LURAGO (Luraghi, Loraghi, de Lurago)
Sotto questo cognome, da mettere verosimilmente in relazione a un toponimo, sono noti alcuni architetti, stuccatori e lapicidi - appartenenti a una o più probabilmente diverse famiglie -, attivi tra la metà del XVI secolo e la fine del XVIII in Italia (Genova e Modena) e in altri luoghi d'Europa (prevalentemente Praga e Passavia) e originari di Pellio Superiore nella Valle d'Intelvi, nell'attuale provincia di Como.
I fratelli Rocco e Giovanni, figli di Anselmo, lavorarono soprattutto a Genova (per le notizie sulla loro attività si veda Poleggi, 1968, cui si rimanda dove non altrimenti indicato), a capo, in particolare Giovanni, di una bottega specializzata nella fornitura e posa in opera di materiale lapideo lavorato e di elementi architettonici scolpiti, destinati alle numerose fabbriche che caratterizzarono il volto della città nel corso della seconda metà del Cinquecento.
Rocco risulta attivo dal 1558 quando, in marzo, il fratello prese in affitto anche a suo nome una bottega a Ripa. Al di là di questo, a documentare l'attività di Rocco a Genova resta ben poco: risulta infatti coinvolto nella fornitura di pilastri, cornici e balaustre in pietra di Finale per la chiesa di S. Pietro in Banchi, eretta tra il 1581 e il 1583 (La scultura a Genova, II, p. 47), e di marmi per i loggiati e le balaustrate della recinzione verso il mare della villa di Giovanni Andrea Doria a Fassolo secondo i disegni di Giovanni Ponzelli e Giuseppe Forlano (23 sett. 1583). Da Soprani (1768) in avanti Rocco è stato ritenuto tra i progettisti del complesso (chiesa e convento) di S. Croce voluto da Pio V a Bosco Marengo, vicino ad Alessandria, ed edificato a partire dalla fine degli anni Sessanta; il suo ruolo è stato tuttavia giustamente, e da tempo, ridimensionato e ricondotto a quello di tagliapietra, riconoscendogli al limite una responsabilità nella realizzazione di un modello (perduto) eseguito su disegno altrui, forse di Giovanni Lippi, altrimenti noto come Nanni di Baccio Bigio. Morì a Genova "intorno all'anno 1590" (Soprani). Del 1597 è l'epitaffio nella chiesa di Nostra Signora del Carmine, posto sul monumento funebre voluto dai suoi eredi (Cavarocchi, 1983, p. 79). Suo allievo fu il nipote Tommaso Orsolino, nato dal matrimonio tra la figlia Concordia e Antonio di Giovanni (La scultura a Genova, II, p. 73).
Di Giovanni non sono note le date di nascita e di morte. Il suo ruolo di "piccapietra" o "marmorarius", spesso in società con altri lapicidi (anzitutto Pietro Maria de Lanzo), è saldamente documentato tra il 1548 - quando insieme con Taddeo Orsolino promise di lavorare alla villa di Luca Giustiniani (oggi Cambiaso) ad Albaro, sotto la direzione di Alessi - e il 1571, anno in cui, nell'agosto, vendette al fratello materiali lapidei della propria bottega. In più di un ventennio fu coinvolto in numerosi cantieri cittadini, a partire da quelli volti alla costruzione delle residenze signorili sulla strada Nuova.
Il 25 febbr. 1559 stipulava il contratto per la fornitura completa di pietre, comprese quelle del paramento a bugnato, per le facciate del palazzo di Agostino Pallavicino (ora Cambiaso) sulla base del prezzo stabilito dal "capo d'opera" Bernardo Cantone. Nel 1564 si impegnava a consegnare sedici colonne per la residenza di Giovanni Battista Spinola (ora Doria) secondo il disegno di Giovanni Battista Castello; mentre nell'estate del 1568 è attestata la sua "promissio" per una grossa partita di pietre di Finale destinate al palazzo di Nicolò Grimaldi (ora Doria Tursi, municipio) e in particolare all'imponente zoccolo della facciata, così come prevedeva il progetto di Giovanni Ponzelli. Legata ai lavori della strada Nuova è anche la sistemazione della fontana Marosa (distrutta), per la quale Giovanni il 7 giugno 1558 si impegnò con l'Ufficio dei Padri del Comune a fornire la nuova veste in pietra di Finale.
