il diametro delle immagini stellari. Malgrado varî fenomeni che intervengono a complicare l'azione della luce sulla lastra fotografica, opportune ricerche, fatte ad es. fotografando su una stessa lastra la medesima stella con tempi di posa diversi o usufruendo di particolari dispositivi, permettono di riconoscere come varia il diametro e rispettivamente l'annerimento delle immagini con l'intensità della luce che le ha prodotte e quindi con la grandezza della stella, e permettono in conseguenza di determinare, con la misura dei diametri stellari, o con la misura degli annerimenti, la grandezza fotografica delle varie stelle, dopo aver fissato l'origine delle grandezze. La misura dei diametri stellari viene eseguita con un qualunque microscopio munito di scala graduata; la misura del grado di annerimento viene compiuta per confronto fra le immagini stellari e una scala opportuna già preparata con pose crescenti in ragione geometrica, o anche arbitraria, come può essere ad es. un cuneo fotografico, del quale però sia stata preventivamente determinata la costante che serve a tradurre l'annerimento del cuneo in grandezze.
In questo secondo metodo, poiché l'annerimento delle immagini prese nel fuoco del cannocchiale non è omogeneo, si preferisce prendere la fotografia con la lastra a qualche distanza dal piano focale, nel qual caso le immagini diventano dischi più ampî, tutti di eguale diametro, oppure con pose focali, ma imprimendo alla lastra un leggiero movimento continuo in due direzioni perpendicolari, nel qual caso le immagini diventano piccoli rettangoli: in tutti e due i casi, dischi o rettangoli risultano uniformemente anneriti e il confronto con la scala campione diviene più facile e sicuro.
Per tale confronto si usano speciali apparecchi, detti microfotometri comparatori, che hanno lo scopo di far vedere contemporaneamente, e accostate, l'immagine stellare e una piccola porzione del cuneo che fornisce la scala delle grandezze; questo viene inserito più o meno, fino a quando l'annerimento dell'immagine e del cuneo appaiono eguali; lo spostamento del cuneo determina allora la grandezza della stella esaminata.
La fotometria fotovisuale non differisce da quella fotografica che per l'uso di filtri o la scelta particolare delle lastre, così che queste restino impressionate dalle stesse radiazioni che impressionano l'occhio.
Nei metodi fin qui descritti è sempre l'occhio che in ultima analisi dà il giudizio, sia direttamente sull'oggetto osservato, sia attraverso la lastra fotografica. Le numerose fonti di errore di natura fisiologica e il desiderio di raggiungere una precisione sempre maggiore hanno indotto i fisici a ricercare altri metodi, nei quali fosse eliminato completamente l'ufficio dell'occhio. Tali sono i metodi fotoelettrici, i quali sono basati o sull'aumento di conducibilità elettrica del selenio (e di qualche altra sostanza) sotto l'influenza della luce, o sulla proprietà di molte sostanze principalmente dei metalli alcalini, di emettere, quando sono colpiti dalla luce, particelle elettriche negative che vanno a posarsi sui conduttori circostanti. Nel primo caso s'inserisce, in un circuito di corrente selenio opportunamente preparato e disposto nella cosiddetta cella al selenio; si fa agire su questa l'immagine focale o estrafocale di una stella e si misura la variazione di resistenza con un ponte di Wheatstone. Quanto minore diventa la resistenza della cella sotto l'effetto della luce, tanto maggiore è la luminosità dell'astro esaminato, si ha cioè proporzionalità tra intensità luminosa e conducibilità. Nel secondo caso si espone alla luce uno strato sottile di sodio o di potassio, ecc., disposto in un recipiente di vetro - cella fotoelettrica - e si misura con un elettrometro sensibilissimo la carica negativa che viene a portarsi in un determinato tempo su un conduttore posto davanti allo strato emittente, o in altre parole si misura la corrente generata dall'azione della luce (fotocorrente). Qui l'intensità luminosa incidente sulla cella è proporzionale al numero degli elettroni emessi nell'unità di tempo, cioè all'intensità della fotocorrente, e quindi la grandezza stellare può venire dedotta dalla misura all'elettrometro. L'applicazione pratica della cella al selenio alle misure celesti presenta varie difficoltà, tra le qual fenomeni di stanchezza della cella e una forte sensibilità di tutto l'apparecchio alla temperatura; inoltre la cella al selenio può essere applicata soltanto a stelle molto luminose. Per questi motivi la fotometria al selenio viene sempre più sostituita da quella fatta con le celle fotoelettriche, la quale è stata portata negli ultimi tempi a tale sensibilità da essere di molto superiore a qualunque altro metodo fotometrico. La cella fotoelettrica viene applicata anche alla fotometria delle lastre fotografiche. Nei microfotometri, che la utilizzano, un sottile fascio di luce, proiettato sulla lastra fotografica, l'attraversa restando più o meno indebolito secondo il grado di annerimento e colpisce una cella fotoelettrica congiunta con un elettrometro. Spostando la lastra in esame rispetto al fascio di luce, questo verrà ad attraversare successivamente i diversi punti di una striscia parallela alla direzione di movimento della lastra, e le deviazioni dell'indice dell'elettrometro, ingrandite fortemente e registrate fotograficamente su una lastra mobile insieme con quella in esame, daranno il grado di annerimento dei diversi punti della striscia illuminata.
Un microfotometro registratore di tal genere è particolarmente adatto nella fotometria spettrale, quando si sia ottenuta la fotografia dello spettro di una stella. Questo ramo della fotometria si giova del resto dei procedimenti di osservazione sia visuali, sia fotografici, sia fotoelettrici, e soltanto ha bisogno o di filtri selettori per isolare e studiare le radiazioni di una particolare regione dello spettro, o meglio di un sistema spettroscopico che fornisca l'intero spettro e permetta all'osservatore di applicare alle singole parti di esso le misure fotometriche che più convengono.
Accenneremo infine che, per rivelare e studiare la totalità delle radiazioni che ci pervengono dagli astri, la radiometria celeste è riuscita a servirsi in epoca recente, anche per le stelle, di strumenti ben noti della fisica, come il bolometro, il radiometro a palette, la pila termoelettrica, ma che essi devono essere di una sensibilità straordinaria al fine di rendere apprezzabili le minime quantità di energia che possono essere fornite dall'immagine focale di una stella, anche se l'obiettivo o lo specchio che l'hanno prodotta sono di notevoli dimensioni. Così il filamento di quarzo, le palette di mica e il piccolo specchio che costituiscono il radiometro usato dal Nichols hanno un peso complessivo di pochi milligrammi; la pila termoelettrica impiegata dal Coblentz è costituita da una sola coppia, straordinariamente piccola, dell'ordine di o,2 mm. di diametro, al fine di diminuire la capacità calorifica; gli apparecchi sono inoltre racchiusi in ampolle a vuoto e, nel caso del bolometro e della coppia termoelettrica, sono collegati a galvanometri di estrema sensibilità.
Bibl.: G. Armellini, trattato di astronomia siderale, I, Bologna 1928, p. 103 e seg.; J. Bosler, Astrophysique, Parigi 1928; Handbuch der Astrophysik, Berlino II, 1, 1929; II, ii, 1931.