A conferma dell'attività della bottega di Giovanni, eletto console dell'arte dei maestri antelami il 6 nov. 1560, sta una serie di notizie che lo vede impegnato per committenti anche molto influenti. Tra di essi Franco Lercari che, essendosi visto riconoscere la possibilità di trasformare in cappella di famiglia l'abside sinistra della chiesa di S. Lorenzo, coinvolse nella sua ristrutturazione e decorazione importanti artisti come Luca Cambiaso e lo stesso Castello e i "piccapietra" più affidabili: Giovanni fu coinvolto nell'impresa almeno dall'aprile del 1560 e nel giugno del 1567 si impegnò con Lercari nella fornitura del pavimento, la cui esecuzione fu affidata nel novembre ad Antonio Galleto su suo disegno.
A ciò si aggiungono la partecipazione alla ricostruzione della chiesa di S. Ambrogio (22 febbr. 1549), alla ristrutturazione della "Casaccia" appartenente alla Società dei disciplinanti di S. Antonino (19 nov. 1565) e all'edificazione della residenza per Agostino De Franchi (24 dic. 1565); la fornitura di colonne per i palazzi di Bartolomeo Lomellino a Vallechiara (22 giugno 1566), di Giovanni Andrea Doria per il giardino di Fassolo (4 dic. 1566) e di Daniele Spinola a Sampierdarena (1569: La scultura a Genova, II, p. 79); il coinvolgimento nella sistemazione della piazza e della villa, pure a Sampierdarena, di Battista Grimaldi (7 sett. 1568) e nella costruzione e arredo della cappella Centurione nella distrutta chiesa di S. Caterina (15 giugno 1565).
A Modena furono invece attivi i fratelli Tommaso e Antonio, nati a Pellio da Giovanni Antonio e da Margherita di Anselmo, la cui appartenenza alla medesima famiglia dei lapicidi attivi a Genova non è dimostrabile. Essi risultano essere stati impegnati in qualità di soprintendenti e architetti ducali nei cantieri aperti dagli Este nel corso del Seicento, ruolo che per il più anziano Tommaso forse poté essere mediato indirettamente dal fratello Carlo, architetto imperiale a Praga, e dal modenese principe Raimondo Montecuccoli, generale al servizio della corte imperiale e responsabile dell'opera di fortificazione della città che vide impegnato lo stesso Carlo.
Tommaso nacque il 9 dic. 1608. La sua attività è attestata a Modena dal 1638.
Non è però escluso che possa aver avuto avvio a Genova, dove potevano essere ancora attivi eredi di Rocco e Giovanni. Ciò potrebbe essere confortato dalla notizia che nel 1636, il 10 giugno, Tommaso Orsolino e Giovanni Battista Ferrandino stesero l'inventario di una bottega, acquistata dall0 stesso Orsolino e tenuta a metà da un "Tomaso Lurago" e da Lorenzo de Redi (La scultura a Genova, II, p. 78).
Il primo lavoro in città di Tommaso, che risale appunto al 1638, fu la realizzazione dell'altare della cappella di S. Filippo Neri nella chiesa di S. Vincenzo. In questo edificio operò anche negli anni successivi eseguendo il tabernacolo policromo dell'altare maggiore, gravemente danneggiato nel 1944 e in seguito restaurato e ricostruito.
La paternità dell'altare di S. Filippo non è con certezza attestata da fonti, ma il lavoro gli è stato attribuito sulla base di analogie formali con altre opere che, nella stessa chiesa, gli sono ascritte con sicurezza, a cominciare dall'altare, e più precisamente dall'ancona marmorea destinata a ospitare la Madonna e santi di Giovan Francesco Barbieri detto il Guercino (ora su altro altare) nella cappella di S. Gregorio Taumaturgo (oggi S. Vincenzo), per la quale l'11 ag. 1639 sottoscrisse il contratto che stabiliva il compenso in 770 ducatoni fiorentini e i tempi di esecuzione entro un anno. Come si evince dai documenti, a Tommaso spettò il ruolo di coordinamento esecutivo e di direzione generale del cantiere, messo in opera su progetto del romano Bartolomeo Avanzini, oltre al compito dell'acquisto dei materiali costruttivi, della scelta della qualità e della varietà dei marmi e del loro trasporto.
Ancora per S. Vincenzo, il 25 giugno 1645 stipulò il contratto per la costruzione dell'altare nella cappella di S. Giuseppe (oggi della Beata Vergine della Cintola), che, secondo la richiesta della committenza, fu realizzato in continuità stilistica e formale con gli altari già esistenti. Per inquadrare la Trinità terrena e la Trinità celeste di Pierre Laurier (dipinto anch'esso spostato) impiegò il marmo rosso per le colonne, un timpano curvilineo spezzato, pietre colorate e figure scolpite in marmo di Carrara: avuto un primo acconto nel gennaio del 1646, concluse il lavoro in soli due anni. Tommaso ebbe anche la responsabilità esecutiva di un progetto di Avanzini per la realizzazione del tabernacolo policromo dell'altare maggiore, di commissione ducale. Il complesso fu infatti voluto da Francesco I d'Este come monumento funebre per la madre Isabella di Savoia, che aveva espresso il desiderio di essere sepolta nella cappella maggiore di una chiesa teatina. Secondo le disposizioni ducali il tabernacolo al centro della chiesa doveva essere ricco di marmi preziosi, con due statue più grandi del vero dedicate a S. Contardo e al beato Amedeo di Savoia (poi realizzate da Giovanni Lazzoni), e di porte laterali dello stesso marmo del pavimento. La sepoltura di Isabella doveva essere contraddistinta da una lastra marmorea e da un parapetto in marmo per chiudere il presbiterio. Come risulta anche dai primi pagamenti, Tommaso, che per la parte policroma si avvalse della collaborazione di Domenico Baino, iniziò l'opera certamente nel 1649, quando gli fu consegnato il disegno di Avanzini poi rimasto nella sua bottega, secondo un inventario di fine Seicento. Tuttavia, malgrado le pressioni del duca per la conclusione del lavoro nei tempi stabiliti, il contratto non fu rispettato e l'opera fu consegnata solo nel 1672, e dopo la morte dell'artista.
Contemporaneamente agli impegni in S. Vincenzo, Tommaso fu attivo nella chiesa di S. Agostino, prima quale direttore dei lavori nell'allestimento dei sontuosi apparati per le esequie di Francesco I, e in seguito incaricato dell'ornamento in marmo della porta principale d'ingresso, partecipando al cantiere di complessiva ristrutturazione della chiesa costruita nella prima metà del Trecento.
I preparativi per la celebrazione del funerale di Francesco I, morto a Santhià nell'ottobre del 1658, furono avviati su iniziativa di Alfonso IV e coinvolsero un gran numero di architetti, decoratori e artigiani coordinati da Tommaso, che si occupò anche di fornire i materiali costruttivi.
Dal 1650, quando il cantiere prese risolutamente l'avvio, e fino alla morte, Tommaso risulta attivo, insieme con il fratello Antonio, nel lungo lavoro di edificazione della residenza ducale di Modena.
Nel 1659 gli furono consegnate da tagliapietra veronesi le sei colonne della porta maggiore, insieme con le pietre per la sovrastante balaustra. Due anni dopo, nel 1661, ricevette i marmi per realizzare le dodici finestre - per le quali non è escluso che avesse preparato anche un disegno (forse quello conservato presso l'Archivio di Stato di Modena, cfr. Conforti, p. 64) - e il sottostante cornicione del piano nobile della facciata est in corrispondenza dell'appartamento ducale. Le finestre e le sei colonne in pietra accanto al portale maggiore furono collocate nel 1665, quando Tommaso presentò il totale della spesa, che ammontava a 6000 ducatoni in argento. Si occupò tuttavia del controllo complessivo della qualità dei lavori fino alla fine del decennio.
Degno di considerazione è il rapporto di committenza che Tommaso stabilì con la Compagnia di Gesù, rapporto consolidato in seguito da Antonio, cui si deve il progetto di costruzione della chiesa di S. Ignazio a Carpi. Dal 1639 al 1652 la presenza di Tommaso è documentata presso il cantiere della fabbrica della chiesa gesuitica di S. Giorgio a Reggio Emilia: qui fu impegnato nella decorazione scultorea della facciata e nella realizzazione dell'altare della cappella del nobile reggiano Flaminio Ruffini, per il quale Antonio, per conto del fratello, attese dal 1650 alla fornitura di marmi da Venezia e da Verona. Sono inoltre registrati pagamenti a Tommaso e Antonio per l'esecuzione dell'altare della cappella Alamandini, o del Redentore (oggi del Crocifisso), nella chiesa gesuitica di S. Lucia a Bologna, terminati nel 1668 (Foschi).
La storiografia più antica, e Campori in particolare, ricorda anche altri lavori condotti da Tommaso a Modena e dintorni. Tra questi, l'altare, ricco di marmi e di preziose lamine d'argento lavorate, della cappella dedicata a S. Francesco di Paola nella chiesa di S. Barnaba e l'altare maggiore della chiesa di S. Bartolomeo. Il resto si riferisce in parte a interventi in fabbriche nelle quali è documentata un'attività del fratello intorno agli anni Ottanta, dunque ben dopo la morte di Tommaso. Si tratta in particolare dell'esecuzione e decorazione dell'altare con il venerato affresco della Madonna del Popolo nella chiesa di S. Giorgio, collocato intorno al 1668; per la facciata risale invece al 1685 la stipula del contratto da parte di Antonio, che si avvalse nell'impresa della collaborazione di Martino Baino, fratello di Domenico. Accertato dovrebbe essere quanto riportato ancora da Campori circa l'esecuzione, forse su disegno di Avanzini, dell'altare maggiore e degli stucchi a rilievo dei capitelli per il santuario della Beata Vergine del Castello di Fiorano, fabbrica ducale presso la quale Antonio è invece attestato almeno dal 1659 e fino al 1681.
L'ultimo dato noto relativo a Tommaso risale al 20 sett. 1670, anno della morte, e si riferisce a due partite di marmi destinate alla fabbrica della cattedrale di Carpi (Cabassi), cantiere presso il quale fu poi attivo Antonio.
Antonio (Giovanni Antonio secondo il registro battesimale: Cavarocchi, 1963, p. 130) nacque il 27 sett. 1626. Attivo anch'egli a Modena e dal 1650 a fianco del fratello, nel 1654 fu nominato soprintendente generale delle fabbriche del duca. Grazie a ciò seguì per conto di Avanzini, architetto ducale, i lavori nei principali cantieri estensi; alla sua morte, nel 1658, ne assunse la direzione. Oltre che nei palazzi ducali di Modena (dove proseguì, dopo il 1670, anche l'attività del fratello) e Sassuolo (sua è anche la parte inferiore della torre dell'orologio in piazza Garibaldi), nonché nelle chiese modenesi di S. Carlo e S. Giorgio (1685), lavorò al santuario di Fiorano, iniziato nel 1634, costruendo la scalinata d'accesso (1659-69), la torre di destra della facciata e la casa canonica, ma soprintendendo anche alle opere resesi necessarie a seguito dell'incendio del 1670.
A partire dal 1665 sono documentati rapporti con Carpi e con la fabbrica della cattedrale. Nel maggio di quell'anno risulta infatti aver presentato "un suo disegno" (Cabassi) per l'ornamento scultoreo, poi non realizzato, della porta maggiore. Il suo nome è tuttavia legato al cantiere ancora fino al 1680. Nel frattempo, e sempre a Carpi, si era avviato il rapporto con i gesuiti per l'edificazione della loro chiesa, dedicata a S. Ignazio, di cui nel giugno del 1670 si era posta la prima pietra. Quando il 16 apr. 1674 subentrarono nell'impresa, i nuovi capimastri si impegnarono a costruire l'edificio "conforme il disegno del Sig.r Antonio Luraghi" (Ballista - Mundici - Neri, p. 222). Con ogni probabilità la sua presenza presso quel cantiere, conclusosi nel 1682, non fu continua, certo a seguito dei contemporanei impegni presso le altre fabbriche. Tra queste, la facciata di S. Giorgio, alla quale si riferisce l'ultima notizia relativa all'attività di Antonio, datata al 1685, quando generalmente si colloca anche la sua morte. Tuttavia, un lasciapassare datato 24 maggio 1687 del figlio Carlo Antonio lo definisce architetto ducale "in luogo d'Antonio suo Padre Ingegnere molto tempo fà infermo" (Ballista - Mundici - Neri, p. 235), esplicitando da un lato, circa Antonio, una malattia occorsagli già qualche anno prima e l'impedimento a proseguire la propria attività, lasciando dall'altro intendere però che alla data del 1687 non era ancora morto.
A proseguire l'opera di Antonio dovette dunque essere in qualche modo il figlio Carlo Antonio, anch'egli architetto ducale a partire almeno dal 1687; di lui si ignorano le date di nascita e di morte, ma è noto il suo coinvolgimento nel progetto per il santuario della Beata Vergine di San Clemente a Bastiglia, sempre nel Modenese, fabbrica avviata con la posa della prima pietra nel 1690.
Fu in ragione del trasferimento di Carlo, fratello di Tommaso e di Antonio, a Praga che un ramo della famiglia spostò la propria attività nell'Europa centrale: è peraltro solo in tale area geografica che i L., architetti e scultori, continuano a essere documentati, almeno fino alla seconda metà del Settecento.
Carlo, nato a Pellio il 14 dic. 1615, già nel 1638 si trovava certamente a Praga, dove ben presto fu a capo di un'impresa familiare che, attraverso le diverse competenze artistiche, dal campo della progettazione architettonica a quello della decorazione, contribuì in maniera sostanziale alla diffusione in Boemia di uno stile barocco di impronta italiana, e lombarda in particolare. A Praga fu attivo per i gesuiti (chiesa di S. Salvatore, dal 1638, annessa al complesso del collegio gesuitico del Clementinum, per il quale intervenne dal 1654; chiesa di S. Ignazio, dal 1665, oltre all'adiacente collegio, dal 1658) e nelle chiese dei cavalieri di Malta (dal 1640) e di S. Giovanni (dal 1657). Nominato architetto imperiale nel 1648, due anni dopo ebbe dal principe imperiale Ottavio Piccolomini l'incarico di trasformare l'antico castello di Náchod in una residenza signorile. A questo seguì il compito di provvedere alle nuove fortificazioni della città, delle quali era responsabile R. Montecuccoli e i cui lavori proseguirono fino al 1678. Dalla fine del settimo decennio trasferì gran parte della sua attività a Passavia, dove nel 1668 stipulò con il principe vescovo, il conte Wenzel Thun von Hohenstein, il primo contratto per la totale ricostruzione del duomo, distrutto da un incendio. Alternando la sua presenza a Passavia con gli impegni a Praga, per circa vent'anni Carlo seguì i lavori progettando i modelli per le decorazioni a stucco realizzate materialmente da Giovanni Battista Carlone. Morì a Passavia il 12 ott. 1684.
Coinvolti nella sua impresa, ma di non ben accertabile legame di parentela, furono Martino (1623-83), Francesco Anselmo (1634-93) e Domenico Antonio, nato a Pellio il 16 genn. 1638 e attivo con Carlo a Praga, tra l'altro, alla costruzione della chiesa di S. Ignazio per i gesuiti.
La generazione successiva dei L. vide in Boemia Giovanni Antonio e Anselmo Martino. Giovanni Antonio, nato a Pellio il 3 genn. 1653 dal notaio Anselmo (fratello di Carlo, Tommaso e Antonio) e da Maria Maddalena Carlone, nel 1682 era a Praga, dove acquisì il diritto di cittadinanza. Qui fu attivo nella ricostruzione della chiesa di S. Procopio (1689) e nel 1692 divenne capomastro addetto alle fortificazioni della Malá Strana, compito che lo avrebbe tenuto impegnato fino al 1697. Lavorò in seguito alla costruzione del chiostro per il convento degli Hybernati (1704). Morì a Praga il 9 giugno 1727.
Anselmo Martino, l'ultimo artista di rilievo della famiglia ed esponente del rococò a Praga, fu battezzato a Como il 9 genn. 1701. Figlio di Giuseppe Tommaso (fratello di Giovanni Antonio) e di Marsilia Carlone di Scaria, fu affidato giovanissimo allo zio Giovanni Antonio, e lavorò perlopiù a Praga, dove nel 1727 ottenne il diritto di cittadinanza. Dopo un primo periodo al servizio dei conti di Kaunitz a Osow, negli anni Quaranta fu attivo in città alla costruzione del palazzo Sylva-Taroucca e alla ristrutturazione e decorazione degli interni in stile rococò del palazzo Piccolomini sul Graben, al restauro della chiesa abbaziale della Vergine Maria Assunta all'interno del monastero di Strahov e al rifacimento del palazzo Černín. Lavorò poi al completamento della chiesa di S. Tommaso già iniziata dall'amico architetto Kilián Ignác Dientzenhofer, alla costruzione del palazzo Kinský, al campanile della chiesa di S. Nicola nella Malá Strana. Nel frattempo aveva ricevuto la nomina di architetto di corte (6 apr. 1752), a seguito della quale fu impegnato nei lavori di restauro nel castello di Hradčany, proseguendo l'opera già avviata su progetto dell'architetto italiano Nicola Pacassi. Morì a Praga il 29 nov. 1765.
Ebbe due fratellastri, nati dall'unione del padre con Maria Maddalena Allio, dei quali Giovanni Martino (19 febbr. 1719 - 15 dic. 1775) fu attivo principalmente a Passavia, dove realizzò, nel 1749, una decorazione in stucco in stile rococò per la cappella dell'orfanotrofio, già attribuita al fratellastro Anselmo Martino.
Fonti e Bibl.: R. Soprani - C.G. Ratti, Vite de' pittori, scultori ed architetti genovesi, I, Genova 1768, pp. 419 s.; E. Cabassi, Notizie degli artisti carpigiani (1784), a cura di A. Garuti, Modena 1986, pp. 117 s.; G. Campori, Gli artisti italiani e stranieri negli Stati estensi, Modena 1855, pp. 300-302; G. Merzario, I maestri comacini, II, Milano 1893, p. 123; M. Viale Ferrero, La chiesa di S. Croce a Bosco Marengo, Torino 1959, pp. 12 s.; F. Cavarocchi, Le datazioni di Tommaso e Antonio L. artisti intelvesi a Modena, in Arte lombarda, VIII (1963), 1, pp. 130 s.; Id., I L. quali stuccatori, nei secoli XVII e XVIII, Como 1964, pp. 33-48; Id., Artisti della Valle Intelvi e della diocesi comense attivi in Baviera alla luce di carte d'archivio del Ducato di Milano, in Arte lombarda, X (1965), 2, pp. 136-145; V. Naňková, G.B. Alliprandi, architetto di Laino in Valle Intelvi, in Premesse per un repertorio sistematico delle opere e degli artisti della Valle Intelvi. Atti del Convegno, Varenna 1966, a cura di M.L. Gatti Perer, ibid., XI (1966), pp. 215-228; E. Poleggi, Strada Nuova. Una lottizzazione del Cinquecento a Genova, Genova 1968, pp. 417 s. (doc. XVI), 423 s. (doc. XXII), 430 s. (doc. XXVI), 455-458 e ad ind.; F. Cavarocchi, Arte e artisti della Valle Intelvi con note storico-geografiche, San Colombano al Lambro 1983, pp. 78-81, 97-101, 120-122, 132-134, 143; La scultura a Genova e in Liguria, I, Dalle origini al Cinquecento, Genova 1987, ad ind.; II, Dal Seicento al primo Novecento, ibid. 1988, ad ind.; P. Foschi, Le vicende costruttive della chiesa e dei collegi dei padri gesuiti, in S. Lucia. Crescita e rinascimento della chiesa e dei collegi della Compagnia di Gesù: 1623-1988. Storia di una trasformazione urbanistica incompiuta, a cura di R. Scannavini, Bologna 1988, p. 44; D. Ballista - V. Mundici - A. Neri, La chiesa di S. Ignazio di Carpi e l'opera di Antonio Loraghi, in Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le antiche provincie modenesi, s. 11, XVIII (1996), pp. 217-235; C. Conforti, Le pietre del palazzo ducale, in Il palazzo ducale di Modena. Regia mole maior animus, a cura di E. Corradini - E. Garzillo - G. Polidori, Modena 1999, pp. 61, 63-65, 69; La chiesa di S. Vincenzo a Modena. Ecclesia Divi Vincentii, a cura di E. Corradini - E. Garzillo - G. Polidori, Modena 2001, pp. 120, 126, 150-169, 296 (doc. 4), 297 s. (doc. 6), 298 s. (doc. 7); T. Contri, La fabbrica della chiesa di S. Agostino a Modena: architetti, artigiani e materiali, in La chiesa di S. Agostino a Modena. Pantheon Atestinum, a cura di E. Corradini - E. Garzillo - G. Polidori, Modena 2002, pp. 42 s., 50; E. Poleggi, Genova: una civiltà di palazzi, Cinisello Balsamo 2002, pp. 35, 78, 97; The Dictionary of art, XIX, pp. 806 s.; U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XXIII, pp. 476 s.